GNOSIS 3/2011
Il FORUM |
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Quali sono gli effetti della crisi in Polonia e in Europa centrale più in generale? Al momento non direi che abbiamo avuto effetti sia l’anno scorso sia quest’anno. Abbiamo avuto il 3,8% di crescita economica l’anno scorso e ci aspettiamo un 4,0% di crescita quest’anno. Tra il secondo e primo trimestre del 2011 abbiamo avuto 1,0% di crescita nel bilancio tra trimestre e trimestre, per cui le cose vanno ragionevolmente bene, ma siamo consapevoli che c’è una grave crisi nell’Euro-zona i cui effetti potrebbero ricadere su tutte le economie europee, sia quelle che si trovano nell’area sia quelle che ne sono fuori e, quindi, ci sentiamo molto coinvolti. Tra le varie questioni emerge l’energia, che interessa molto la Polonia, che è Paese di transito in Europa. Secondo lei vi è la possibilità che l’Europa parli con una sola voce per quanto riguarda i prezzi del gas e altre questioni correlate? Oppure ogni Paese agirà per conto proprio? Noi siamo certamente a favore di un approccio comune a queste questioni. Penso che abbiamo fatto grandi progressi rispetto al 2009, quando c’era veramente pochissima politica comune sia a livello strategico sia per quanto riguarda l’ottenere un certo grado di diversificazione dell’offerta, e ancora per quanto riguarda una risposta comune alla crisi. Penso che questo sia accaduto forse troppo lentamente per noi, tuttavia sta andando avanti costantemente e di questo non possiamo che compiacerci. Che ricetta suggerirebbe all’Europa per risolvere la crisi? Vorremmo avere una politica comune, che richieda un approccio basato su un certo grado di riconoscimento del nostro ruolo come clienti. Ovviamente ci sono regole che la Commissione Europea applica ai fornitori, e noi siamo a favore di queste regole. Vedremo quanto ancora si possa ottenere, ma non solo come presidenza di questo semestre europeo nel 2011, ma come Polonia, sentiamo che più si adotta un approccio comune, più vi sono vantaggi per tutti noi in Europa. Crisi, austerità, disciplina fiscale... questo sta causando reazioni tra le popolazioni di Grecia, Gran Bretagna... pensa che la stabilità e l’unità dell’Unione Europea possano essere toccate dalle proteste delle popolazioni contro le majors? Crediamo che in Europa noi dobbiamo sia applicare la solidarietà sia prenderci la responsabilità. In altre parole, i Paesi che stanno fornendo assistenza ad altri devono capire che devono farlo per ragioni non di carità ma di solidarietà. Voglio dire che se falliscono nel fornire assistenza a breve termine, quando essa è necessaria, allora le conseguenze per tutti, inclusi i più ricchi e meglio piazzati tra i Paesi europei, saranno catastrofiche, non solo per i Paesi che si trovano in difficoltà, perché tutti si troveranno in difficoltà. D’altro canto mentre la solidarietà, se vogliamo, è un interesse del singolo ben definito di tutti coloro che lavorano insieme in una squadra e non dovrebbe essere confuso con la carità, dall’altro la solidarietà non è possibile a meno che corrisponda ad una responsabilità. Per questo abbiamo bisogno sia della solidarietà sia della responsabilità, e questo è il punto che stiamo sottolineando da tempo. Pensa che la crisi economica abbia un impatto sui Paesi terzi per quanto riguarda la sicurezza? Penso che se ci sono gravi crisi economiche, enormi shock, è impossibile che non ci sia un impatto. Vi sarà certo anche su Paesi che non sono nell’Euro-zona. Penso che il cambiamento nella politica estera del governo britannico, che adesso è a favore di una maggiore integrazione nell’area, che peraltro è la posizione che il governo polacco ha sostenuto per lungo tempo, è un segnale che tutti stanno comprendendo che è necessaria una più profonda integrazione se vogliamo tutti evitare la catastrofe.
Incontri come il World Economic Forum di Krynica in Polonia sono un’opportunità di confronto sulle dinamiche e sulle questioni attuali, come la crisi economica e finanziaria in questo momento. È importante guardare all’Europa, all’Italia, da questo punto di osservazione nell’Europa Centro-Orientale? Certamente, perché in qualche modo l’Europa centrale ed Orientale è anche un ponte verso realtà che normalmente sfuggono alla nostra attenzione quotidiana: mi riferisco, in particolare, a quali scelte energetiche vengono fatte e dove si vogliono far passare le grandi condutture del gas e del petrolio. È evidente che la Polonia è un punto di osservazione privilegiato che si spinge in qualche modo fino all’Asia centrale. Spesso noi dobbiamo guardare, ovviamente, ai nostri confini ma qui ci possiamo rendere conto delle potenzialità molto forti che l’Italia può avere. La storia della Polonia è sempre stata piena di diffidenze sia verso i tedeschi sia verso i russi; culturalmente, in un certo periodo, in Polonia hanno avuto una grossa influenza i francesi che però, non so adesso, quanto sia esercitata. Un Paese come il nostro è assolutamente ben accolto, per tanti motivi, per la possibilità di incrementare una collaborazione economica, strutturale ed infrastrutturale che, secondo me, è estremamente importante. Ritiene che in quest’area possano ripetersi i disordini di piazza che abbiamo già visto in Grecia ed in Gran Bretagna e che, ora, sembrano prospettarsi anche negli Stati Uniti? Possono esserci disordini in certe aree che vanno da qui fino in Asia centrale. Va detto che finora, oggettivamente, l’Europa è stata un bel biglietto da visita per la Polonia, perché in un certo momento ha consentito alla manodopera in eccesso – vi ricordate il famoso idraulico polacco? – di cercare sbocco nei Paesi europei. Naturalmente ora c’è il pericolo di un riflusso, ovvero che la crisi stia facendo rientrare i migranti, il che, naturalmente, potrebbe portare anche a degli elementi di instabilità. La cosa che mi ha colpito è, soprattutto, questa forza che, dall’Asia centrale, ha assunto la via della droga attraverso l’Afghanistan, e che riguarda il movimento di tonnellate di eroina che vengono portate in Russia e da lì non si sa dove. Quindi è assolutamente necessario avere sotto controllo la situazione in questi Paesi, per la sicurezza dei nostri. Si tratta di guardare non soltanto alla punta delle nostre scarpe, ma tenere sotto controllo questi fenomeni che, con l’allargamento dell’Europa, riguardano anche noi. Da più parti, nella Comunità Europea, vi è una richiesta di maggior disciplina finanziaria e di una maggior regolamentazione economica, ma gli Stati dell’Unione sembrano procedere individualmente. Non si è perso il concetto di sviluppo solidaristico presente nelle intenzioni dei padri fondatori dell’Europa? Questo è vero se l’Europa non riprende un’anima, cioè se non dimostra che prendendo decisioni a livello europeo si rimette in moto la crescita. Questa crisi è scaturita da molti fatti, però l’ultimo aspetto è quello della crisi