GNOSIS 4/2011
ATTUALITA' INCONTRI SU TEMI CONTEMPORANEI Quattro chiacchere con..... Giorgio Cornacchione |
|
Comandante Cornacchione Lei è il Direttore del COI che è uno strumento interforze a disposizione dello Stato Maggiore della Difesa per esercitare il Comando operativo sulle Forze Armate impiegate in operazioni fuori area e sulle esercitazioni multinazionali: per i “non addetti ai lavori” qual è la effettiva attività del COI? Il COI è responsabile nei confronti del Capo di Stato Maggiore della Difesa dell’impiego di tutti gli assetti militari in operazioni, siano esse condotte al di fuori del territorio nazionale (oggi sono 26 in 20 Nazioni) sia all’interno del Paese (tra queste: la vigilanza ai siti sensibili denominata “Strade Sicure”, gli interventi di soccorso in occasione di pubbliche calamità e in ogni caso in cui l’Autorità di Governo decide l’impiego dei militari in aiuto a componenti della nostra società in situazioni di emergenza/difficoltà). In tal senso, il COI opera in stretto, costante contatto e coordinamento con le competenti strutture del Ministero degli Esteri, del Ministero dell’Interno e della Protezione Civile. A questo impegno si affianca un ruolo di programmazione e coordinamento di tutte le attività di preparazione specifica - e quindi essenzialmente esercitazioni - quando queste assumono una veste interforze (cioè coinvolgono più Forze Armate contemporaneamente), oppure nel momento in cui sussiste un interesse a svilupparle insieme ad altre Nazioni, magari anche all’estero. Il COI è responsabile, inoltre, di attività direttive in materia di studio e sviluppo di altre problematiche operative. Per esempio, al suo interno, è presente una struttura dedicata ad individuare le esperienze maturate in operazioni e ad approfondirle di concerto con le Forze Armate interessate per verificare l’eventuale esigenza di correttivi che implichino la modifica delle strutture militari, l’acquisizione di nuovi materiali, l’aggiorna-mento/evoluzione delle procedure di impiego (si tratta del cosiddetto “ciclo delle lezioni apprese”). Infine, il mio Comando ha nel suo ambito due ulteriori entità, definite a “frattura prestabilita”. La prima è un elemento di comando basato su un ridotto numero di Ufficiali e Sottufficiali che esprimono tutte le funzioni di staff necessarie a sviluppare un intervento sul campo, sempre pronto (con un elevato grado di operatività esprimibile in poche ore) a essere proiettato in una situazione di crisi per gestire l’intervento di unità nazionali ovunque nel mondo. Per esempio, lo abbiamo utilizzato, per nuclei, a più riprese, negli avvenimenti dell’inizio dell’anno che hanno coinvolto molti Paesi del Nord Africa per portare a termine le evacuazioni di connazionali e altri cittadini dalle aree di crisi. Il secondo è destinato a costituire, in sede, l’elemento di base su cui può incentrarsi un Comando europeo nel caso in cui l’Unione decida di condurre un’operazione militare e ne affidi la leadership all’Italia. È stato il caso quest’anno della pianificazione di un intervento umanitario in Libia, poi non realizzato, che ha visto rappresentanti di numerosi Paesi convergere sul COI per affiancarsi ai nostri delegati dando vita al Comando di “EUFOR Libia”. In ogni caso, il cuore pulsante del COI è rappresentato dalla sua Sala Operativa che, avvalendosi dei più moderni apparati che la tecnologia ci mette a disposizione, è in contatto continuo e diretto con tutti i nostri Comandi in operazioni per seguire la condotta delle attività al fine di sostenerli nel loro impegno e per esercitare la doverosa e necessaria informazione nei confronti delle Autorità nazionali sugli eventi occorsi e sullo sviluppo delle operazioni in corso. La tecnologia avanzata nel settore della Difesa sta assumendo un ruolo sempre più importante; ma quanto, “nel cuore dei sistemi”, la tecnologia può sostituirsi