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GNOSIS 1/2011
Il FORUM



Unificazione e governabilità
il difficile percorso italiano

a cura di Emanuela C. DEL RE



1861:Giuseppe GARIBALDI in una Seduta del Parlamento
( Foto da www.romaoltrelemura.it/images/)
Lo staffato, quadro dipinto da Giovanni Fattori intorno al 1880, costituisce la summa di un’epoca, per quanto se ne sottolinei più l’amara vis polemica che non l’alto valore simbolico. Un soldato ferito – già morto? – col piede incastrato nella staffa viene trascinato dal cavallo imbizzarrito in corsa, lasciando dietro sé una scia di sangue. Non è un soldato, è “il” soldato; non è una guerra, è “la guerra”. E questo proprio perché a differenza dei quadri dello stesso periodo – da Hayez a Induno – ossessivamente e magnificamente descrittivi, con dettagli minuziosissimi di volti e arti a volte martoriati dalla battaglia, a volte fieri di fronte alla sorte, sorretti dalla fede nella giusta causa, con divise e luoghi ben distinti, così come i momenti storici, Fattori rende il luogo in cui accade il fatto un luogo qualsiasi, il soldato non ha volto, e neppure la divisa è distinguibile.
E' la guerra allo stato puro, il senso dell’orrore, il senso del prezzo degli ideali. Non a caso nel 1864 fu istituita la Croce Rossa Internazionale, che era nata in Italia ma che fu poi formalizzata nella Convenzione di Ginevra.
L’orrore della Battaglia di Solferino aveva sconvolto così profondamente Henry Dunant da portarlo a fondare l’istituzione internazionale che fu poi insignita del premio Nobel per la pace nel 1901.
A vent’anni dall’Unità d’Italia, la riflessione si era spostata sull’uomo, ma l’ideale restava sullo sfondo. Ma è proprio l’uomo che si voleva costruire, e non a caso è quello il periodo in cui Collodi scrive l’immortale Pinocchio e De Amicis scrive Cuore, pensando alle nuove generazioni, che si andavano formando con lo sguardo oltre il confine delle divisioni geografiche, con una consapevolezza delle questioni sociali, con un intento universalistico che seppur oggi appare a tratti eccessivamente enfatico, tuttavia rivela fondamentali principi ispiratori che si rispecchieranno poi nelle grandi riforme sociali che proprio allora venivano attuate.
La giustizia, i diritti sociali, le Forze dell’ordine.
In quel periodo si erano riformati i codici, si era riordinato l’Esercito, si decidevano strategie di contrasto nuove a fenomeni antichi come il brigantaggio. Il codice Zanardelli, pur da subito criticato, aboliva però tra l’altro la pena di morte, introduceva fondamentali diritti di garanzia.
Tutto questo si riflette in Pinocchio, specchio di un’epoca, assurta così a riferimento perenne. Pinocchio si confronta con i briganti – che altro non sono che il Gatto e la Volpe – che per la popolazione italiana di allora costituivano uno dei problemi di sicurezza più gravi.
Si confronta anche con il problema della cittadinanza, del rispetto della legge: incontra i Carabinieri, che lo arrestano, e il giudice “scimmione rispettabile”, da cui viene condannato per essersi lasciato imbrogliare – è la favola – e deve capire, suo malgrado, come deve conformarsi alla legge e alla comunità, con la sua capacità di includere ma anche di escludere.
Anche in De Amicis ci si muove in un delicato equilibrio tra inclusione ed esclusione: la figura di Garrone – il popolo – difende i più deboli dai soprusi dell’arroganza dello status con la forza delle convinzioni e dei principi morali; vi è un continuo richiamo all’appena passato periodo di guerra con bambini di ogni provenienza geografica nell’Italia che si stava unendo in prima linea, sia nei combattimenti – La piccola vedetta Lombarda, Il tamburino Sardo – sia nei grandi flussi migratori – dagli Appennini alle Ande.
E c’è la grande speranza dell’istruzione, che già con la legge Casati aveva spostato sullo Stato la responsabilità dell’istruzione e aveva introdotto l’obbligatorietà dell’istruzione per tutti i bambini per il primo ciclo scolastico per il primo biennio che, seppur spesso disattesa, segnava però una prima consapevolezza della necessità di istruire un paese prevalentemente agricolo, con tassi di analfabetismo intorno all’80 per cento. Con la successiva Legge Coppino del 1877 l’obbligatorietà verrà innalzata a tre anni e applicata maggiormente.
In un passo bellissimo De Amicis sottolinea questo passaggio descrivendo la forza del movimento di quell’“esercito” di studenti che si recano a scuola ogni giorno, che costituisce il vero elemento dinamico universale che unisce tutte le popolazioni e le generazioni in un comune cammino verso il futuro.
Come parlare dunque di Unità d’Italia?
Come riassumere il fervore di un’epoca tanto significativa?
A chi e a cosa prestare attenzione, tra le mille sfaccettature che si offrono all’analisi, ora razionale, ora emotiva?
Da un lato l’emozione, certo, della storia di lotte e ideali, di altissime personalità che hanno contribuito alla storia d’Italia, d’Europa e del mondo, e di uomini e donne qualunque, di bambini.
Dall’altro la razionalità della consapevolezza, a centocinquanta anni da quegli eventi, degli aspetti positivi e negativi, delle conseguenze, delle radici che hanno dato frutti e di quelle che si sono rivelate rami secchi.
Degli uomini si è detto molto, e basta vederli rappresentati nei monumenti nelle piazze del nostro paese, a fronte alta, su cavalli composti, in busti che esaltano la fierezza dei tratti.
Delle donne si è detto meno. Anita, tra tutte, rappresenta il dinamismo dell’azione femminile all’epoca, sul suo cavallo in corsa, con la pistola in pugno e un bimbo in braccio, e i capelli scarmigliati dal vento, simbolo modernissimo – seppure nelle tristi circostanze del conflitto – della capacità delle donne di essere madri e attori sociali importanti nella professione, nell’azione. Ma altre donne agirono, come Giuditta Bellerio Sidoli, tra i fondatori de La Giovine Italia, Bianca Milesi che Manzoni definì “madre della patria”, Cristina Trivulzi di Belgioioso, che finanziò le azioni carbonare e i moti di Modena di Ciro Menotti e organizzò vari ospedali e molte altre.
Uomini e donne il cui agire assume ancor più valore se si pensa al clima teso, non soltanto nel momento dello scontro violento, ma anche nel tentativo di affermare le proprie idee nella quotidianità. Un clima che si percepisce fortemente nel libro I pensieri sull’Italia di un Anonimo Lombardo di Luigi Torelli, che nel 1846 descriveva la pressione esercitata dalla Polizia austriaca sugli Italiani: “Misteriosa e coperta da impenetrabile velo si presenta la Polizia Austriaca. Potente e invisibile come il Destino elle segue da vicino ogni suddito, ne origlia ogni parola, lo circonda e lo perseguita al pari di una malefica divinità come la forza militare ha per scopo l’abbassamento di ogni testa che ardisca levarsi sulle altre ed opporsi a viso aperto, così la Polizia si mostra attenta ed indefessa nel sorvegliare, prevenire e uccidere ogni libero pensiero. Non vi è angolo tanto remoto che sfuggir possa al suo sguardo. La Polizia Austriaca è, come il Creatore, presente in ogni luogo, e come l’Eterno non si può vedere né toccare.”
L’Austria peraltro contava sull’Evidenzbureau, nato nel 1850 come Servizio segreto militare austro-ungarico e impiegato per la prima volta nella Seconda Guerra di Indipendenza nel 1859.
Non vi era, invece, una vera e propria intelligence italiana, allora. Nel 1859 venne istituito un Servizio informazioni militare dell’Esercito del Regno di Sardegna che operò anche dietro le linee austriache. Si trattava di operazioni di intelligence focalizzate perlopiù su perlustrazioni e veloci infiltrazioni dietro le linee nemiche. Venivano impiegati anche alcuni civili e mongolfiere per osservare dall’alto, ma non si trattava di un’attività organizzata e sistematica.
Nel 1863, invece, venne istituito l’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore del Regio Esercito, che proprio quando venne poi impiegato in azioni di guerra – a Custoza ad esempio – mostrò gravi inadeguatezze e venne sciolto. Solo nel 1887 venne ricostituito l’Ufficio Informazioni e furono definite le competenze, incentrate sulle attività di investigazione e prevenzione, impiegando anche Reali Carabinieri.
In quello stesso periodo venne istituito anche l’Ufficio Riservato presso il Ministero dell’Interno, ovvero l’intelligence civile.
Erano anni quelli, in cui la riflessione sulla sicurezza cominciava ad assumere contorni netti: dal contrasto al brigantaggio, alle modalità di reazione in caso di moti popolari, considerato che nel 1848 e nel 1860 le nuove élite erano spesso ricorse alle Guardie Nazionali come eserciti privati o erano ricorse al banditismo.
Molte le conseguenze del rapido mutare dell’assetto socio-economico, con centri urbani sempre più affollati e con strutture insufficienti, vagabondaggio di lavoratori occasionali che potevano facilmente cadere nelle reti criminali e altro. I movimenti operai, peraltro, cominciano ad essere più organizzati, con azioni che porteranno poi anche a scontri drammatici come la feroce repressione delle barricate a Milano nel 1898 sotto la guida di Fiorenzo Bava Beccaris.
Persiste la minaccia esterna, dell’Evidenzbureau austriaco ma anche del francese Deuxième Bureau, e l’intelligence si impegna nelle prime colonie italiane per contrastare le grandi potenze coloniali. La collocazione della nuova Italia nel contesto internazionale era cruciale quanto lo è oggi.
Un periodo che costituisce dunque la fondazione della nazione da tutti i punti di vista. L’eredità che raccogliamo sta forse soprattutto nella centralità dell’individuo, dal 1861 fu comunque lunga la strada per l’affermazione dei diritti; sta nel movimento di studenti che descriveva De Amicis, per cui vi dovrebbe essere oggi la consapevolezza che il motore della storia sono le nuove generazioni.
Ancora, sul piano della sicurezza, a centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, ci rendiamo conto che è mutata la percezione della sicurezza. Forze dell’ordine e intelligence non solo a scopo difensivo ma anche per mantenere la pace e facilitare i processi democratici.
Forse la differenza maggiore, a centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, è la distanza dal confronto/scontro quotidiano con la violenza del conflitto e con soprusi inesorabili del potere: “lo staffato di Fattori”, oggi, in questa parte di mondo, avrebbe almeno un volto e un nome, e non dovrebbe Garrone farsi carico della difesa del debole, perché vi sono istituzioni sociali preposte a tale ruolo. E non è poco.