dei cosiddetti mutui in America, mutui che venivano erogati più nell’aspettativa che non venissero resi per incamerarsi l’immobile, piuttosto che venissero onorati. Quando poi è scoppiato il mercato immobiliare è stato il disastro, la caduta – una sull’altra – delle carte di questo castello. Ora, io mi domando: cosa c’è di più immorale di un prestito dato sperando che non venga reso? Anche il capitalismo, quindi, deve avere un’etica per poter funzionare e, secondo me, il socialismo europeo dovrebbe dargli questa etica. L’ampliamento dell’Europa a 27 membri sembra aver messo da parte alcuni concetti che invece erano importanti nell’agenda europea come, nell’ambito della sicurezza, la difesa comune. Io ho dato un’indicazione molto precisa: dobbiamo tirare fuori dalla naftalina l’idea della cooperazione comune nella difesa dell’Europa, altrimenti ci si muove solamente quando la crisi scoppia davanti l’uscio di casa. Per esempio, nel caso della Libia, Germania e Polonia non hanno partecipato alla forza multinazionale, ma un conto è presentarsi come Unione Europea, un altro conto come singole nazioni quali Italia, Francia, Gran Bretagna, magari in lotta ciascuna per la propria area di influenza e per i propri interessi. Peraltro, poiché il ruolo degli Stati Uniti si sta dirigendo verso il Pacifico, penso che sia assolutamente fondamentale, per la sicurezza sia dell’Europa che del Mediterraneo, che questa entità europea sia di politica che di difesa si sviluppi. E noi potremmo, come italiani, avere un grande ruolo in questo perché abbiamo assistito a riunioni bilaterali franco-inglesi o tedesco-francesi che sono dispiaciute anche ad altri Paesi europei, per cui potremmo farci veicolo molto importante di una visione di cooperazione. Il che, poi, comporta, a mio parere, di rinforzare ed incoraggiare, in sede NATO, il famoso dialogo di iniziativa sul Mediterraneo, perché ai Paesi arabi in cui vi sono state rivolte in cerca di libertà e di democrazia, e che si sono liberati dei loro governi, bisogna dare un punto di riferimento e un elemento di solidarietà. Quindi vedo una forte Italia che dia un grande contributo a una forte ripresa dell’Europa come tale. Questo è il grande problema di sicurezza che dobbiamo porci.
Ora che l’effetto è passato dalle banche agli Stati, che cosa possiamo aspettarci per il futuro? Nel futuro questo significa che stiamo tornando a una certa regolamentazione. Per anni abbiamo sentito che il mercato era in grado di auto-regolarsi, il mercato e soltanto il mercato, ma abbiamo visto che questo non è vero, per questo ora è necessario re-introdurre alcune regole. Abbiamo una regolamentazione nel campo delle competenze e in altri campi che rende il mercato trasparente, affidabile e sicuro. Sono le regole europee, che cominciano in Europa e stiamo cercando di introdurle anche nel G20. La crisi potrebbe costituire per l’Europa un’occasione per rafforzare il suo ruolo dunque? Ne sono sicuro. Mi occupo degli affari europei dal 1957. Il Trattato di Roma è derivato da una crisi, così come tutti gli altri trattati dell’Unione e i passi che ad essi seguono sono sempre stati reazioni a delle crisi. Direi che la crisi è uno stato normale per l’Unione Europea. Perché? Perché la crisi forza a riflettere su passi che abbiamo difficoltà ad adottare, e ad un certo momento appare chiaro che è assolutamente necessario farlo, e che dobbiamo farlo. Ci sono Stati come la Germania e la Francia che stanno cercando di affrontare la crisi a modo loro… È stato sempre così. Di tanto in tanto vi sono Stati che pensano di dover guidare la comunità. È una cosa salutare in un certo senso: per esempio negli anni 1960 e 1980 fu l’Italia a spingere la comunità avanti e la tirò fuori da una situazione molto difficile. Adesso sono più la Francia e la Germania, e probabilmente in futuro sarà il turno di qualcun altro. Sono sempre quelli nelle condizioni migliori che cercano di spingere gli altri. Quali sono le conseguenze della crisi sul piano della sicurezza? Uno Stato deve affrontare due tipi di problemi: interni ed esterni… È normale. Sono entrambe correlate. In un momento di difficoltà i problemi interni si inaspriscono perché le città più povere pagano il prezzo più alto. Questo può creare malcontento e, a volte, può causare delle esplosioni sociali come quelle che vi sono state recentemente in Gran Bretagna e in Grecia. L’unico modo per contenerle è ritrovare il meccanismo di espansione dell’economia e tornare ai tempi delle vacche grasse… Pensate che le decisioni economiche che sono state prese possano contribuire a promuovere la crescita e, quindi, evitare questa crisi? A medio termine, non a breve termine, perché è necessario rendere la nostra economia più sana, perché si è surriscaldata e in questo momento è un’economia che funziona con il debito, con il debito estero e interno. Per questo è necessario regolare il debito, e così avremo un miglioramento sano. Ci vorranno certo quattro o cinque anni… Come attuale Presidente della Fondazione Jean Monnet pensa che i princìpi del grande europeista Jean Monnet siano stati rispettati? Sono ancora validi tali princìpi? Dovrebbero essere presi in considerazione di nuovo o cambiati? Monnet era molto pragmatico e quando i suoi metodi non potevano essere adottati dall’inizio accettava che la cooperazione intergovernativa potesse funzionare al loro posto. Per esempio, egli sostenne il Consiglio Europeo dall’inizio, da quando non era neppure una istituzione comunitaria. I princìpi di Monnet rispettati? No. Nella politica economica, se questi princìpi venissero applicati, dovremmo averne una comune che per ora non abbiamo. Abbiamo visto a Maastricht che si è lottato per avere una politica economica e fino ad ora non c’è stata alcuna volontà politica in tal senso. Speriamo che la crisi economica dia all’Europa più fiducia nella necessità di perseguire soluzioni più efficaci. Lei è stato Presidente del Parlamento Europeo e, quindi, dovrebbe essere consapevole degli errori che sono stati commessi in passato. Quali lezioni abbiamo appreso dal passato e quali sono gli errori che non devono essere commessi in futuro? Siamo consapevoli che stiamo lanciando una politica monetaria senza una politica economica comune, e Delors stesso disse che era l’inizio di un sistema nel quale una delle due gambe non era funzionante, ovvero la gamba economica. Infatti non era possibile perché l’opinione pubblica degli Stati membri, specialmente alcuni dei grandi, non era preparata ad accettarla. Questo non è accaduto in Italia, comunque. Inoltre c’è stato un altro momento in cui abbiamo commesso l’errore di rendere il patto di stabilità meno vincolante, precisamente perché la Francia e la Germania lo richiesero, e ora ne stiamo pagando le conseguenze. Dobbiamo imparare a evitare errori come questo: dobbiamo attenerci alle regole ed estendere le regole alla politica economica.
