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GNOSIS 3/2011
Dall'autobomba di Oklahoma City
alla strage di Utoya


Il 'terrorismo solitario'e la prevenzione possibile


Guido OLIMPIO

 
I “lupi solitari”, ovvero il terrorista senza struttura, il terrorismo senza schema, ma con un progetto individuale, riconducibile a una confusa visione del mondo facilmente definita “folle”. È un terrorismo difficile da prevedere e, soprattutto, prevenire. L’analisi che segue è un esame degli insegnamenti tratti da azioni terroristiche, portate a termine da individui senza storia, senza altro legame, oltre quelli che essi stessi si sono creati, talvolta all’insaputa dei loro interlocutori.
Il tramite è Internet, spazio virtuale all’interno del quale trovare e collocare persone che la pensano come lui. Il “lupo” esegue un’azione individuale ma può essere espressione di un gruppo, di un sentire diffuso, non ancora percepito o espresso all’esterno. Un fattore che alimenta l’incertezza sulla possibilità e la capacità di evitare in futuro altre stragi simili.


Li chiamano “lupi solitari”. Spuntano all’improvviso, colpiscono con grande violenza e si lasciano dietro una scia di vittime e di interrogativi. Azioni che sono terrorismo puro. Perché i protagonisti usano sistemi e modus operandi eversivi, finalizzati a provocare molti danni, come a incutere timore nella società. Un problema in più per le Forze di sicurezza, concentrate, in questi anni, nel parare la minaccia di organizzazioni strutturate.
In quest’analisi partiremo dall’episodio – sconvolgente – avvenuto il 22 luglio 2011 in Norvegia. Un duplice attacco compiuto prima con un’autobomba davanti alla sede del governo a Oslo, quindi con la sparatoria sull’isola di Utoya, durante una riunione di giovani socialisti. Decine di morti, caduti per mano dell’estremista xenofobo Anders Breivik. Un episodio raro per l’Europa ma che ha ramificazioni estese. E pone le autorità davanti ad una nuova sfida.
In un’epoca di forte crisi economica, i temi dell’immigrazione e di una presunta “invasione” straniera sono facili da sfruttare. Questioni laceranti che raccolgono consensi anche in settori insospettabili e si prestano a manipolazioni. Tanto più se è un singolo – o nucleo ristrettissimo – che le usa come giustificazioni per colpire in modo indiscriminato.
Uno studio ha calcolato che vi sono stati soltanto 72 attentati da attribuire a “lupi solitari”, appena l’1,28 per cento del totale. Dunque un fenomeno ridotto, ma destinato a crescere. Gli Stati Uniti restano l’area geografica più “accogliente” per questa forma di lotta estrema, tuttavia la vicenda norvegese segnala come anche l’Europa sia terreno di caccia per questi “predatori”.