In questo Forum si è tentato di esplorare con alcune delle voci più autorevoli della riflessione storica in Italia, alcuni aspetti specifici dell’Unità d’Italia: Lucio Villari affronta il delicato processo di costruzione del senso di italianità; Giovanni Sabbatucci, la questione del federalismo nella storia d’Italia; Pietro Pastorelli, il problema della sicurezza e il riconoscimento internazionale del Regno d’Italia; Emilio Gentile fornisce e propone un quadro attento delle questioni di sicurezza dal Risorgimento al Fascismo.
Il Forum si completa con il saggio di Luigi Vittorio Ferraris sulla sicurezza in Europa e l’Unità d’Italia.





Lucio VILLARI

1861: L’Italia agli italiani


…”l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani!”…

Dei giudizi sintetici sul Risorgimento quello che forse ha sempre avuto una certa, efficace risonanza tra le interpretazioni storiche di quell’evento, ma affiorante anche con insistenza, nel mediocre discorso politico dell’Italia contemporanea, appartiene a Massimo d’Azeglio. Intellettuale e aristocratico inquieto, partecipe di una cultura militante di élite, esponente politico e Presidente del Consiglio del Piemonte liberale mentre infuriavano battaglie parlamentari, militari e per la difesa della laicità dello Stato, testimone diretto e protagonista dal 1848 di conflitti risorgimentali decisivi, brillante descrittore di costumi popolari e narratore di storie delle antiche libertà d’Italia, d’Azeglio era nella posizione critica migliore per pronunciare, appena proclamata l’Unità d’Italia nel marzo 1861, le famose parole: ”L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani!”.
Da uomo di spirito d’Azeglio era sempre pronto alla divertita irriverenza: le parole alludevano probabilmente a compiti impegnativi che ora spettavano alla Destra liberale, ma in quel momento non erano di facile decifrazione. E la loro elegante ambiguità rimase a lungo tale.
Accade, però, che da qualche tempo, uomini politici, giornalisti affrettati, storici perplessi le utilizzino per confermare, a distanza di un secolo e mezzo, quella che ai loro occhi appare come una sostanziale mancanza di identità e di unione degli italiani. E ne traggano, anzi, un autorevole alibi per rimarcare dissenso e indifferenza verso il difficile e drammatico processo che ha portato “Un popolo diviso per sette destini/ In sette spezzato da sette confini...” – come cantava già nel 1831 il caposcuola del Romanticismo italiano, il patriota Giovanni Berchet – a diventare una nazione e a riconoscersi in un moderno Stato costituzionale.
Ovviamente questa, chiamiamola così, interpretazione non è che una manipolazione della verità storica del nostro passato. Denota, tra l’altro, la scarsa conoscenza degli eventi e in particolare della biografia di un uomo politico che ha contribuito alla trasformazione del Piemonte autoritario, clericale e repressivo del regno di Carlo Alberto, in un Piemonte aperto a tutte le nuove esperienze di un liberalismo progressivo e laico di stampo europeo.
Di un Piemonte che, primo tra gli Stati Italiani, adottò una Costituzione, lo “Statuto” del 1848, diede asilo politico e protezione giuridica a tanti profughi, perseguitati, condannati, esuli dal Regno delle Due Sicilie, dallo Stato pontificio, dai granducati e ducati centrali, dal Lombardo-Veneto, dove le censure e le interdizioni culturali e giudiziarie impedivano le libertà e i diritti civili più elementari.
E sarà proprio d’Azeglio in un “Appello agli elettori” del 1865 a ricordare che dal 1848 in poi ben duecentomila italiani scelsero il Regno di Sardegna, come luogo di rifugio e di libertà.