Come ha potuto evolversi la crisi dal debito privato al debito sovrano e quali saranno le conseguenze di questa evoluzione? Questa crisi internazionale è una crisi generale di indebitamento e ciò che è accaduto negli ultimi trenta, quaranta, cinquant’anni è un’enorme espansione sia nelle attività sia nelle passività del sistema finanziario. Le famiglie si sono ritrovate molto più indebitate, come abbiamo visto negli USA, e così è accaduto anche in alcuni Stati europei. Le banche e le società stesse sono divenute molto più indebitate. La crisi è iniziata proprio là, piuttosto che nel settore fiscale. Con questo non voglio dire che alcuni Paesi non siano caduti nella crisi perché avevano seri problemi fiscali – per esempio la Grecia o l’Italia o quei Paesi dell’Europa in cui il debito era già al 100% del PIL prima della crisi. In molti casi, però, il problema fiscale ha seguìto la crisi, non è stato la causa scatenante. In effetti è normale, come dicono diversi analisti, che in tre anni di crisi finanziaria il debito pubblico aumenti fino all’80%, ovvero quasi il doppio nei tre anni che seguono la crisi, per cui l’evoluzione di una crisi è piuttosto standardizzata. Il problema è cosa accadrà ora. È una battaglia tra debitori e creditori: i debitori hanno le risorse per fare i pagamenti nei tempi stabiliti? Oppure i creditori saranno costretti ad accettare qualche forma di svalutazione del credito? Vediamo che questo processo sta avvenendo in molti Paesi. Il sistema ci metterà anni prima di essere completato. Ovviamente se abbiamo una forte crescita allora è molto più facile per i creditori pagare sulla base di un reddito crescente, di quanto non sia pagare sulla base di un reddito decrescente. Dunque la crescita è importante e l’FMI ha sottolineato che vi è la necessità di non allentare lo stimolo fiscale in quei Paesi in cui c’è spazio per mantenere lo stimolo fiscale e, inoltre, ha sottolineato la necessità che la politica monetaria sia di sostegno perché vi sia una crescita. Le conseguenze, la ristrutturazione e il ristabilire la solvibilità sono minori. E la coesione sociale? Queste misure economiche per ridurre il debito sono molto difficili da affrontare per le popolazioni... Ovviamente quando le persone devono ridurre le loro aspettative, sia che siano creditori, sia che siano debitori, la cosa è molto dolorosa. Aspettarsi di avere un certo reddito, vedere l’onere fiscale aumentare sulle tue spalle, oppure perdere il lavoro, è una catastrofe e, anche dal punto di vista dei creditori, scoprire che si è stati molto più ricchi di quanto non si sarà in futuro è molto doloroso. Questo si riflette nel processo politico dei Paesi: in alcuni c’è una coesione politica più forte, come ad esempio, nei Paesi Baltici dove è stato fatto un enorme sforzo di adattamento senza che il tessuto sociale cadesse a pezzi; in Irlanda, invece, è stato diverso. In altri Paesi assistiamo a proteste contro le nuove misure e contro la crisi che sono comprensibili se pensiamo a coloro che stanno affrontando la perdita di reddito e la perdita di vitalità. E questo è un processo molto doloroso. Il sostegno ai programmi di adattamento che sia l’UE sia l’FMI stanno fornendo a Paesi come la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo sono intesi a sostenere e permettere la riduzione della contrazione necessaria in economia per ridurre il costo del processo di adattamento. Così questo è associato con provvedimenti politici di regolazione molto difficili che non sono necessariamente universalmente benvenuti. Ma bisogna considerare che le conseguenze del fallimento di regolazione così come proposto sarebbero molto gravi. Ma c’è sempre la questione all’interno dei Paesi dell’equilibrio politico tra debitori e creditori: i Paesi possono decidere di tassare in modi diversi, decidere di dare sollievo ai creditori e queste sono decisioni politiche da prendere all’interno dei Paesi. Si parla di privilegi. Pensa che ridurre una pensione costituisca un privilegio? No, penso che per una persona sia giusto aspettarsi di avere una certa pensione e penso che sia comprensibile. Tuttavia, le pensioni dipendono dal fatto che qualcun’altro deve essere in grado di fornire le risorse per pagarle, perché altrimenti non possono essere erogate, per cui penso che sia questo vincolo “budgetario” il vero problema che la gente deve affrontare ora. È estremamente doloroso affrontare questi assestamenti, ma alla fine bisogna rendersi conto che ne abbiamo bisogno per uscire da questo periodo e ricominciare a crescere. Ci possiamo riuscire e quanto più la coesione sociale è forte, tanto più sarà facile. Davvero questa è solo una delle solite crisi? In che cosa è diversa dalle altre? Quali cose innovative possono essere fatte per uscirne? Le crisi finanziarie sono molto comuni e vediamo che nella storia degli ultimi duecento anni, e perfino prima, vi sono state crisi. Da questo punto di vista questa crisi non è insolita, ma è insolita nella sua profondità. Non ne abbiamo avuta una crisi così grave dalla Grande depressione del 1929 che poi è durata per tutti gli anni ‘30 e non possiamo sapere se questa sarà una crisi anche più grave. Non ne siamo ancora fuori e, per quello che riguarda le cose innovative che si potrebbero fare, ebbene, forse potremmo avere un migliore controllo sui sistemi finanziari per evitare che le stesse cose accadano in futuro, ma ci vorrà ancora del tempo prima che si abbia sia una seria analisi sia il sostegno politico per cambiare il sistema alle basi verso una solida direzione. Siamo di fronte a un incendio e la priorità al momento deve essere quella di spegnerlo.