Il lupo
Anders Breivik risponde, in parte, alla definizione di “lupo solitario”: un individuo che agisce di sua volontà, senza ricevere ordini da organizzazioni esterne, un uomo in grado di attivare se stesso, pur restando immerso nella realtà che lo circonda. Non importa l’appartenenza politica o la fede religiosa. Lo stragista di Oslo aveva un lavoro, pochi amici e ha programmato, al dettaglio, il suo piano. Un progetto portato avanti per anni. Il fatto di muoversi da solo non gli ha impedito di mantenere contatti con movimenti e gruppi di estrema destra o xenofobi. Lo provano i fitti contatti via Internet, i suoi viaggi e le visite a formazioni estremiste, in particolare in Gran Bretagna. Novanta minuti prima di massacrare tanti innocenti, Breivik ha spedito 1003 email ad altrettanti indirizzi di posta elettronica sparsi per l’Europa (Italia compresa). Messaggi che contenevano una sola cosa: il suo manifesto di 1500 pagine. Questo non significa che tutti coloro che hanno ricevuto l’email sono dei supporters del killer. Inoltre, alcuni dei destinatari erano ben lontani dal mondo estremista. Però è evidente che il norvegese ha sviluppato dei rapporti, alla ricerca di eventuali seguaci per il suo progetto di guerra. Lui stesso ha sostenuto che vi erano cellule pronte a portare altri attacchi: una vanteria che è tuttavia legata al modo di pensare del “lupo solitario”. Non si considera tale e proprio le relazioni stabilite con dei simpatizzanti lo portano a pensare di far parte di un disegno più ampio.
Uno scenario emerso anche per i “terroristi fai da te” ispirati da Bin Laden.
Come per i qaedisti anche per Breivik l’accesso a Internet si è tramutato in uno spazio virtuale (ma anche reale) dove trovare persone che la pensavano come lui. Il killer esegue un’azione individuale ma può essere espressione di un gruppo. E non è isolato come appare a prima vista. In talune situazioni, infatti, non è da escludere la presenza di complici. Magari nella fase iniziale del progetto, oppure semplicemente con un ruolo di fiancheggiatori. A legarli, lacci ideologici o logistici.
Gli esperti ritengono che non vi sia un profilo “preciso” del terrorista solitario. Certamente, vi sono dei punti di contatto e delle linee di tendenza. Particolari che possono mettere sulla stessa riga persone come Breivik – mosso da un’ideologia oltranzista – e gli sparatori folli delle scuole americane.
Chiariamo.
Sono categorie diverse, ma gli effetti – anche se in America su questo punto si fa finta di non vedere – sono identici. Trasformare i propri compagni di università in bersagli è un atto di terrorismo. Sparare sulla folla raccolta in un comizio in Arizona, come ha fatto Jared Loughner, è un atto di terrorismo. Se poi la molla che innesca l’attentatore è solo la paranoia poco importa. Uno strano pudore porta a ignorare questa dimensione. Bollare il protagonista come “un folle” è forse più rassicurante ed evita la ricerca, complessa, di risposte. Certamente, chi commette alcune di queste stragi è un fuori di testa. O è “anche”. Ma se si esaminano con attenzione i casi, è possibile scorgere segnali che non sono di competenza soltanto dei medici. Indicatori che, se tenuti da conto, possono evitare nuovi massacri. Comportamenti, scritti affidati a Internet, reazioni spropositate: prima di ogni strage, gli sparatori folli hanno seguito un sentiero, lasciando delle tracce che potevano essere colte. Continuare a ignorarlo è doppiamente colpevole.
Ma torniamo alle caratteristiche “comuni” che permettono di fissare alcuni confini. Si tratta di categorie non rigide, però che aiutano a comprendere il fenomeno. Vediamole in sintesi.

La società
Agli occhi del “lupo” la società corre velocemente verso il baratro. Le cause del disastro possono essere diverse, dipende dalla formazione politica o dalle situazioni contingenti. Le condizioni dell’economia possono incidere. Per il killer la sciagura che investe la società è però favorita o, peggio, pilotata da un’entità nascosta, quasi sempre lo Stato o una “classe”. Solo pochi si accorgono di quanto sta accadendo e sono in grado di dare la sveglia alla comunità affinché reagisca: un ruolo di sentinella sempre vigile che il “lupo” vuole assumere.

Lo Stato
È inevitabile per il “lupo” essere in contrapposizione con lo Stato e, dunque, sviluppa con il tempo una forma estrema di antagonismo. Lo Stato è visto come un oppressore che rallenta o impedisce la reazione. Anzi, in alcuni casi è considerato complice del nemico. Le forze dell’ordine, l’esercito e qualsiasi entità legata alle istituzioni sono degli avversari. Il censimento della popolazione o le tasse – altro cavallo di battaglia – sono il pretesto per innescare una reazione. I moderati scendono nelle piazze, il miliziano tira fuori il fucile. Questa visione dello Stato alimenta spesso teorie cospirative e, alla fine, porta gli estremisti ad atti violenti. Comprese forme di terrorismo generalizzato. Colpiscono il poliziotto o l’intero palazzo federale. È una realtà emersa in modo netto negli Stati Uniti sin dagli anni ’80 ed ha avuto l’episodio più grave nella strage di Oklahoma City (1995) pianificata da due estremisti di destra.