alle risorse umane? “Gli assi” dell’aviazione saranno definitivamente soppiantati dai droni? Ritengo che nessuna tecnologia, almeno per quanto oggi ci è noto, potrà mai sostituire totalmente l’elemento umano e questa impossibilità è probabilmente anche una fortuna. Tuttavia è innegabile che viviamo un periodo storico in cui la frequenza delle innovazioni tecnologiche ha raggiunto livelli qualitativi e rapidità di evoluzione che si ripercuotono inevitabilmente sulle operazioni militari. È noto inevitabilmente pure l’aspetto opposto della realtà e cioè che le innovazioni tecnologiche studiate per impieghi militari siano poi state ampiamente sviluppate e sfruttate, con grande beneficio, da tutte le componenti della società, fino a modificarne - anche in larga misura - usanze e modi di vivere. È dunque un dato di fatto che la robotica, l’ampio ricorso alle opportunità offerte dall’ingegneria informatica, la capacità di produrre nuovi materiali per la protezione di uomini e mezzi hanno consentito - a chi le possiede - sia la possibilità di diminuire le perdite sul campo, sia il risparmio di risorse umane perché consentono di sostituire il lavoro che in passato doveva essere svolto con l’impiego di molti militari con quello oggi sviluppato direttamente dalle macchine. Tuttavia, le guerre moderne e il loro carattere di “asimmetricità” impongono di mantenere il fattore umano al centro di ogni problema, pena il voler pervicacemente cercare soluzioni tecnologiche che, anche alla luce di recenti esperienze, sembrano non reggere alle prove sul campo. Fra i teatri di guerra in cui è impegnato il nostro Paese, quale scenario presenta i maggiori rischi? Stabilire una sorta di “lista di precedenza” tra i vari impegni operativi in cui le nostre Forze Armate sono oggi coinvolte è un esercizio in cui cerco di non farmi mai coinvolgere al fine di evitare nel modo più assoluto di sottostimare una qualsiasi operazione di cui siamo responsabili. È chiaro comunque che l’Afghanistan, per la complessità delle problematiche in gioco, ma anche per l’elevato numero di perdite sofferto da tutte le Nazioni che contribuiscono alle operazioni sul terreno, sovente impegna il mio Comando in maniera più intensa rispetto ad altri Teatri. A conferma del fatto che è assolutamente necessario non abbassare mai il livello di attenzione, potrei citare gli eventi recenti sia in Kosovo sia in Libano per sottolineare che nelle aree di crisi ove è presente una nostro Contingente militare un periodo più o meno lungo di stabilità non sempre vuol dire aver conseguito la sicurezza assoluta. D’altra parte la presenza dei nostri Contingenti a fianco degli altri Paesi in quelle aree è motivata dalla perdurante mancata soluzione di alcuni problemi, suscettibile di sfociare in nuove fasi di confronto. Laddove questa esigenza è superata vengono ritirati i militari sul terreno e la cooperazione del Paese prosegue sotto altre forme. Parliamo di Afghanistan, cosa cambia per il contingente italiano dopo il ritiro progressivo statunitense? Che cosa rende così ostile l’atteggiamento dei Talebani? In Afghanistan, negli ultimi due anni si era reso necessario un incremento delle Forze della Coalizione per consentire una svolta nelle operazioni in corso che accelerasse il processo di piena assunzione di responsabilità da parte delle Autorità locali legalmente riconosciute. Proprio in ragione dei positivi risultati conseguiti, dal mese di luglio scorso è iniziata la cosiddetta “fase di transizione”, articolata su più passaggi successivi, che porterà al completamento della missione NATO secondo un calendario condiviso con l’Alleanza Atlantica. L’impegno militare italiano nel Paese è dunque destinato progressivamente a diminuire -di concerto con le decisioni assunte con gli Alleati- modificando anche le forme di intervento sul terreno che sempre più avranno come focus la