Quali sono le implicazioni della crisi per l’Europa? Penso che la questione più importante sia comprendere che l’integrazione dell’Europa è un beneficio per tutti noi. Abbiamo problemi soprattutto per quanto riguarda l’Euro oggi, ma dobbiamo capire da un lato che dobbiamo vivere in una solidarietà comune in Europa e che, dall’altro, dobbiamo proseguire con l’integrazione. La crisi finanziaria è una questione di mercato e regolamentazione, incluso il mercato finanziario. In questo scenario dobbiamo procedere verso una maggiore unione politica come Unione Europea. L’Europa si deve adattare ad essere più competitiva. Questo è in conflitto con l’idea di maggiore solidarietà e democrazia sociale? In Europa oggi da un lato abbiamo la competitività in tutte le economie, ma dall’altro tutti sappiamo e abbiamo sperimentato che l’Europa può sopravvivere alla crisi se è sempre più unita. Senza l’Europa non sopravviveremmo bene come abbiamo fatto due o tre anni fa. È nostra responsabilità mantenere stabile l’Euro e per questo è importante avere un maggiore coordinamento nell’unione politica, così come nella sfera economica e finanziaria. Per questo sono veramente convinto che l’Europa non ha completato la sua integrazione, che deve andare avanti. Sembra, allo stesso tempo, che dobbiamo stare insieme in un mondo globalizzato e siamo in competizione con gli USA, con i nostri amici, siamo in competizione con altre economie, ma dobbiamo farlo in modo positivo e onesto. Poi abbiamo altri problemi: come sappiamo, ci sono la questione della sicurezza, del cambiamento climatico, delle migrazioni: tutte questioni cui bisogna rispondere non solo a livello nazionale ma a livello europeo. I problemi di sicurezza: pensa che stiamo affrontando un momento particolarmente difficile ora, o pensa che questa sia la conseguenza dello sviluppo del XXI secolo, che vede l’emergere di nuove potenze come, la Cina, l’India e il Brasile… Penso che viviamo in un mondo insicuro, e che dobbiamo andare avanti a trovare istituzioni e regolamentazioni che includano la questione della sicurezza. Penso che sia molto importante per l’Europa il fatto che essa si sia unita, che l’Europa sia sempre più un attore anche nel campo della sicurezza. Abbiamo la NATO, ma non è abbastanza. Abbiamo bisogno di altre strutture per trattare con la Russia, che è un attore importante nel campo della sicurezza nel mondo globalizzato. Abbiamo bisogno di trattare con altri attori. Nel cosiddetto Terzo mondo ci sono attori in crescita di grande rilevanza politica e quindi penso che dobbiamo comprendere che abbiamo bisogno di basi giuridiche nell’ambito della sicurezza. Sono convinto che abbiamo bisogno di una base giuridica per tutte queste questioni e non soltanto trattati bilaterali. Ecco perché dobbiamo rafforzare le Nazioni Unite e riformarle, sulla base della partecipazione del Brasile, dell’Africa, dell’Asia che devono essere incluse come membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Abbiamo bisogno di cambiamenti in questo campo e dobbiamo fare maggiori sforzi per ottenerli. Ma questo implicherebbe che alcuni Paesi come la Francia o la Gran Bretagna perdano alcuni privilegi... Sono d’accordo con lei: questo a lungo termine sarebbe necessario, ma naturalmente sarebbe un passo positivo. Se il voto della Gran Bretagna e della Francia fosse il risultato di un accordo a livello europeo, questo sarebbe un primo passo, ovvero che queste nazioni non agiscano solo sulla base del voto interno nazionale ma che comunichino, prima di votare, con gli altri Paesi europei cosicché si avrebbe sempre più una politica estera comune per l’Europa. Lei è stato Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Democratica Tedesca, quale pensa che sia l’impatto della crisi sull’Europa come partner di molti Paesi terzi? Quale l’impatto sulle relazioni tra Europa e Cina, e con il Medio Oriente?. Da una parte dobbiamo rafforzare la nostra economia per renderla veramente competitiva, dall’altra ogni economia ha bisogno di popolazioni libere per impegnarsi e, quindi, dobbiamo unire le società, farle incontrare. Penso che la questione delle società sia importante, perché le società sono diverse e stanno crescendo. È un pericolo per noi, perché per mantenere un sistema politico abbiamo bisogno di consenso quando si hanno degli obiettivi particolari, c’è bisogno di consenso per il ricorso a certi strumenti e ottenere quel consenso sarà sempre più difficile. È proprio questa la ragione per cui abbiamo bisogno di strutture che portino le società ad incontrarsi, creando dibattiti pubblici e aperti per avere società aperte, abbiamo bisogno di mass media liberi e sempre più diffusione dell’Europa e dibattito in Europa sulle questioni fondamentali del nostro futuro. Pensa che la crisi all’interno dell’Europa favorirà le relazioni bilaterali più che le relazioni tra l’Europa e le grandi potenze? Questo è un pericolo, soprattutto per le grandi nazioni che pensano di dover trattare da sole con alcuni partners. Sono convinto che questo non sia il modo giusto: è una buona cosa che alcuni Stati prendano la leadership, ma deve avvenire e procedere in modo integrato. Dobbiamo andare avanti tutti insieme.