Il fronte
Per i “lupi” si tratta di una guerra totale, senza limiti e confini. Ci si deve battere su qualsiasi fronte, cercando di mobilitare altri. Il web, ovviamente, allarga gli spazi.

L’abilità
In questo mondo non c’è spazio per i dilettanti, perché non si possono fare errori. È una lotta fatta da professionisti. I “lupi” diffidano di chi cerca l’avventura, di chi parte lancia in resta, senza alcuna preparazione. Breivik è la dimostrazione perfetta di questo: ha studiato, ha preso tempo, ha creato la sua struttura militare, ha pensato alle coperture, ai finanziamenti. E i risultati si sono rivelati micidiali.

La spinta
L’attentatore sovrappone il personale al sociale. Mescola proprie frustrazioni (o rabbia) a qualche forma di ideologia. Questo gli permette di caricarsi anche da solo e di individuare nel prossimo (i colleghi, i compagni di scuola, le personalità) l’origine del suo malessere. Fisico e politico. A volte crea il proprio “sistema” e lo spiega. Questo cocktail di emozioni e condizioni mentali, a volte, rende più difficile l’analisi degli episodi delittuosi.

L’aiuto
Il “lupo” agisce da solo oppure in coppia. Ma, appena può, cerca di trovare comprensione, sostegno, appoggio. Internet è importante: fa da specchio, rilancia il messaggio all’infinito, aiuta a costituire – almeno a livello virtuale – un branco. Ci possono essere degli individui che non hanno alcuna intenzione di passare alla violenza, tuttavia sostengono le iniziative del “lupo”. Magari anche solo tacendo. In qualche occasione gli sparatori delle scuole hanno confidato i loro propositi ad altri. Senza dimenticare l’ambiente familiare. Una madre o un fratello possono dire molto sul loro congiunto.

Lo spazio
Alcuni tendono a isolarsi. Mentalmente e fisicamente. Il caso più celebre è quello di Ted Kaczynski, l’Unabomber statunitense che per 17 anni ha inviato pacchi bomba a professori universitari. Un neo-luddista che voleva punire i suoi ex colleghi. Faceva tutto da un piccolo capanno del Montana. Era davvero un solitario. Ma altri cercano comunque il contatto. Non agiscono nel “vuoto”, conducono esistenze normali o quasi.

Il messaggio
I “lupi” possono scrivere molto. Lunghi “manifesti” che devono raccontare il “perché” e le “origini” del loro gesto. Di nuovo, Internet ne favorisce la circolazione. Unabomber aveva inviato il manoscritto ai giornali, affinché lo pubblicassero e, alla fine, è stato scoperto a causa di ciò: il fratello ne ha riconosciuto lo stile e lo ha denunciato all’Fbi. Nel febbraio 2010, Joseph Stack III, titolare di una società in crisi, si è lanciato con un piccolo aereo contro il palazzo federale ad Austin, Texas. Un’azione da kamikaze. Il responsabile ha lasciato sul web una lettera di accusa contro il sistema fiscale Usa, ritenuto il principale responsabile del fallimento della sua impresa.