…gli italiani di oggi non dovrebbero quindi dimenticare,
tra i retaggi ideali del Risorgimento,
anche questa precoce affermazione
del valore politico dell’accoglienza degli esuli…

Il Piemonte e la Liguria, grazie anche a un fondo di bilancio del ministero dell’Interno per dare sussidi agli emigrati, accolsero infatti non come stranieri fuorusciti ma come altri italiani, esuli liberali, democratici, perfino repubblicani, e il meglio della cultura meridionale, nonostante alcune prevedibili proteste di frange politiche reazionarie xenofobe e dei loro grotteschi giornali.
Gli italiani di oggi non dovrebbero quindi dimenticare, tra i retaggi ideali del Risorgimento, anche questa precoce affermazione del valore politico dell’accoglienza degli esuli. Dunque, in Piemonte erano gli anni in cui, a partire dal l848 si succedevano come Presidenti del Consiglio e Consiglieri del nuovo sovrano Vittorio Emanuele II gli intellettuali d’Azeglio, Cesare Balbo, Vincenzo Gioberti e iniziava l’attività politica e parlamentare il conte di Cavour.
E non è senza significato che i titoli dei loro scritti, composti in anni che possiamo immaginare pieni di tensioni e di fortissimi dissensi ideali, riconducessero sempre e senza equivoci di linguaggio all’idea di Italia e di italiani. Scritti di attesa, di vigilia angosciata. Dalla Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana del 1847 di d’Azeglio, alla fondazione, sempre nel 1847, da parte di Cavour del giornale “Il Risorgimento”, alle Speranze d’Italia di Balbo del 1844, al Primato morale e civile degli italiani, del 1843 e al Del rinnovamento civile d’Italia di Gioberti del 1851. Titoli che si richiamavano a una Italia e a degli italiani che c’erano, che dovevano esserci e che infatti la maggioranza degli scrittori, dei poeti, rievocavano in centinaia di opere e in migliaia di versi che senza alcun dubbio erano e restano il fondamento ideale del nostro essere nazione.

…fare gli italiani voleva dire, anzitutto,
governarli bene per renderli consapevoli di essere un popolo…

Equivoci a parte, la frase di D’Azeglio credo che meriti comunque una più attenta riflessione. Intanto quelle parole non sottintendono affatto che l’Italia fosse un paese abitato da italiani “non fatti”, da cittadini incerti della loro identità nazionale; un paese miracolato, “fortuito”, (é una affermazione, quest’ultima, palesemente infondata, che ha ancora qualche eco – dilatata da mezzi di informazione totalmente disinformati come certe reti televisive pubbliche e private – in alcuni approssimativi storici italiani e anglosassoni) perché il senso delle parole di d’Azeglio è diverso da quello, tra lo scherzoso e la verità amara, che gli si è ormai attribuito.
E poi, la ammirazione e la stima – ampiamente ricambiate – che d’Azeglio, anche come saggista incisivo e autore di romanzi storici, aveva sempre manifestato per le opere e il pensiero politico unitario e risorgimentale del suocero Alessandro Manzoni, escludono che egli potesse pensare agli italiani come a un confuso e disarticolato miscuglio di genti prive di qualunque senso di appartenenza gli uni agli altri. Anche Goffredo Mameli, nel suo Canto degli italiani, divenuto il nostro inno nazionale, parlava infatti di italiani “calpesti e derisi” “perché divisi”, non perché non fossero italiani.
Diverso dunque il senso delle parole di d’Azeglio perché diverse erano le ragioni politiche, storiche e culturali che lo avevano spinto a porsi, mentre nasceva lo Stato unitario, la domanda decisiva: come la nuova classe dirigente avrebbe dovuto governare gli italiani. Fare gli italiani voleva dire anzitutto governarli bene per renderli consapevoli di essere un popolo. Potrebbe apparire, questa di d’Azeglio, una tra le tante speranze illuministiche dei liberali del suo tempo. Ma proprio quelle speranze illuministiche e liberali, allo stesso modo di quelle più radicali democratiche e repubblicane, erano diventate – attraverso barricate, insurrezioni, lotte parlamentari e diplomazia internazionale – scritti, messaggi, dipinti, musiche, poesie e romanzi storici, cioè cose reali. Una germinazione ideale che non può in alcun modo esser definita retorica perché le cose reali avevano le forme e i contenuti della patria, della nazione, dello Stato.
Era dunque una seria preoccupazione, la sua, identica a quella dell’amico Cavour che negli ultimi giorni di vita pensava angosciato agli italiani della “meridionale Italia”, strappati solo da pochi mesi al malgoverno borbonico, alla corruzione, al degrado morale della loro classe dirigente e ora posti improvvisamente, in gran parte inermi e impreparati, ai nuovi valori e alle nuove istituzioni di libertà.
Preoccupazione, aggiungiamo, identica a quella dei suoi avversari ideologici: Mazzini (che pensava, da repubblicano, agli italiani da educare ai diritti e ai doveri), Cattaneo (che giudicava, da repubblicano, necessario per gli italiani abituarsi alle responsabilità individuali e collettive dell’autogoverno), il rivoluzionario Garibaldi (che voleva gli italiani impegnati con serietà nel rispetto dell’etica pubblica di uno Stato laico e nella difesa attiva della nazione), il socialista Pisacane che nel 1857 andò incontro alla sicura morte anche per scuotere i contadini meridionali nella difesa della loro dignità e sopravvivenza.
Il Garibaldi, Dittatore delle Due Sicilie, per pochi mesi capo di Stato che, dopo il decreto sulla terra di Alcamo del 2 giugno 1860 (che infiammò la Sicilia e i contadini perché divideva tra questi le terre comunali) e quello di Rogliano del 31 agosto (che apriva ai contadini calabresi le terre demaniali), l’8 settembre, il giorno dopo il suo ingresso vittorioso a Napoli emanava,come Dittatore, il primo decreto sul conflitto di interessi della storia d’Italia vietando decisamente “il cumulo degli impieghi e degli stipendi”. Decreto sicuramente inapplicato, ma sconosciuto agli storici e assolutamente inedito fino a oggi.
Il Cattaneo che nel 1861, alla vigilia dell’unificazione, scriveva: “Le commozioni politiche non affrettano i progressi letterari e scientifici d’un popolo se non in quanto risvegliano la critica”, e che nel l865 sollecitava il democratico e garibaldino Agostino Bertani, medico e parlamentare, a sedersi all’estrema sinistra alla Camera, a chiedere il suffragio universale, a rivendicare nel rispetto dell’unità della patria e della nazione, senza alcuno spirito separatista, la riforma dei meccanismi amministrativi e burocratici dello Stato, per lasciare spazio alle autonomie locali, cioè alle città e ai comuni sulla cui storia civile si era costruita l’Italia come Nazione.
E che dire del sorgere, dal profondo esistenziale e civile degli italiani del Mezzogiorno in maggioranza addormentati dal populismo e paternalismo dei Borbone, della Protesta del Popolo delle Due Sicilie di un mite studioso come Luigi Settembrini (finito naturalmente all’ergastolo) che nel 1847 lanciava un messaggio di ribellione e di speranza che sarà raccolto solo nel 1860? La cultura meridionale fece sua questa protesta con le barricate di Napoli del 1848, con l’impegno personale di Francesco De Sanctis, Antonio Scialoia, Carlo Poerio, Silvio Spaventa, Pasquale Villari e tanti altri finiti in carcere o costretti all’esilio. Non avrebbe avuto successo la spedizione dei Mille se gli italiani di Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Molise non avessero sentito che l’Unità d’Italia era l’equivalente della loro liberazione e del loro ideale di libertà.