Lei ha dedicato un libro al mondo nel 2030: Le monde à l’horizon 2030. La règle et le désordre. Quali saranno i trend principali? Paradossalmente potrei dire che è più facile vedere come sarà il mondo nel 2030 che non nel mio Paese, la Francia, oggi. Direi che sono sette i trend che caratterizzeranno il mondo. Per prima cosa dirò che il mondo in futuro non avrà poli strutturati e neppure regioni ben strutturate. Penso che le maggiori organizzazioni regionali potranno o crollare o perderanno il ruolo che hanno ora, specialmente nell’Unione Europea. Penso che, anche se ci saranno altri tentativi di creare altre aree regionali, specialmente in America Latina o in Asia, queste comunque si indeboliranno negli anni a venire a causa della mancanza di solidarietà dei vari Paesi in ogni regione del mondo. I Paesi principali saranno legati per lo più ad altri Paesi di altre parti del mondo. Gli Stati giocheranno un ruolo preminente e definiranno più strategicamente i loro interessi nazionali. Queste nuove reti di Stati creeranno, in qualche modo, alcuni disordini, ma potrebbero anche creare un mondo più stabile di oggi, perché vi sarà un maggior senso di interdipendenza. È per questo che vedo l’idea di una multipolarità come assurda, perché ogni Stato in ogni regione del mondo opporrà resistenza all’egemonia di una potenza regionale nella sua stessa area e cercherà rassicurazione nelle relazioni con le grandi potenze all’estero. Il secondo trend sarà un completo cambiamento nella distribuzione della ricchezza. Spesso si dice che il mondo si sta muovendo verso est e non verso ovest, ma io penso che se ci concentriamo su questioni più specifiche, ci saranno cambiamenti significativi. Uno dei cambiamenti maggiori nei prossimi venti o forse trent’anni potrebbe essere un ridimensionamento della Russia come grande Potenza per ragioni demografiche, politiche, economiche e sociali. L’altro fattore principale di incertezza saranno i Paesi del Golfo: riusciranno o no a trasformare la loro economia in una economia di servizi? Naturalmente le altre incertezze riguarderanno l’Europa, non solo l’Euro-zona. Sarà capace di diventare una potenza politica, di creare una zona di stabilità e crescita e di ottenere buone posizioni nei mercati esterni? Manterrà il suo potenziale di ricerca e innovazione? Il terzo trend riguarda il ritorno degli Stati sul palcoscenico mondiale. Ciò avrà delle conseguenze significative per quanto riguarda le organizzazioni multilaterali. Potremmo suddividere queste organizzazioni in due parti: 1) le organizzazioni multilaterali generaliste dovranno probabilmente affrontare alcune difficoltà per espletare i loro compiti principali, incluso il peace-keeping e la costruzione di una più seria governance politica nel mondo. L’ONU e probabilmente la NATO, saranno a rischio, a causa delle discrepanze degli Stati. Il futuro dell’OSCE è ancora aperto; 2) d’altra parte penso che le organizzazioni internazionali specializzate avranno un ruolo crescente nel creare le regole e le buone pratiche che influenzeranno lo sviluppo delle regioni principali del mondo nei decenni prossimi. Il WTO, la Banca Mondiale, le banche di sviluppo regionale, l’UNDP, l’FMI e tutte le organizzazioni tecniche metteranno in atto nuovi standard, nuove leggi, che avranno una sempre maggiore importanza nel modellare il mondo a venire. Il quarto fattore è il nuovo potere di influenza che si manifesterà. Una domanda classica era: “Cos’è la soft power?”. Ora la vera domanda è: “Dov’è la soft power?”. La soft power sta in tutti i forum multilaterali nei quali i politici, gli accademici, le ONG e gli imprenditori e uomini d’affari discutono questioni scottanti. La domanda è: “Chi influenza questi dibattiti veramente?”, chi crea i nuovi standard? La risposta è: i gruppi di esperti all’interno delle organizzazioni internazionali, i think tanks e incontri internazionali e regionali come anche il Forum Economico Mondiale di Krynica. Vanno menzionati anche le gare d’appalto lanciate dalle organizzazioni multilaterali, le agenzie di sviluppo e gli Stati emergenti. I finanziamenti per questo expertise rappresentano una cifra di circa 650 miliardi di dollari, che include solo la parte soft. Il mercato hard che deriva da questo mercato di expertise salirà fino a 25 o 30 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni. Quindi le domande sono: chi sta influenzando lo schema di queste gare d’appalto, chi le vince, chi ha la capacità di pubblicizzare i progetti riusciti e “vendere” le proprie buone pratiche e norme alle organizzazioni internazionali e ai mass media? Il quinto fattore riguarda il fatto che ci sarà una nuova gerarchia di poteri nel mondo. Gli USA resteranno l’unica superpotenza del mondo, anche se gli Stati Uniti non sono più in grado di giocare da soli. Essi resteranno sempre parte della soluzione. Dovranno essere più cooperativi per riuscire ad influenzare gli altri ovvero a mantenere la leadership, che richiede che si deve abbandonare la tentazione, come ha detto una volta Zbigniew Brzezinski, di dominare il mondo. Ci saranno altri circoli: grandi potenze di secondo grado, potenze regionali, ma anche Stati falliti. Potremmo assistere ad un ruolo maggiore di Paesi come l’Indonesia, la Serbia, la Polonia, la Turchia, il Messico e alcuni altri. La questione resta: dove sarà l’Europa tra venti anni in questa nuova gerarchia delle potenze? Per quanto riguarda la Cina, essa sarà solo una superpotenza economica o assumerà un ruolo geopolitico? Il sesto fattore riguarda l’emergere e il sempre crescente ruolo delle società. Naturalmente siamo stati testimoni della primavera araba, ma ci sono molte altre regioni del mondo nelle quali le società avranno un ruolo sempre maggiore nell’influenzare le decisioni e per domare l’autonomia dei governi. Come ipotesi, possiamo dire che le società probabilmente non vogliono la guerra. Le società saranno una sorta di “fattore pacifico” che potrebbe influenzare i nuovi leader dei Paesi, obbligandoli ad agire più pacificamente e a prendere in considerazione i desideri e le aspirazioni alla pace, ad una migliore distribuzione delle ricchezze e alla democrazia in questi Paesi. L’assistenza alla democrazia che viene da varie organizzazioni, per lo più le ONG, aumenterà in futuro. Come settimo punto dirò una cosa che non viene spesso detta: saremo testimoni dell’emergere di nuovi leader in vari Paesi, alcuni anche non definibili democratici secondo gli standard occidentali. In Europa siamo abituati ad avere a che fare con i leader classici, ma ci sono molti nuovi leader in Asia, America Latina, Paesi del Golfo e così via. Tutti questi nuovi leader – politici, ma anche negli affari e intellettuali – hanno un’altra mentalità. Sono più internazionalizzati della maggioranza dei leader europei, per cui saremo obbligati ad avere a che fare con nuovi leader che saranno anche più acuti. Una delle principali lezioni da cui possiamo apprendere è che noi, in Europa, non dobbiamo abbandonare lo spirito internazionale e la mentalità internazionale. Dobbiamo restare aperti, e combattere fermamente ogni forma di nazionalismo estremo.