L’ispirazione
Alcuni “lupi” entrano in azione senza avere punti di riferimento precisi. Decidono che è il momento ed eseguono quanto hanno stabilito di fare. Altri, invece, seguono quasi un copione e si rifanno a chi li ha preceduti. Negli ambienti dell’estrema destra xenofoba, un libro che non può mai mancare è “I diari di Turner”. Un testo scritto oltre trent’anni fa da un membro della “supremazia bianca”, William Luther Pierce. Un romanzo che descrive la lotta di un estremista, seguìto da cellule indipendenti, contro lo Stato americano. Il protagonista fa esplodere un’autobomba costruita con il fertilizzante, poi partecipa all’attività clandestina di un movimento che si fa chiamare “L’Ordine”. Il loro obiettivo è spazzare via afro-americani ed ebrei.
Le indagini sulla strage di Oklahoma City hanno evidenziato come Timothy McVeigh – l’uomo poi condannato e giustiziato per il massacro – aveva i “Diari” ed ha usato lo stesso metodo d’attacco descritto nel romanzo: un veicolo riempito di esplosivo fatto in casa (con il fertilizzante). Identico anche l’obiettivo: un palazzo federale. Ma, a giudizio di molti esperti, sono forti le analogie anche con Anders Breivik. Di nuovo, l’arma è la stessa e, come Pierce, il norvegese insegue l’utopia folle di un mondo dove non vi sarà spazio per gli ebrei e per chi non è bianco.
Altro aspetto da sottolineare è quello più strettamente operativo. Nei “Diari” si immagina che l’attività armata contro lo Stato sia condotta da formazioni autonome. È il concetto di “resistenza senza capi”, molto cara agli estremisti americani. Louis Beam, ex membro del Ku Klux Klan, lo ha spiegato bene: “Tutti gli individui o gruppi operano in modo indipendente uno dall’altro. Non contattano mai alcun comando centrale o singolo leader per avere istruzioni”. Il pensiero è stato poi ripreso negli anni ’90 da altri ideologi neo-nazi per i quali è necessario “compiere atti violenti anche da soli”.
Breivik, nel suo documento, si considera un “cavaliere della giustizia”. Un combattente che deve proteggere la società in modo autonomo. Un rilancio dell’idea di “Phineas Priest”, progetto supermacista americano dove si esalta la “resistenza senza leader”. Questi sacerdoti-guerrieri si sentono scelti da Dio e vedono se stessi quali “agenti della vendetta”. Gli attacchi devono portare a una più ampia guerra razziale che si concluderà con la salvezza dei bianchi.
A questo punto non si può non fare un raffronto con la Jihad individuale, fenomeno cresciuto negli ultimi tre/quattro anni in Occidente. Come abbiamo scritto in un altro numero di Gnosis, i qaedisti si sono ispirati alla monumentale opera – circa 1600 pagine consultabili su Internet – scritta da Abu Musab Al Suri, un siriano che ha collaborato a lungo con il movimento di Bin Laden. Essendo vissuto a lungo in Europa (Gran Bretagna, Spagna) e avendo assistito a ripetuti fallimenti delle strutture create in Occidente, ha teorizzato l’azione del singolo, dettando regole, comportamenti e tattiche. Lo scopo – come ha ben sottolineato l’esperto Bruce Hoffman – è quello di motivare e attivare un individuo affinché organizzi un attacco al di fuori di qualsiasi catena di comando. E vi sono stati diversi esempi. Alcuni hanno avuto successo, altri meno.
È significativo come Anders Breivik non sia discostato da questo tipo di progetto. Nel suo manifesto ci sono istruzioni meticolose su come stoccare l’esplosivo, creare la base, inventarsi una copertura, calcolare le spese. Interrogato dopo la strage, ha sostenuto che erano pronte “altre due cellule”. E le indagini hanno portato alla luce molti contatti in giro per l’Europa. Ma nella fase di preparazione e poi nell’attacco, Breivik ha agito da vero lupo solitario: la polizia norvegese ne è convinta.
Altro aspetto è quello del plagio. Il norvegese ha attinto a piene mani al documento scritto dall’Unabomber americano, anche se lui era attestato su posizioni non di destra. Ma è evidente che Breivik non voleva passare soltanto per un uomo d’azione. Aveva bisogno di spiegare i suoi passi e anche di lasciare qualcosa per gli altri. Ed ecco allora la sua “Dichiarazione di indipendenza europea”.
Non avevano motivazioni politiche, ma anche i due di Columbine, Eric Harris e Dylan Klebold, hanno redatto un diario che ha anticipato la carneficina: 13 i morti nell’aprile del 1999. Si è affidato ad un video Seung Hui Cho, lo studente d’origine sud coreana responsabile del massacro all’Università Virginia Tech (16 aprile 2007, 32 le vittime).
Se questi documenti sono interessanti per chi deve fronteggiare questo fenomeno, lo sono purtroppo anche per gli imitatori. Nell’epoca di Internet questi manuali sono “immortali” e circolano con grande velocità. Diventano a loro volta fonte di ispirazione. Altri stragisti hanno ucciso nel nome di Eric e Dylan. Altri ancora possono studiare quanto lasciato in eredità da Breivik. E come per i qaedisti individuali il web diventa il cordone ombelicale che li nutre di ideologie e tendenze estreme. È ancora grazie alla rete digitale che i “lupi” pensano di essere un “branco”. Con questo non si vuole criminalizzare Internet – non bisogna stancarsi di ribadirlo – ma sarebbe ingenuo ignorarne l’uso fondamentale per chi ha in mente progetti criminali.