…il processo unitario coincideva con un processo di modernizzazione dell’Italia…

Dunque, si potrebbe concludere che il Risorgimento ha liberato e unito gli italiani che già c’erano. C’erano anche nei secoli più bui, non soltanto nelle parole di Dante, Petrarca o Machiavelli, ma negli usi e nelle tradizioni di una civiltà contadina povera ma non miserabile, nel vivere “civile” delle città del Sud e del Nord, anche se attanagliate da conflitti di classe tra signori e popolani, tra “baroni” e contadini, soprattutto quelli sfruttati dei latifondi del Mezzogiorno.
C’erano nell’arte e nella cultura del Rinascimento, nell’Italia della rivoluzione scientifica del Seicento. C’erano nel Settecento nei movimenti illuministici e riformatori di Milano, Firenze, Napoli. C’erano ma, come si vede, erano contestati come tali dal potere politico assolutistico e censorio.
Tuttavia non è possibile ignorare due momenti centrali del processo politico, ideologico e culturale che ha il nome di Risorgimento e che culmina nel 1861.
Anzitutto, la percezione che il processo unitario coincideva con un processo di modernizzazione dell’Italia e che la cultura e l’arte perdevano finalmente la funzione subalterna o decorativa, finora avuta, per divenire protagoniste di una veloce trasformazione della nostra. Non è un caso, quindi, che anche molti artisti (ma lo stesso discorso vale per scrittori, poeti, storici, filosofi, scienziati) siano stati combattenti con le armi in pugno e patrioti.
Il secondo momento centrale, unito strettamente alla lotta per l’unità, la libertà e l’indipendenza dell’Italia è stato il confronto con la Chiesa e il suo potere temporale. Una realtà che, come riconosceva Machiavelli, era stata sempre l’ostacolo duro e insormontabile dell’identità e della libertà dell’Italia e degli italiani. Il 1861 e il 1870, la proclamazione del regno d’Italia e la breccia di Porta Pia, non possono dunque che essere il risultato di una sola rivoluzione che ha nome Risorgimento.
Le tante, successive difficoltà politiche parlamentari, economiche di un paese nato come Stato nel 1861, si concentrano spesso sulla “questione meridionale”. Una questione, è bene dirlo, non creata dall’Italia unita ma “trovata” nel 1861 in una parte d’Italia governata, come era ben noto in Italia e in Europa, troppo a lungo male e nell’ingiustizia e, tuttavia, non affrontata seriamente dai governi liberali di fine Ottocento. Questo mondo difficile e in drammatica mutazione, quest’Italia post unitaria non può, però, nascondere la verità e la realtà di una vicenda storica che si conclude e insieme comincia nel 1861 per essere ancora oggi parte vivente della nostra storia.


Giovanni SABBATUCCI


Unità e Federalismo nella storia d'Italia


…il termine “federalismo”,
a lungo assente dal dibattito politico dell’Italia unita,
è invece ricorrente nel dibattito risorgimentale…
la fortuna attuale della parola è probabilmente collegata all’idea,
che (il termine )possa o debba essere rovesciato
o comunque rimesso in discussione…

Nell’ultimo ventennio è entrato prepotentemente nel linguaggio politico italiano un termine, “federalismo”, che prima veniva usato solo nei testi di storia delle istituzioni o di diritto costituzionale comparato (in riferimento agli Stati Uniti, alla Svizzera, alla Repubblica tedesca) o nelle ricostruzioni storiche delle correnti ideali del Risorgimento italiano (Gioberti e Balbo, Cattaneo e Ferrari).
Diciamo subito che l’uso del termine “federalismo” non è del tutto appropriato rispetto alla situazione italiana di oggi. Come è stato tante volte osservato, federalismo, viene dal latino foedus, ovvero patto: il patto che viene stipulato tra entità prima indipendenti (come gli Stati dell’Unione, i cantoni svizzeri, i vecchi Stati tedeschi), nel momento in cui decidono di sottomettersi a un potere centrale e a istituzioni comuni (le istituzioni federali) pur senza perdere la propria individualità e senza spogliarsi del tutto delle proprie prerogative.
Ci sono naturalmente diversi gradi di integrazione e si distingue fra federazione, confederazione e Unione; ma quella del federalismo è una logica centripeta: negli Stati Uniti di fine Settecento, federalisti erano i sostenitori del rafforzamento della presidenza e in genere delle istituzioni comuni, non solo politiche (volevano e ottennero una banca centrale). Quello di cui oggi si discute è tutt’altro, anzi l’opposto.
è un moto centrifugo, che si sviluppa in uno Stato nato con un ordinamento unitario, uniforme e centralistico e che meglio si potrebbe definire con altri termini: sviluppo delle autonomie, decentramento, devoluzione o quant’altro. Ma tant’è: il termine è ormai entrato nel lessico politico e istituzionale italiano con questa accezione impropria e non ne uscirà facilmente, quali che siano gli esiti concreti delle riforme di cui si sta discutendo.
Ho detto prima che il termine “federalismo”, a lungo assente dal dibattito politico dell’Italia unita, è invece ricorrente nel dibattito risorgimentale. E la fortuna attuale della parola è probabilmente collegata all’idea, più o meno espressa, che l’esito di quel confronto non sia stato quello “giusto” e che possa o debba essere rovesciato o comunque rimesso in discussione. Non credo che questo approccio sia corretto.
Ma vale la pena ricordare che per un periodo di tempo non breve – dalle prime teorizzazioni dell’indipendenza italiana fra Sette e Ottocento fino al 1848, o addirittura fino al 1860 – l’ipotesi federale, sia nella sua versione moderata, sia in quella repubblicana e rivoluzionaria, fu non solo una fra le possibili ma anche, in apparenza, la più plausibile, la più realistica, quella che sembrava avere maggiori possibilità di successo: certo più di quella intransigentemente unitaria sostenuta in realtà solo da Mazzini e dai mazziniani.
Rispetto a quella che ai più appariva un’utopia, il progetto federale, almeno nella sua versione moderata, aveva il vantaggio di essere meno costoso, in termini di insurrezioni e di cospirazioni e di essere attuabile lasciando in vita i vecchi Stati e sul trono i vecchi sovrani, o almeno la maggior parte di essi, Papa compreso.
Dopo la pubblicazione del Primato di Gioberti (1843) e soprattutto nel “biennio delle riforme” (1846-48) dopo l’elezione di Pio IX, questa prospettiva parve a molti vincente. Fra il trasformare una pluralità di Stati in uno Stato tutto nuovo e il lasciarli in vita federandoli attraverso una serie di vincoli più o meno forti, non sembrava esserci dubbio su quale fosse la via più facile.