Il titolo del suo ultimo libro è “Europe 2020: competitive or complacent”, ovvero competitiva o compiaciuta, soddisfatta della sua condizione. Ma competitiva nei confronti di chi? Penso che riguardo le sue stesse popolazioni future, l’economia mondiale di 9 miliardi di persone che aumenteranno ancora, imporrà all’Europa di trovare una nuova posizione nel contesto economico. Se gli europei vogliono continuare a vivere bene come vivono oggi e magari meglio, dovranno comprendere che il mondo non sta ad aspettare che l’Europa risolva la sua crisi finanziaria o che pensi a un altro trattato. Gli europei devono competere in un mondo che ora ha un’economia pienamente globalizzata. L’Europa ha forze considerevoli sulle quali può costruire, ma il fattore tempo non costituisce una di queste forze e impiegando così tanto tempo a guardare la baia – ovvero fare trattati a destra e sinistra – perde di vista la nave e le dinamiche più ampie che si stanno sviluppando. Pensa che l’Europa stia in qualche modo perdendo un’opportunità? L’Europa ha molte opportunità di fronte a sé sulle quali può costruire, ma sono forze neglette. L’Europa è una delle economie di servizi più importanti del mondo. Il settore dei servizi è una enorme forza per l’Europa. Cambiando il modo in cui usiamo l’energia e costruendo un nuovo tipo di economia porterebbe l’Europa a guidare il mondo. È una economia di knowledge, di innovazione, ma non sta attirando una migrazione di lavoratori altamente qualificata, attrae lavoratori migranti non qualificati. Ognuna di queste aree costituisce un’opportunità enorme per l’Europa e rientra nelle sue forze, ma essa ancora de-capitalizza su queste forze e così perde una opportunità. A proposito della crisi finanziaria che sta colpendo seriamente alcuni Paesi come la Grecia ma anche in modo diverso la Gran Bretagna, con i disordini che vi sono stati. Pensa che l’Unione dovrebbe rispondere più seriamente a queste sfide?A proposito della crisi finanziaria che sta colpendo seriamente alcuni Paesi come la Grecia ma anche in modo diverso la Gran Bretagna, con i disordini che vi sono stati. Pensa che l’Unione dovrebbe rispondere più seriamente a queste sfide? Penso che la crisi finanziaria, la crisi dell’Euro stia distraendo gran parte dell’Europa da alcune di queste altre sfide e fino a quando non riuscirà a tenere sotto controllo la situazione, l’energia verrà investita tutta nella crisi, lasciando da parte molte altre questioni, e se le economie europee non possono crescere, allora i governi hanno meno spazio di manovra nel quale fornire istruzione, sanità, e infrastrutture, tutte quelle cose che le società europee si aspettano di avere oggi. Dunque risolvere la crisi economica e finanziaria è un primo passo per trovare una posizione per l’Europa nel futuro assetto. Pensa che la crisi finanziaria abbia un effetto sulla sicurezza, per esempio creando opportunità per il traffico illecito, per le mafie locali? E quali effetti ha in casi come i disordini in Gran Bretagna? Penso che nel nucleo centrale dell’Europa, l’Europa occidentale tradizionale, le generazioni siano cresciute pensando di avere diritto ad un certo tipo di welfare[, e questo costituisce il loro senso di sicurezza. Se guardiamo alla capacità futura dei governi europei di fornire quei servizi, ci rendiamo conto che in alcuni casi non ve ne è la certezza, cosa che genera un tremendo senso di insicurezza tra gli individui che erano abituati a un certo stile di vita. Se si aggiunge a questo il cambiamento demografico in alcuni Paesi come l’Italia, in cui una parte della popolazione più anziana deve essere sostenuta da una parte molto più piccola di popolazione in età da lavoro, e non c’è un afflusso di lavoro migrante qualificato e di talento da altri Paesi, si verificano delle situazioni critiche. Direi che questa è la vera sfida dell’Europa: deve adottare una strategia basata sul talento per attrarre migranti altamente qualificati, che vogliono vivere in Europa e anche trascorrere il loro futuro là, perché l’Europa è una economia del sapere e dell’innovazione e questo è quello che può produrre. Quando la torta diventa più piccola, il compromesso è più impegnativo. Stiamo vedendo che in alcune economie questo è il motivo per cui la crescita è tanto importante per la giustizia sociale. Pensare che si può andare avanti senza una economia che cresce, come alcuni commentatori affermano, penso sia falso, perché la crescita fornisce quello spazio di manovra per fornire welfare sociale. Quindi se la gente pensa di essere minacciata allora cerca dei capri espiatori, e un’altra ragione per la quale pensare che il problema non sia suo ma di qualcun altro. Questo può davvero costituire un problema nel tempo.