Il modus operandi
L’attacco dell’estremista solitario può avvenire con forme diverse. Semplici o sofisticate. Dipende molto dalle sue capacità militari e dai mezzi a disposizione.

La sparatoria
L’attentatore aggredisce il “nemico” con un’arma da fuoco. Una pistola, un fucile da caccia caricato a pallettoni, una carabina con cannocchiale. In paesi come gli Stati Uniti, dove la legge in fatto di permessi è generosa, non è un problema acquistare copie di fucili d’assalto. Ma basta anche una pistola semi-automatica dotata di caricatori lunghi. È diventata ormai celebre la Glock, comparsa in molti episodi, compreso quello norvegese o l’attentato al comizio di Tucson dove è rimasta ferita la parlamentare Gaby Giffords. È compatta, “maneggevole”, può essere dotata di un caricatore con una trentina di proiettili. Bastano per fare un massacro.
In questo tipo di attacchi, il “lupo” può eseguire una ricognizione preventiva sul luogo o, semplicemente, andare a caso. È sufficiente un concentramento di persone. Stesso discorso per l’obiettivo: in alcune occasioni il killer seleziona, fa la sua “inchiesta”, quindi esegue. Nel 2002, per tre settimane, i sobborghi di Washington hanno fatto da teatro agli agguati di un micidiale cecchino, John Allen Muhammad. Dall’interno di una vettura modificata e con l’aiuto di un minore, ha ucciso 10 persone e ne ha ferite altre tre in modo grave. Si è parlato di un movente jihadista, ma in realtà Muhammad voleva solo provocare caos e panico nella capitale Usa. Una bizzarra – e incomprensibile – ritorsione per i guai legati all’affidamento dei figli.

Attacco remoto
È quello scelto da Unabomber. Per 17 anni ha inviato piccoli pacchi esplosivi, composti da tubi e polvere da sparo. Il “lupo” ha in mente una campagna prolungata, vuole evitare di farsi scoprire ed allora si affida agli ordigni. Oppure all’avvelenamento di prodotti in una catena di supermercati. La sua presenza si concretizza con messaggi alla stampa o alle stesse vittime. Se è davvero da solo, trovarlo può diventare impossibile. Restando nell’ombra ha anche maggiore impatto sul piano psicologico. È possibile anche che vi siano lunghi intervalli tra un incidente e l’altro. Pause tattiche – così accresce l’incertezza – o per motivi di sicurezza.

Lo stragismo
L’attentatore insegue il massacro, vuole un grande spargimento di sangue. Le armi da fuoco, da sole, possono non bastare. Anche se le decine di vittime sull’isola di Utoya e quelle nei corridoi di Virginia Tech dicono il contrario. Il “lupo”, se ha le capacità, prepara un grande ordigno da sistemare su un veicolo. O ancora su un mezzo da trasporto di massa (treni, metrò, traghetti, aerei). Il ricorso a fertilizzanti e a prodotti chimici normalmente reperibili nei negozi comuni facilitano il suo compito. Se intende usare un’autobomba contro un bersaglio preciso dovrà eseguire un minimo lavoro di intelligence per evitare di essere bloccato durante l’avvicinamento o superare eventuali controlli. Breivik, che pure si è preparato per anni al giorno X, è riuscito a costruire l’auto esplosiva ma – per fortuna – gli esiti non sono stati quelli desiderati. Negli uffici c’erano poche persone e l’edificio del governo ha incassato il colpo. A Oklahoma City, invece, il pick up ha sventrato la sede federale.