…l’ipotesi federale si rivela per quella che era – un’utopia –
già nelle prime fasi della Prima Guerra di Indipendenza…

Si trattava di un progetto illusorio (ma è facile dirlo adesso). Soprattutto perché sottovalutava il problema della presenza in Italia dell’Impero asburgico e sopravvalutava l’effettiva volontà e capacità dei sovrani italiani (molti dei quali dovevano la loro posizione all’appoggio austriaco) a unirsi per contrastarla. Da questo punto l’ipotesi federale si rivela per quella che era – un’utopia – già nelle prime fasi della prima guerra di indipendenza. Possiamo anche indicare una data, il 29 aprile 1848, la data dell’allocuzione con cui Pio IX richiama le truppe già inviate per la guerra contro l’Austria, cui segue il ritiro dei contingenti degli altri Stati.
Le conferme verranno poi dall’andamento delle operazioni militari e dall’evidente volontà di Carlo Alberto di combattere la sua guerra sabauda, ponendo i patrioti di fronte all’alternativa secca se appoggiarla o combatterla; poi dalla sconfitta finale (Novara, marzo 1849), infine dalla stessa vicenda della Repubblica Romana che rilancia, anche se senza fortuna, l’ipotesi democratica, repubblicana e unitaria fondata sulla convocazione di una Costituente nazionale.
Ma il progetto federale non si esaurisce del tutto. Continua a dar segni di vita, anche se in forme oblique e sotterranee (il murattismo meridionale) nel “decennio di preparazione” e rispunta in qualche modo nell’ipotesi, delineata nel 1858 a Plombières, dei tre regni da costituirsi sotto la tutela della Francia di Napoleone III.
La svolta si consuma nell’estate-autunno del 1859, quando le vicende della seconda guerra di indipendenza e, soprattutto, le insurrezioni etero-dirette dei ducati e delle Legazioni con le conseguenti annessioni via plebiscito indicano chiaramente una modalità di unificazione che non lascia alcuno spazio a ipotesi diverse da quella unitaria e piemontese.
La sanzione arriva in ottobre con i decreti Rattazzi, che estendono ai nuovi territori l’ordinamento comunale e provinciale fortemente accentrato, di matrice napoleonica, con le sue province, circondari, mandamenti, comuni, tutte articolazioni di un unico potere centrale, con i prefetti e i sindaci di nomina regia, i consigli elettivi privi di poteri reali: di fatto (pur con qualche variante), l’ordinamento già in vigore nel Regno di Sardegna, che si è nel frattempo definitivamente italianizzato con la cessione di Nizza e Savoia. La via è ormai tracciata; e non servirà a correggerla nemmeno la spedizione dei Mille, che pure, nella sua ultima fase (Cattaneo a Napoli), era sembrata poter rilanciare un’ipotesi in senso lato federale.
L’intervento piemontese nello Stato Pontificio e nel Regno delle due Sicilie e i successivi plebisciti ribadiscono che l’Unità si può realizzare solo attraverso l’incorporazione di fatto dell’Italia nello Stato sabaudo, con il suo sovrano (compreso il vecchio numero d’ordine), le sue leggi, i suoi ordinamenti.

…se si era dimostrato impossibile arrivare all’Unità
attraverso l’unione fra i vecchi Stati (…)
che cosa impediva alla classe dirigente
di allentare la sua presa sul Paese
e di dare maggior respiro alle istanze locali?…

Il problema che da allora si è posto è se fosse possibile allora una via diversa da quella che polemicamente fu chiamata la “conquista regia” (una formula che avrebbe alimentato una polemica più che secolare proveniente da diverse parti politiche e correnti ideali); e se, restando sul problema che qui ci interessa, il nuovo Stato avrebbe realisticamente potuto articolarsi in forme meno rigidamente accentrate.
La risposta è, a mio parere, negativa. Se è vero che l’Italia unita, per nascere ma anche per legittimarsi al cospetto dell’Europa, aveva bisogno del contributo militare e politico del Piemonte, è anche vero che difficilmente questo contributo vi sarebbe stato se la monarchia avesse dovuto combattere e rischiare al solo scopo di entrare a far parte di una federazione di Stati egemonizzata non si sa da chi.
E ancor meno plausibile è pensare che, una volta intervenuta, fosse poi disposta a rimettere in gioco il suo potere e la sua stessa esistenza attraverso un processo costituente.
Certo, il problema di una possibile diversa articolazione dello Stato fu presente non solo ai democratici, ma alla stessa classe dirigente moderata, o almeno a una sua componente.
Molti uomini della Destra, pur essendo largamente debitori dell’esperienza politico-amministrativa napoleonica (in larga parte sopravvissuta alla Restaurazione), guardavano con favore al modello anglosassone del self-government.
Fra il 1860 e il 1861, prima ancora che il primo Parlamento italiano votasse la legge sul titolo del re, atto di nascita ufficiale del nuovo Stato, due emiliani, Farini e Minghetti, elaborarono un progetto di cauto decentramento, che prevedeva fra l’altro la nascita delle regioni, in quanto ripartizione più “naturale”, in parte corrispondente ai vecchi Stati, accanto alle province e ai comuni. Ma il progetto non arrivò nemmeno alla discussione parlamentare.
Possiamo allora riproporre in altri termini la domanda già formulata. Se si era dimostrato impossibile arrivare all’Unità attraverso l’unione fra i vecchi Stati (un percorso che, di lì a dieci anni sarebbe stato seguito, almeno formalmente, dagli Stati tedeschi, che rimasero in vita nel processo di formazione del Reich, a volte addirittura con i loro sovrani: ma in quel caso la presenza di uno Stato come la Prussia, più grande di tutti gli altri messi assieme, garantiva gli Hohenzollern da qualsiasi rischio), che cosa impediva alla classe dirigente di allentare la sua presa sul paese e di dare maggior respiro alle istanze locali?
La risposta è facile e, anche in questo caso, lascia poco spazio alle ipotesi alternative. Nei primi mesi del 1861 si era già delineato quel fenomeno di insorgenza contadina che va sotto il nome di brigantaggio e che per diversi anni avrebbe coinvolto buona parte del Mezzogiorno continentale. E allora, come sarebbe stato possibile anche pensare a forme di autogoverno locale con tre regioni del paese governate dall’autorità militare, di fatto in regime di stato d’assedio?
è un dato che rimanda a un altro dato più generale: la debolezza originaria dello Stato unitario costretto a sovrapporsi, con i suoi ordinamenti uniformi e “razionali” a una società che quegli ordinamenti non conosceva e spesso rifiutava, soprattutto perché significavano fisco pesante e coscrizione obbligatoria. Ma c’è anche da chiedersi come sarebbe stato possibile costruire un moderno Stato nazionale e liberale in assenza di quegli strumenti.
Credo che quanto detto spieghi a sufficienza i motivi per cui lo Stato italiano nacque accentrato e accentrato restò nella sostanza, nonostante alcuni mutamenti non trascurabili, di cui dirò fra poco. E spiega anche la scarsa incidenza delle proposte (di parte repubblicana, radicale, meridionalista e radico-liberista, soprattutto cattolica) che continuano a essere formulate per una riforma dell’ordinamento statale in senso autonomista lungo tutto il corso dello Stato liberale, fino all’avvento del fascismo e ancora nell’Italia repubblicana.