Lei sostiene che stiamo assistendo a un ritorno alla “Realpolitik”, soprattutto in Francia… Durante un bagno di folla nelle strade di Benghazi, a fianco del Primo Ministro britannico David Cameron e del presidente del Consiglio nazionale di transizione libico, Moustapha Abdeljalil, il presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy ci ha ricordato che nella politica estera la parola e il gesto spesso vanno di pari passo… La presidenza del G8/G20 dalle tonalità piuttosto riformiste – specialmente per quello che concerne la moralizzazione della finanza internazionale e degli operatori di fondi internazionali nella crisi legata al debito degli Stati; il rilancio dell’Unione per il Mediterraneo – nel contesto delle rivoluzioni magrebine e della creazione ardentemente sostenuta di uno Stato palestinese; la leadership riconosciuta alla Germania per quanto riguarda le valutazioni per far emergere una indispensabile governance economica dell’Euro; l’ambizione in termini di pianificazione e di capacità rinnovate in materia di Europa e di difesa, e affermazione del rafforzamento del peso dell’Europa in seno alla NATO cui la Francia si è ricongiunta sulla parola durante il Summit di Strasburgo-Kiehl dell’aprile 2009 e negli atti attraverso il suo impegno in Afghanistan... questa Realpolitik, insieme ad un ritorno della «Hard Policy», mirava ad essere messa al servizio dei Paesi più deboli, nello spirito della Carta delle Nazioni Unite, per la quale la libertà di proteggere è un diritto inalienabile. Qualche settimana fa, ricordando i successi recenti della diplomazia francese e l’azione efficace delle Forze armate francesi nel quadro delle sue OPEX (le operazioni estere sotto mandato UN, NATO o EU) – al metro del regolamento della situazione libica – davanti alla Conferenza degli ambasciatori francesi riuniti a Parigi, Nicolas Sarkozy ha implicitamente confermato che la Realpolitik applicata da Parigi ha portato i suoi frutti. Ha ripetuto, inoltre, davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riunite a New York, nei giorni scorsi, proponendo – se la creazione di uno Stato palestinese avesse luogo nel palazzo di vetro – di riavviare il dialogo israelo-palestinese su base europea e de facto francese. Nondimeno l’ampiezza della crisi economica e sociale potrebbe rimettere in discussione questa rottura in un cambiamento di natura e di azioni di politica estera francese. In effetti, questa crisi porta con sé la questione della globalizzazione ultra-liberale, perché è il risultato, in particolare, della continuità del deficit strutturale degli Stati Uniti e del peso egemonico che fanno pesare gli indici economici americani. Quali le conseguenze? Ci saranno altre crisi? Ricorderò soltanto le prime conseguenze: l’1,5% del PIL mondiale – più di mille miliardi di dollari – è stato inghiottito. Ci si chiede se ci siano altre crisi in arrivo. La vera domanda è: quale sarà la prossima crisi? Quali saranno i suoi effetti dal punto di vista della sicurezza? Sembra in effetti che si sia entrati in una logica di economia di bolle speculative dopo la crisi del mercato delle azioni del 1987, la recessione degli Stati Uniti nel 1991, la crisi asiatica del 1997, l’esplosione dei valori internet nel 2001 fino a quest’ultima crisi dei sub primes dell’autunno 2008. Ci si può domandare legittimamente quale potrà essere o dove si situerà la prossima bolla? Questa sarà verosimilmente una crisi finanziaria centrata sul surriscaldamento derivato dai tassi di crescita cinesi, che rasentano l’11%. Aggiungiamo a questo il riflusso di certe piazze finanziarie forti del Golfo (come Dubai): il quadro che ne deriva ci dà poco di cui gioire. Questo ci porta ad «orientaleggiarci» di più, e a prendere coscienza del shift geo-economico, che per la prima volta non è favorevole all’Occidente ma va a vantaggio dell’Asia. Conviene a tal fine prendere maggiormente in considerazione il peso dei Paesi emergenti che stanno diventando il motore essenziale del ri-avviamento economico attuale. Come si collocano i Paesi emergenti nel quadro globale e rispetto alla crisi? Prenderò in considerazione solo il fatto che l’economia mondiale già si basa meno sui 31 Stati più ricchi raggruppati nell’ambito dell’OECD che sul gruppo dei 77, che riunisce le economie emergenti. Questo mondo complesso deve far fronte ad una asimmetria delle economie, fattore «crisigeno» e ansiogeno, poiché si basa sulla congiunzione di crisi successive, come ci si è resi conto a partire dal 2008. Il ciclo è ben noto: una crisi finanziaria che arriva a seguito di una crisi economica, che a sua volta sarà seguita da una crisi sociale, politica, può anche destabilizzare un governo che potrebbe portare alla logica della guerra civile o a rivalità armate tra gli Stati. Non a caso il rapporto del FMI del luglio 2008 indicava che 33 Paesi avrebbero potenzialmente oscillato in una logica di crisi e di guerra civile a causa della congiunzione tra crisi economica, alimentare ed energetica.Diversi rapporti, tra cui quelli dell’FMI, del CIHEAM o della FAO mettono in risalto il fatto che siamo in un pianeta popolato da 9 miliardi di abitanti. Preciso che l’Europa nel 2050 non conterà che 500 milioni di abitanti come adesso, cosa che conferma il fatto che dobbiamo avere un approccio che mescoli pragmatismo e andamento prospettico che ci allontana un po’ dal nostro percorso nazionale. C’è un pianeta sul quale un certo numero di individui verranno toccati da crisi di insufficienza, come nel 2008 è avvenuto con la crisi attorno ai biocarburanti in Brasile, con l’aumento del prezzo del petrolio e il raddoppio in pochi giorni del prezzo delle derrate di prima necessità (riso, latte, grano…). Questa congiunzione di guai politici e di disordini sociali ha prodotto delle conseguenze drammatiche. E bisogna ricordarsi dei moti per la fame a Tunisi nel 1984 o, più recentemente, in Thailandia o, ancora, l’insicurezza alimentare che ha fatto cadere il governo di Thaksin nel 2006. Era possibile prevedere, prevenire? Man mano che la crisi si amplifica, ci si rende conto del fatto che di fronte ad essa pochi analisti geo-economici sono stati in grado di anticipare le prospettive macro-economiche, e di riflettere sul fatto che questa crisi è, prima di tutto, una crisi dell’ultraliberalismo e dei fondamentali economici imposti dagli Stati Uniti. Del resto, mescolando