L’azione mista
Il “lupo” prende di mira obiettivi selezionati con ordigni esplosivi inviati via posta o atti di sabotaggio. Iniziative seguite da attacchi in luoghi affollati. È il caso di Eric Rudolph. Cristiano, oltranzista anti-gay e anti-abortista, si è reso responsabile tra il 1996 e il 1998 di una serie di attentati (2 morti, 150 feriti). Ha colpito le persone radunate in un parco durante le Olimpiadi di Atlanta, ha organizzato attacchi dinamitardi contro medici abortisti e locali frequentati da omosessuali. È stato catturato nel 2003, dopo che ha trascorso anni di latitanza nei boschi della Carolina del Nord. Era addestrato alle tecniche di sopravvivenza, si muoveva come un soldato, calzava gli stessi scarponi delle unità speciali per confondere le tracce. Era davvero un “lupo solitario” nella selva. L’Fbi ritiene che, tuttavia, sia stato aiutato da alcuni simpatizzanti della zona che gli lasciavano cibo e abiti. Sono riusciti a prenderlo quando, affamato, rovistava in un cassonetto della spazzatura.

Armi non convenzionali
Estremisti di destra e terroristi fai-da-te hanno a lungo considerato l’ipotesi di attacchi con mezzi non convenzionali. E vi sono stati casi – negli Usa – dove sono emersi tentativi di usare tossine. La vicenda delle lettere all’antrace spedite negli Stati Uniti nel 2001 ha dimostrato che è possibile far ricorso a tale sostanza. Una storia che ha trovato un colpevole – uno scienziato che si è tolto la vita – ma sulla quale ci sono ancora molte ombre. Gli esperti avvertono: per queste forme di terrorismo serve una competenza che non è alla portata di tutti. Molti gli ostacoli tecnici. Anche Breivik ha fatto delle ricerche ma si è dovuto arrendere, bloccato dalla mancanza di expertise.

L’opportunità
Non va sottovalutata una forma di attacco usata in questi anni dai militanti palestinesi. Invece di ricorrere alle bombe, l’estremista usa il suo mezzo come un ariete per lanciarsi contro la folla o un corteo. A Gerusalemme hanno impiegato scavatrici e semplici vetture, lanciate a tutta velocità sui passanti in attesa a una fermata del bus. In Olanda, nell’aprile 2009, un uomo ha investito deliberatamente un gruppo di persone che assisteva alla parata reale. Cinque i morti, una quindicina i feriti.

Le infrastrutture critiche
Non solo persone, ma anche cose. L’attentatore solitario può inserire nella sua linea di tiro il tracciato di una pipeline, una ferrovia, una fabbrica o determinati impianti che ritiene una minaccia al suo modo di considerare la società o al “suo” ambiente. Può anche tentare di sfruttare il risentimento popolare verso alcuni progetti di grande impatto e presentarsi quale vendicatore. Ipotesi d’azione che potrebbero verificarsi sul terreno oppure nello spazio di Internet. Oggi le banche dati, le informazioni personali, i codici sono saccheggiati da criminali in cerca di guadagni facili o da hackers amanti della sfida al sistema. Il prossimo passo è quello dell’attentatore solitario che vuol far “saltare” la rete.