…la Resistenza, come è noto, si articola anche in esperienze esplicitamente
autonomiste (le repubbliche partigiane, gli stessi Cln locali).
E qualcosa di questo spirito si trasmette nei lavori della Costituente…

Ho accennato prima ai mutamenti che il modello accentrato subì nel corso del tempo. Il primo passaggio, largamente misconosciuto, è la riforma Crispi del 1888, che lasciava quel modello sostanzialmente inalterato (per alcuni aspetti lo rafforzava), ma introduceva una novità di non poco rilievo come l’elettività dei sindaci dei comuni maggiori: novità che avrebbe consentito nei decenni successivi una ricca esperienza di municipalismo democratico, seppur limitata da un forte controllo dal centro. Esperienza poi stroncata dal fascismo che, con la legge del febbraio 1926, avrebbe bandito ogni forma di elettività dalle amministrazioni locali.
Il secondo e fondamentale passaggio è naturalmente quello del dopo-fascismo. La Resistenza, come è noto, si articola anche in esperienze esplicitamente autonomiste (le repubbliche partigiane, gli stessi Cln locali). E qualcosa di questo spirito si trasmette nei lavori della Costituente.
La Costituzione, come è noto, tutela e incoraggia le autonomie (art. 5: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”); nel titolo V della parte II, poi oggetto, nel 2001, di una discutibile revisione, prevede le regioni e ne fissa le competenze. In realtà, al di là di queste dichiarazioni di principio, la Costituzione non smantella l’ordinamento centralistico (lascia per esempio in vita le province). E il motivo non è diverso da quello che aveva condizionato le scelte della classe dirigente liberale.
In una situazione difficile, in cui c’è molto da ricostruire o da costruire ex novo, il ceto politico è istintivamente restio a privarsi degli strumenti che gli consentono interventi incisivi. E il discorso vale soprattutto per chi sta al governo.
Significativa, in proposito, è la vicenda dell’ordinamento regionale. In Costituente a sostenerne la necessità sono soprattutto i democristiani (che avevano alle spalle una lunga tradizione di autonomismo, tutta fondata sull’idea del primato della società civile), assieme agli azionisti.
I comunisti, inizialmente, sono contrari, perché ancora fortemente ancorati al modello giacobino e alla prospettiva di una radicale trasformazione della società (prospettiva che poteva realizzarsi solo grazie a un forte potere politico centrale).
Una volta estromesso dal Governo, il Pci si converte invece al regionalismo, sia perché batte sul tasto dell’attuazione della Costituzione, sia perché è consapevole della sua forza a livello locale. Per lo stesso motivo, la Dc accantona le sue tradizionali battaglie e blocca a lungo ogni misura di attuazione del dettato costituzionale.
Alle regioni si sarebbe arrivati solo nel ’70. E l’esito sarebbe stato molto diverso da quello che si sarebbe dato se l’istituto regionale fosse nato assieme alla Repubblica (magari con l’abolizione delle province) e come parte integrante di essa.
Accade, invece, che l’ente regione si sovrapponga a una struttura sostanzialmente centralistica e ne riproduca in periferia i difetti d’origine: primo fra tutti l’invadenza dei partiti nazionali (qualcosa in questo senso è cambiato, e in meglio, con l’elezione diretta dei “governatori”, introdotta nel 1999).
E veniamo, anzi torniamo, all’oggi. Non intendo entrare nel merito del dibattito politico che oggi è aperto e si intreccia con quello relativo alle sorti di governo e maggioranza.
Dirò soltanto che trovo in linea di massima giusta l’idea del “federalismo fiscale” in quanto responsabilizzazione delle istanze locali e maggior possibilità di controllo dei cittadini sul governo locale. Fatte salve naturalmente le esigenze della solidarietà fra le varie parti del paese (esigenze che trovano spazio anche in Stati veramente federali).
Ma voglio soprattutto sottolineare che, come tutte le grandi riforme che interessano l’architettura istituzionale di un paese, anche quella federale (comunque la si voglia chiamare) avrebbe bisogno di un approccio organico e di una larga condivisione.


Emilio GENTILE


Dal Risorgimento al Fascismo: questioni di sicurezza


…il brigantaggio (…) il più grave problema di sicurezza
per l’Italia appena unificata...

Con l’Unità d’Italia si avviò un processo di unificazione dell’ordinamento di pubblica sicurezza in tutte le regioni della penisola, favorito fra l’altro, nel corso dei primi decenni dello Stato italiano, dalla costruzione di reti stradali e ferroviarie che facilitarono il controllo del territorio. Ma all’inizio, i governanti del nuovo Regno d’Italia dovettero affrontare subito dopo la sua nascita il fenomeno del brigantaggio.
Fu il più grave problema di sicurezza per l’Italia appena unificata. Il governo dovette impiegare cinque anni, oltre centomila soldati e metodi spietati per estirpare un fenomeno che era endemico nella penisola italiana, e non soltanto nel Mezzogiorno. Ma fu nel Mezzogiorno che il brigantaggio esplose subito dopo l’unificazione, assumendo una dimensione di massa, come fenomeno sociale di rivolta contadina, causata dalla miseria e dalla ribellione di tutti coloro che si sentirono oppressi dal nuovo regime, che impose la legge piemontese, la tassazione, la leva militare obbligatoria.
Alla rivolta delle popolazioni contadine si unirono, e spesso le fomentarono, criminali divenuti capi di bande armate; ex sottufficiali del disciolto esercito borbonico, che continuarono la lotta contro quello che consideravano un esercito di occupazione, agenti dello Stato pontificio, e anche ex garibaldini delusi dal nuovo ordine monarchico che aveva sciolto l’esercito di Garibaldi.
I governanti del nuovo Stato italiano furono colti di sorpresa dal rapido dilagare del fenomeno nelle regioni meridionali, che molti di loro non conoscevano, con vastissime zone interne isolate dalla mancanza di strade, in un territorio molto aspro, difficile, dove trovavano facilità di movimento e sicuro rifugio le numerose bande. Mi pare che non esistesse allora neppure una carta topografica dell’Italia del sud.
All’inizio non si capiva bene quello che si doveva fare e come agire. Poi, quando i fenomeni di banditismo si moltiplicarono con l’assalto ai paesi, il massacro dei “galantuomini”, cioè proprietari e gente benestante, ci fu una continua intensificazione dell’uso della forza dell’esercito e l’adozione di misure eccezionali, come la Legge Pica approvata nel 1863 (dal nome del deputato abruzzese Giuseppe Pica), prorogata fino al 1865, che sottoponeva tutte le province “in stato di brigantaggio” al controllo dell’esercito.
Dopo cinque anni di repressione spietata, il brigantaggio fu quasi del tutto annientato. Ma rimasero nel Mezzogiorno fenomeni di delinquenza organizzata: la camorra nel Napoletano e la mafia in Sicilia che, fin da allora, si mescolarono con la politica locale.