debiti delle famiglie, delle imprese, i debiti pubblici, il tasso del loro indebitamento si avvicina ormai al 410% del loro PIL. Ne viene, de facto, particolarmente importante riflettere sulla logica di una nuova architettura strategica e di una governance monetaria, finanziaria ed economica a volte al livello di certe organizzazioni intergovernative economiche e finanziarie come quelle più specificamente di tipo diplomatico. L’ex Ministro degli Affari esteri francese Hubert Védrine nel suo ultimo rapporto su «La Francia di fronte alla globalizzazione», presentato al Presidente della Repubblica nel settembre 2007, precisa, del resto, che il sistema di Bretton Woods (che creava nel 1944 l’FMI e la Banca Mondiale e la BERS) deve essere valutato di nuovo ed è giusto insistere sulla necessità per l’Europa di ricorrere a una forma di protezionismo più sottile a livello europeo: una logica colbertista. Ricordiamo che l’accettazione dei deficit pubblici e la deregulation globale non hanno impedito le crisi messicana (1995), asiatica (1997), russa (1998), argentina (2001) paragonabili a quella che vivono attualmente diversi Paesi europei: la Grecia in testa, senza dimenticare i rischi di «perdita di fiducia» dei finanziatori privati e pubblici multilaterali (FMI, BCE, banche regionali) che l’aggravarsi dei deficit pubblici portoghesi, rumeni o italiani pesano sui mercati finanziari. Tenendo conto di queste imperiose necessità di inventare delle nuove strutture di coordinamento, di dialogo, non si può che rallegrarsi del fatto che si sia passati da una logica di G8 a una logica di G20, che tiene molto più conto dell’affermazione di nuovi attori sulla scena internazionale. Come si presenta dunque il nuovo assetto globale? L’acronimo BRIC, ci è ora del tutto familiare: Brasile, Russia, India e Cina, ai quali conviene aggiungere il Sud Africa, sono tra i massimi attori dello sviluppo e ci portano ad una logica di economia vincolante, non fosse che per loro stessa volontà e capacità di recuperare quelle che essi stimano carenze dello sviluppo... D’altra parte i Paesi del famoso BRIC sono vincolati dal loro tasso di crescita eccezionale a due cifre. È questa logica che ci deve portare categoricamente a riflettere sulle nuove istanze, e su questa nuova architettura internazionale, che conferma l’allargamento dal G8 al G20. Il rapido intervento, massivo e coordinato degli Stati – e quello della metà ottobre 2008 – al fine di arrestare questa crisi non è ormai più un argomento tabù con l’intervento che si è realizzato con l’iniezione del credito interbancario salito a 1700 miliardi di euro. Questo ci ha permesso di evitare di passare da una logica di recessione a una situazione di depressione! Allo stesso tempo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non rappresenterà che un sedicesimo della popolazione mondiale nel 2050. Un certo numero di attori devono dunque fare la loro entrée, anche tenendo conto del fatto della capacità che le loro economie emergenti hanno saputo mobilitare per aiutare a risolvere questa crisi. Per esempio, durante la crisi alimentare del 2008, il World Food Program non aveva saputo raccogliere che 500 milioni di euro, mentre i fondi sovrani di Dubai racimolavano dieci volte di più. E questo è il momento in cui festeggeremo il 50° anniversario delle indipendenze africane, il momento in cui si strutturerà un certo numero di progetti diplomatici di espansione sub-regionale attorno, in particolare, allo spazio mediterraneo, il momento in cui il Presidente della Repubblica manifesta la sua costante determinazione e ferma volontà di far udire la voce europea in una stessa e unica direzione, il momento in cui l’Europa manifesta la vocazione a iscriversi nel nuovo partenariato strategico. Quali le sfide in futuro? Quale ruolo per la Francia? Il summit dell’ONU che nell’ottobre 2010 celebrava il X anniversario degli Obiettivi del Millennio per lo sviluppo, ha dimostrato con viva determinazione l’urgente mobilitazione alla quale si deve agganciare la comunità internazionale perché gli 8 obiettivi fissati vengano realizzati entro il 2015. Va ricordato che questi obiettivi sono ambiziosi seppure realizzabili: 1. Sradicare la povertà estrema e la fame; 2. Rendere universale l’educazione primaria; 3. Promuovere l’eguaglianza di genere e l’empowerment delle donne; 4. Ridurre la mortalità infantile; 5. Migliorare la salute materna; 6. Combattere l’AIDS, la malaria e le altre malattie; 7. Assicurare la sostenibilità ambientale; 8. Sviluppare una partnership globale per lo sviluppo.
Pronunciando il suo discorso in quell’occasione davanti ai centocinquanta capi di Stato e di governo, la Francia intendeva anche mettere in risalto i fattori positivi delle politiche portate avanti a favore dello sviluppo qualche mese dopo la sua presidenza semestrale del G8/G20. Per la Francia era importante, soprattutto, dimostrare che il passaggio da una logica da G8 (che riuniva le 8 economie «occidentali» più dinamiche) a una logica da G20 (che prendeva in considerazione le potenze emergenti, in particolare quelle del sud), conferma la pratica di una co-gestione con dei nuovi attori sulla scena internazionale e, questo, per affrontare le grandi questioni geopolitiche e geo-economiche del momento e di domani. Ricordiamo che la Francia resta il secondo donatore, con 10 miliardi di euro di aiuto pubblico allo sviluppo (APS). Da sola la Francia contribuisce fino al 10% dell’APS e, malgrado la crisi, Parigi ha aumentato, dal 2007, il suo APS del 20%. La Francia ha, inoltre, proposto l’aumento del 20% del proprio contributo francese al Fondo Mondiale di Lotta contro l’AIDS, la tubercolosi e la malaria per i tre anni a venire (2011-2013). Le Nazioni Unite devono, dunque, d’ora in avanti superare una tappa importante creando una tassa universale sulle transazioni finanziarie, aprendo con essa l’atteso vasto cantiere di una nuova governance internazionale più solidale. Il caso del Continente africano è esso stesso un esempio, ahimé, caricaturale di questa «asimmetria» geopolitica. L’80% delle decisioni che vengono prese in seno al Consiglio di Sicurezza lo concernono direttamente! Come può essere altrimenti, visto che l’attuale Consiglio di Sicurezza dell’ONU rappresenta soltanto un sesto della popolazione mondiale? Come si può in effetti privare del diritto di parola miliardi di abitanti? |