L’azione suicida
Si ritiene che l’azione suicida sia una prerogativa di alcuni gruppi. I qaedisti, i curdi, i palestinesi o i tamil. Ma proprio questi modelli uniti alla volontà di colpire ad ogni costo e in modo spettacolare possono portare a delle sorprese. In precedenza abbiamo citato il caso dell’uomo che ha fatto schiantare il suo Piper sulla sede governativa in Texas. Sempre a proposito di velivoli. In un rapporto redatto dall’Homeland Security statunitense nel decennale dell’11 settembre si segnala il pericolo rappresentato dagli aerei da turismo. Terroristi possono impiegarli in attacchi a sorpresa e di basso costo. La nota riguarda i qaedisti, ma come dimenticare ciò che avvenne nel settembre 1994: Frank Eugene Corder, 38 anni, ha rubato un Cessna e lo ha lanciato contro la Casa Bianca. Aveva problemi di alcol e droga, soffriva di depressione, ma era rimasto affascinato dall’impresa di Mathias Rust, il tedesco che era riuscito ad atterrare sulla Piazza Rossa a Mosca. In molti testi degli estremisti xenofobi è comparso il termine “martirio”. Magari si tratta solo di suggestioni ma possono portare a nuovi tipi d’azione. E comunque alcuni degli sparatori delle scuole, una volta compiuta la strage e circondati dalla polizia, si sono tolti la vita con un colpo in testa. Nulla vieta che possano farlo imitando i kamikaze della Jihad, portandosi dietro il maggior numero di persone possibile.

La minaccia
Al pari delle cellule “spontanee” di orientamento jihadista, gli attentatori solitari sono un problema serio per le forze dell’ordine. Intanto perché nella maggior parte dei casi ci si accorge di loro solo nel momento che vanno all’assalto. Negli Usa, l’Fbi e le polizie locali censiscono chi lancia minacce all’indirizzo del presidente. Inoltre tengono d’occhio alcune realtà. Ma se il killer è stato cauto e ha mascherato bene le sue intenzioni, ha possibilità di successo. Senza dimenticare che il processo di preparazione può durare mesi se non anni. Si può monitorare un personaggio sospetto, ma non è detto che fornisca spunti giudiziari o investigativi tali da autorizzarne il fermo. E in un’epoca di austerità, con i budget delle forze di polizia ridotte all’osso, le poche risorse sono destinate alle minacce più immediate. O ritenute tali.
Quando agisce in modo individuale, il “lupo” è protetto dal rischio dell’infiltrazione o dal tradimento del complice. Unabomber è stato scoperto grazie al fratello che ne ha riconosciuto lo stile. Se avesse continuato a mantenere le sue strette regole di condotta, con un isolamento da eremita, forse lo starebbero ancora cercando.
L’assalitore può avere qualsiasi origine. Di estrema destra, di sinistra, religioso integralista o ateo. Può nascondersi dietro cause condivisibili – come la difesa dell’ambiente – o ragioni strettamente personali (problemi familiari oppure legati alla sua professione). Vi sono migliaia di possibili moventi. E quando non esistono si inventano. Per gli apparati di sicurezza è davvero una sfida. Dove guardare? Quali scenari considerare?
Se l’attentatore non è troppo ambizioso e si accontenta delle armi che possiede, diventa complicato scoprirlo. Non deve esporsi nell’acquistare materiale proibito, riduce al minimo i contatti, non ha bisogno di complici. La sua vettura, la sua abitazione e una pistola rappresentano tutto il suo arsenale. Può anche superare indenne una perquisizione. Eventuali disturbi mentali – per chi li ha – rischiano di trarre in inganno chi indaga. Lo si considera un malato da curare. In qualche caso avviene, in altri no. E poco importa che la strage sia attribuita al “gesto di un folle”. Quello che conta sono le conseguenze. Un alto numero di vittime, lo choc e la paura nella società, le inevitabili liti sulla mancata prevenzione o se “poteva essere fermato”. Lo scenario del dopo non è diverso da quello di un attentato terroristico. L’unica differenza è che lo archiviamo in fretta.
Un altro aspetto al quale abbiamo accennato è l’emulazione. Il caso di Anders Breivik dimostra come l’omicida plurimo abbia pensato a prolungare gli effetti devastanti della sua azione. La “Dichiarazione” è lì a disposizione di chiunque voglia studiarla. È possibile per altri “cavalieri” – se usiamo la terminologia del norvegese – ripercorrere lo stesso cammino, usando il documento come una precisa “road map”. Sono indicati i punti critici, le difficoltà da evitare, i modi per aggirare la sorveglianza. Un manuale che unisce tecniche di resistenza e regole d’attacco. È dettagliato anche nella contabilità di gestione. Costi, spese, risorse economiche che permettono al “lupo” di andare avanti per molto. Chissà quanti altri oltranzisti hanno letto il manifesto e pensano di ripetere i passi di Breivik. Il norvegese può diventare un simbolo. E sarà interessante assistere alle sue prossime apparizioni in un’aula di tribunale. Il killer si è preparato anche a questo momento. Vuole usarlo come un podio per lanciare altri messaggi. Sono interessanti le reazioni di simpatizzanti jihadisti all’exploit di Breivik. Qualcuno si è rammaricato nei forum qaedisti di non essere riuscito a fare lo stesso, una delusione resa ancora più forte dalle motivazioni anti-islamiche del norvegese. Ma altri hanno preferito guardare alle conclusioni del piano di Anders: è riuscito ad attaccare il cuore di Oslo e a uccidere dozzine di persone, usando gli stessi sistemi dei seguaci di Osama. La lezione è semplice. Servono disciplina, determinazione, cura nei particolari, pazienza. E, soprattutto, una lunga preparazione. La fretta di passare alla fase due può compromettere l’intero piano.