preparazione e il sostegno delle Forze di Sicurezza interne afghane, gradualmente portate ad un sufficiente livello di autonomia, piuttosto che le operazioni di controllo diretto del territorio. Le forze che si oppongono all’operazione di stabilizzazione condotta da ISAF su mandato delle Nazioni Unite vengono normalmente identificate con i Talebani, è noto invece quanto più complessa sia la realtà di quella che, con altro termine, viene catalogata come insorgenza: Interessi, diversità e cause diverse sono alla base delle loro azioni. Si può dunque parlare di motivazioni ideologiche, ma anche di difesa di forti interessi economici legati ad attività criminali così come di scontri per il mantenimento/riconquista di posizioni di potere. Certamente le differenze culturali giocano un ruolo importante ed è assolutamente necessario tenerne conto uscendo dalla fin troppo facile abitudine di applicare schemi e soluzioni che appartengono alla nostra cultura, ma che trovano un’oggettiva difficoltà di applicazione in quella realtà. Ma di questo credo che siamo ormai tutti consapevoli. Alla fine del mese di gennaio la Missione delle Nazioni Unite in Libano tornerà a “guida italiana”: cosa ci aspetta? C’è il rischio di una escalation di violenza nell’area? Le problematiche che caratterizzano la Regione sono sicuramente molto complesse e, nonostante siano vive da tempo, ancora non trovano soluzione. UNIFIL 2 è stata avviata appunto a seguito dell’ultimo conflitto scoppiato nell’area e da allora ha saputo garantirne in buona misura la stabilità. Certamente il fatto che le Nazioni Unite abbiano chiesto all’Italia di esprimere per la seconda volta l’Ufficiale Generale Comandante della Missione è, ritengo, il riconoscimento concreto dell’impegno del Paese nella Regione e della sua azione ferma, ma equilibrata, nei confronti delle parti in causa. Quanto alle possibilità di escalation di violenza, ribadisco che il Libano si trova al centro di una Regione ove si confrontano realtà diverse, sovente in contrasto tra loro, e dove quel che succede all’interno di un Paese si ripercuote inevitabilmente nei Paesi contermini, a volte con conseguenze anche pesanti. Tutto questo porta a ritenere sempre possibile che la stabilità sostanziale di oggi possa essere modificata anche per cause esogene. I “network del terrore” sono una realtà in continua evoluzione, è ancora effettiva la minaccia del jihadismo stragista? La competenza propria delle strategie per contrastare il terrorismo esulano dalle mie attività istituzionali; tuttavia, rilevo che da tempo le Forze Armate sono impegnate con circa 5.000 militari in supporto alle Autorità di Pubblica Sicurezza sul territorio nazionale e le motivazioni di questo impegno, come già più volte accaduto in passato negli ultimi 20 anni, sono da individuare anche nelle minacce che il terrorismo internazionale porta all’interno delle nostre comunità occidentali non solo enunciando slogan ed attuando propaganda e proselitismo, ma mettendo a segno attacchi mirati a obiettivi di varia natura. La scelta italiana di impiegare le Forze Armate a fianco delle Forze di Polizia è tra l’altro condivisa da tempo da molti Paesi europei. Anche queste Forze fanno capo al mio Comando, sulla linea di dipendenza tecnico-militare. Quanto è importante in un Paese la cultura della sicurezza e quali possono essere le strade maestre per la divulgazione? Negli ultimi anni, in particolare dalla fine della contrapposizione dei blocchi, il concetto di sicurezza si è evoluto. Venendo meno - almeno per il momento - l’immanenza di una minaccia militare diretta al territorio nazionale è emerso il fenomeno cruento del terrorismo, ma non bisogna dimenticare le dimensioni economiche-finanziarie, così come le evoluzioni tecnologiche della minaccia che oggi coinvolgono pienamente la società e il nostro sistema di vita. Mi rendo altresì conto