…lo Stato che nasce nel 1861
è uno Stato che noi giudicheremmo autoritario…

Dopo la conquista di Roma nel 1870, l’arrivo dei piemontesi nella nuova capitale fu per molti di loro una esperienza nuova, perché molti non erano mai stati a Roma. Ricordiamo che Cavour aveva designato nel 1861 Roma come futura capitale dello Stato italiano, ma lui a Roma non c’era stato mai.
Roma capitale sembra quasi un’espressione sarcastica, perché quando l’Italia arriva a Roma nel 1870, c’era già lo sviluppo delle grandi metropoli in Europa, e Roma era una vecchia città dall’aspetto provinciale, molto arretrata, con le rive del Tevere coperte da vecchi edifici fatiscenti, con le stradine del centro sporche, umide e oscure. Per fare di Roma una capitale di un regno significava mettere mano immediatamente alla sua trasformazione urbanistica, e questo significava speculazione edilizia. A Roma ce ne fu tantissima. Gli scandali cominciarono già con la costruzione delle ferrovie, dopo il 1861, e molti ce ne furono nei decenni successivi. Forse la corruzione era conseguenza di una società che era arretrata, ma altra corruzione venne dallo stesso processo di modernizzazione.
Lo Stato che nasce nel 1861 è uno Stato che noi giudicheremmo autoritario, con i parametri delle moderne democrazie ma che, tuttavia, nella situazione dell’epoca, era una monarchia costituzionale che affermava i principi liberali dello Stato di diritto e riconosceva le fondamentali libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di espressione, di associazione.
Queste libertà non furono mai negate o soppresse, anche se ci furono periodi, come negli ultimi decenni dell’Ottocento, in cui i governi intervennero con metodi brutali per reprimere i nuovi movimenti sociali che sostenevano le rivendicazioni del proletariato. Spesso, per sedare proteste sociali o conflitti di lavoro, e per imporre l’ordine pubblico, veniva impiegato l’esercito. è rimasto famigerato il generale Bava Beccaris che nel maggio 1898 a Milano represse nel sangue la protesta popolare provocata dalla fame: ci furono 78 morti e oltre 400 feriti fra i manifestanti.

…con la Grande Guerra molte cose cambiano… questo periodo di inaudita violenza collettiva si riflette anche nella politica…

All’inizio del Novecento, con la nuova politica liberale di Giovanni Giolitti, la politica autoritaria e repressiva fu abbandonata. Si evitò di far intervenire l’esercito durante gli scioperi e nei conflitti di lavoro, riservando l’impiego della forza militare solo in caso di grave minaccia dell’ordine pubblico. Ciò consentì lo sviluppo delle organizzazioni sindacali e dei movimenti politici, in un clima di maggiore libertà.
Quando, nel giugno del 1914, ci fu la “settimana rossa”, con violenti moti di anarchici e socialisti nelle Marche e in Romagna, il governo riuscì a superare la rivolta senza abolire lo Stato di diritto. Poi con la Grande Guerra, molte cose cambiano perché tutta la società italiana fu sconvolta da quella tragica esperienza.
Con la Grande Guerra si crea in tutta Europa una situazione completamente nuova: milioni di uomini, per la prima volta, nella storia millenaria dell’Europa, furono tolti dalle loro famiglie e gettati in un guerra che avrebbe provocato dieci milioni di morti. Questo periodo di inaudita violenza collettiva si riflette anche nella politica. Durante i 4 anni di guerra avviene la rivoluzione bolscevica in Russia, che usa la violenza per la conquista del potere, creare la dittatura del proletariato e avviare la costruzione del socialismo.
Il mito della rivoluzione bolscevica ha larga influenza anche in Italia. Dopo oltre tre anni di guerra, seguirono in Italia quattro anni di aspri conflitti sociali e politici: il “biennio rosso”, dal 1918 al 1920, quando l’Italia sembrò alla vigilia di una rivoluzione sociale simile a quella avvenuta in Russia.

…contro la violenza fascista, le autorità furono tolleranti o impotenti…

Poi, dal 1920 al 1922, si affermò la forza antisocialista e antidemocratica di un nuovo movimento nazionalista, il fascismo, fondato da Benito Mussolini nel 1919, che utilizzò la violenza e l’organizzazione paramilitare degli squadristi per sconfiggere e opprimere gli avversari e, quindi, sfidare lo Stato liberale mirando alla conquista del potere. Contro la violenza fascista, le autorità furono tolleranti o impotenti, e ciò facilitò la conquista fascista del potere alla fine del 1922, seguita poi, dal 1925, dalla demolizione del regime liberale, dalla instaurazione del regime a partito unico e dalla costruzione dello Stato totalitario.
Certamente il Partito fascista utilizzò tutte le strutture dello Stato italiano così come era stato costruito nei primi sessanta anni di unità, per imporre il suo dominio, eliminando, però, tutti gli istituti liberali e rafforzando quelli autoritari dell’organizzazione statale. Ma ne introdusse anche di completamente nuovi.

…anche se il fascisti si proclamavano prosecutori
della rivoluzione nazionale iniziata col Risorgimento,
l’esperienza del partito armato e del regime totalitario
non avevano alcuna radice nel Risorgimento…

Come l’istituzione, nel 1923, della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, cioè la legalizzazione della organizzazione armata del partito fascista trasformata in una forza di polizia legalizzata, agli ordini del capo del governo, una milizia composta da fascisti che si affiancava alla pubblica sicurezza, ai carabinieri e all’esercito.
E, soprattutto, la istituzione, dopo il 1925, del regime a partito unico, con la eliminazione di tutti i partiti e sindacati, al di fuori del partito e dei sindacati fascisti, la soppressione delle libertà di stampa e di associazione, la reintroduzione della pena di morte per i “delitti contro lo Stato”.
Anche se i fascisti si proclamavano prosecutori della rivoluzione nazionale iniziata col Risorgimento, l’esperienza del partito armato e del regime totalitario non avevano alcuna radice nel Risorgimento. Durante il Risorgimento, tutti i patrioti italiani consideravano indissolubile l’idea di unità e di indipendenza dall’idea di libertà, e lottarono contro governi dispotici per affermare lo Stato di diritto.
Durante i primi sessanta anni di vita unitaria, nonostante molti aspetti autoritari dello Stato, i governi liberali cercarono di garantire l’ordine e la sicurezza senza sacrificare la libertà. Nessun governante liberale, neppure i più autoritari come Francesco Crispi o Sidney Sonnino, pensarono mai di abolire lo Stato di diritto, annientare le libertà civili e politiche, e imporre il dominio totalitario di un partito unico.