Conclusione
Non essendo gruppo, non avendo capi o network, il lupo solitario è un nemico insidioso. Le ricerche condotte da istituti prestigiosi lo sottolineano e invitano le forze di sicurezza a prestare attenzione a questo tipo di rischi. Al tempo stesso, i report indicano che gli assalitori solitari non sempre hanno successo. Anzi, è vero il contrario. Sono molti i fallimenti e, tutto sommato, pochi gli episodi. Inoltre – rilevano altri – la vicenda che ha avuto come protagonista Anders Breivik è “eccezionale”. Nel senso che sono rari i personaggi come il norvegese.
Detto ciò sarebbe un errore sottovalutare ciò che questo fenomeno rappresenta. Perché il lupo sembra fatto apposta per il periodo che viviamo. Incertezza sul futuro, tensioni sociali, senso di ingiustizia profonda, diffidenza o ostilità verso tutto ciò che è establishment. Sono in tanti che non si riconoscono in partiti o movimenti, tanto meno nelle ideologie. Sono ancora gli Stati Uniti a fare da laboratorio. L’elezione di un presidente afro-americano, unita al collasso dell’economia, ha ridato voce a gruppi che sembravano scomparsi. Per questi ambienti il mondo sta vivendo la “tempesta perfetta”. L’Occidente è decadente, i cinesi comprano tutto e il Sud invade il Nord. L’avanzata dell’immigrazione – anche quella legale – e la mancanza di posti lavoro sono visti come i segnali di un tracollo imminente. Può allora esserci la tentazione di andare in guerra da soli. In talune situazioni si uniscono le questioni terrene a profezie apocalittiche. Jared Loughner, per fare un esempio, si era appassionato alla teoria della fine del mondo nel 2012.
Per anni abbiamo pensato che certi episodi di violenza individuale non fossero possibili nel Vecchio Continente. Invece abbiamo avuto stragi in serie: in Gran Bretagna, Germania, Finlandia e Norvegia, solo per citarne alcune in un elenco incompleto. Motivazioni diverse – dalla pazzia al razzismo –, risultati identici e devastanti.
Che cosa fare, allora? Studiare. Analizzare con attenzione i singoli episodi collocandoli – quando ci sono le condizioni – in un quadro globale. Monitorare certe tendenze: Internet è una fantastica finestra su realtà che si tengono fuori dalla corrente principale. Con la consapevolezza che tutto ciò può essere inutile se qualcuno ha deciso, in completo isolamento, di compiere una strage.


OSLO, 22 luglio 2011
Esplosione autobomba presso gli Uffici governativi
(Foto da http://static.fanpage.it)
 
ISOLA DI UTOYA, 22 luglio 2011
Strage al meeting dei giovani laburisti
(Foto da http://1.bp.blogspot.com)



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