che parlare di sicurezza della Nazione sia oltre modo difficile in un periodo storico in cui tutto porta verso la mondializzazione delle problematiche e allora siamo portati a pensare che tale responsabilità possa o debba essere delegata ad altri, a qualche entità sovranazionale non meglio definita (l’Europa, le Nazioni Unite, … ?). Tuttavia, la realtà di tutti i giorni ci dice che dobbiamo certamente operare in un quadro di accordi e di alleanze multinazionali, ma che nessuno si farà carico della nostra sicurezza se noi per primi non attribuiamo ad essa il giusto livello di risorse umane e finanziarie. L’Open Source Intelligence sta acquisendo un ruolo sempre maggiore nell’ambito della ricerca e delle linee revisionali strategiche: quanto sono complementari e integrabili gli aspetti Humint e Osint nel processo di Analisi per l’Intelligence? Non sono io ad aver rilevato che il 90 % delle informazioni che interessano sul piano operativo oggi vengono acquisite dalle cosiddette “fonti aperte”. Ciò detto, in una società mondiale dove la comunicazione ha ormai conseguito un ruolo sicuramente preminente nelle relazioni interne e internazionali, dove internet e i social network mettono tutti in condizione di sapere tutto, anche in aree che apparentemente possono essere considerate isolate o dove il livello di vita -quanto meno se esaminato con i parametri del mondo occidentale- può essere valutato “arretrato”, non si può non tenere conto di questa realtà e, forse, ancora non abbiamo ancora individuato gli strumenti giusti per interpretarla correttamente. Molte situazioni che abbiamo vissuto recentemente – tra cui “le primavere arabe” - lo dimostrano. La rapidità di sconvolgimento di situazioni apparentemente consolidate è sotto gli occhi di tutti e il ruolo giocato dai mezzi di comunicazione è stato più volte evidenziato. Istintivamente oggi siamo forse ancora tentati di “contenere” questa realtà, credo che più opportunamente dobbiamo imparare a gestirla. Quindi la risposta alla domanda è sicuramente sì. Anche rifacendomi alla mia passata, recente esperienza nel mondo dell’intelligence, quale Vice Direttore del SISMI poi AISE, non posso che confermare l’imprescindibilità e l’importanza di questa materia, che necessita di esperti di settore e analisti altamente qualificati, dal punto di vista delle necessarie conoscenze tecnologiche e linguistiche. La famiglia l’ha sempre supportata ed ha condiviso il Suo impegno professionale? Sì non ho dubbi al riguardo, anche se la mia scelta li ha pienamente coinvolti dovendo sopportare le mie frequenti e lunghe assenze, le ansie e le paure quando andavo e vado in zone a rischio, e decidendo di seguirmi con entusiasmo (sovente anche superiore al mio) nei numerosi -a volte onerosi- spostamenti che per loro hanno comportato cambiare scuole, amicizie, sfere di interesse e, periodicamente, impacchettare tutta la casa per trasferirsi in una nuova sede. Lei è un “figlio d’arte”: qualcuno dei suoi figli ha ripercorso le tracce della vocazione paterna? Sì sono “figlio d’arte” e non solo, se considera che ho un fratello, mia figlia e mio nipote che sono stati o sono Ufficiali in servizio. Sì siamo una famiglia di militari convinti, mio padre ci ha “contagiato” con il suo esempio e i due figli maschi non sono stati da meno. Io pensavo, avendo due figlie femmine, di non riuscire a trasmettere questa “vocazione”, ma poi le Forze Armate hanno finalmente aperto le porte al reclutamento femminile e la più giovane, l’unica che per età era in condizione di farlo, ha voluto seguirci in questa scelta di vita. Che cosa le manca dei suoi venti anni? Probabilmente quello che manca a tutti gli esseri umani miei coetanei la spensieratezza, la mancanza di responsabilità verso gli altri, ma con l’intima soddisfazione di aver vissuto una vita realizzando i miei sogni di ragazzo: servire il mio Paese.
|