Pietro PASTORELLI


Il problema della sicurezza ed il riconoscimento internazionale
del Regno d’Italia



…il principio di non intervento negli affari interni italiani. Lo avrebbero tutti rispettato (…)? ...

I due temi della sicurezza e del riconoscimento internazionale del Regno d’Italia sono in realtà un unico aspetto dell’ultima fase del processo risorgimentale: la capacità del Regno di Sardegna prima di non essere ostacolato dall’esterno nel conseguimento dell’Unità nazionale e, dopo il 17 marzo 1861, di far accettare dalla comunità internazionale i grandi accrescimenti territoriali che lo avevano trasformato in Regno d’Italia.
E’ infatti da ricordare che la pace di Zurigo del 10 novembre 1859 se aveva deciso l’attribuzione della Lombardia al Regno di Sardegna, aveva lasciato insoluta la sorte dei territori in cui, con l’occasione della guerra e della sconfitta austriaca, le popolazioni erano insorte costringendo i rispettivi sovrani a riparare in Austria.
Si trattava del granduca di Toscana, Leopoldo II di Asburgo-Lorena, della duchessa di Parma, Luisa Maria di Borbone-Parma, del duca di Modena, Francesco V d’Austria-Este, e dei legati pontifici di Ferrara, Ravenna e Bologna, la tutela dei cui diritti, diceva il trattato, era demandata ad un futuro congresso delle grandi potenze, Francia, Austria, Inghilterra, Prussia e Russia e degli altri tre paesi (Spagna, Portogallo e Svezia) firmatari dell’Atto finale del Congresso di Vienna del 1815, che sanciva il principio di legittimità a fondamento della comunità degli Stati europei.
Il congresso fu però rinviato sine die facendone ricadere la colpa sullo Stato pontificio ma in effetti per un disaccordo sostanziale tra Inghilterra e Francia. Il governo di Londra era favorevole a rispettare il voto, espresso a suffragio universale da tutte quelle popolazioni, in favore dell’annessione al Regno di Sardegna; quello di Parigi di concederla solo ai Ducati di Parma e Modena, di lasciare invece le Legazioni di Ferrara, Ravenna e Bologna allo Stato pontificio, e di insediare a Firenze il cugino di Napoleone III, Gerolamo Bonaparte. Su un punto Inghilterra e Francia erano però d’accordo: che qualunque soluzione fosse adottata, non si doveva realizzare con l’uso della forza, né da parte loro, né da parte delle altre grandi potenze.
E questo fu chiamato il principio di non intervento negli affari interni italiani. Lo avrebbero tutti rispettato, in particolare l’Austria, che pure nella più favorevole soluzione francese avrebbe visto sacrificati i diritti della duchessa di Parma e del duca di Modena?

…il pericolo maggiore per la sicurezza del Regno sardo
si manifestò in coincidenza con l’impresa
di Garibaldi nel Regno delle Due Sicilie…

Il governo inglese assicurò Cavour che l’Austria non si sarebbe in alcun caso mossa, alla sola condizione che non fosse insidiato il suo possesso del Veneto. Ma Cavour, pur credendo alle assicurazioni inglesi, ben sapeva che non sempre gli impegni internazionali venivano rispettati se non si era disposti a sostenerli con la minaccia dell’uso della forza e questo gli inglesi non erano in grado di farlo con forze terrestri.
Perciò quando s’ebbe il consenso anche dalla Francia (a condizione della cessione a lei delle terre francesi: la regione della Savoia e la contea di Nizza) ad effettuare l’annessione dei Ducati, delle Legazioni pontificie e del Granducato di Toscana al Regno sardo attraverso il voto espresso da nuove assemblee elette in tutte quelle terre, Cavour ordinò la mobilitazione di tutto l’esercito piemontese, richiamando alle armi le quattro classi che erano state congedate dopo la guerra del ’59. Furono schierate sulla riva sinistra del Po al comando dello stesso ministro della Guerra, il generale Manfredo Fanti, che poteva anche disporre dei corpi volontari provenienti dall’Emilia, dalla Romagna e dalla Toscana.
I plebisciti si svolsero l’11-12 marzo 1860. Ebbero esito largamente positivo per l’annessione.
E non ci furono le temute reazioni armate dell’Austria, ma questo ingrandimento del Regno sardo non fu accolto favorevolmente dalle potenze europee, come apparve in modo chiaro in occasione del discorso del re per l’apertura del rinnovato Parlamento di Torino il 2 aprile: erano vistosamente assenti, contro la prassi, i rappresentanti di Russia e Prussia, Belgio e Olanda, Spagna e Portogallo, nonché dell’Austria, che peraltro non aveva voluto riprendere le relazioni diplomatiche dopo la pace di Zurigo.
Il pericolo maggiore per la sicurezza del Regno sardo si manifestò in coincidenza con l’impresa di Garibaldi nel Regno delle Due Sicilie. Conquistata l’isola, i garibaldini, con il determinante appoggio della flotta inglese, approdarono sul continente, a Melito, il 18 agosto, proseguendo poi verso Napoli senza incontrare praticamente alcuna resistenza da parte delle truppe borboniche. A questo punto, per il governo di Torino si poneva un duplice problema: come fermare la marcia di Garibaldi, che si proponeva, dopo essere arrivato a Napoli, di proseguire verso il Lazio e Roma presidiata dalle truppe francesi; e come avviare le conquiste garibaldine verso l’annessione al Regno sardo.
La decisione di Cavour fu di inviare una parte dell’esercito, con alla testa il Re in persona, ad incontrare Garibaldi poco a nord di Napoli, dove era giunto già l’8 settembre. Ma per far questo occorreva attraversare due regioni dello Stato pontificio, le Marche e l’Umbria. E ciò significava sfidare da un lato la Francia che aveva inviato il generale Lamoriciere a capo di formazioni di volontari di Stati cattolici a presidiare quelle regioni; e dall’altro le potenze sostenitrici del principio di legittimità, in particolare la Russia, che non potevano accettare la scomparsa del Regno borbonico.
Poco prima che Vittorio Emanuele II con le sue truppe varcasse i confini dello Stato pontificio, Cavour ritenne pertanto necessario, il 12 settembre, inviare a tutti i paesi una nota diplomatica nella quale spiegava il motivo di quell’intervento. Con il linguaggio odierno diremmo che si trattava di ragioni “umanitarie”: evitare cioè che i focolai di resistenza al dominio pontificio in quelle regioni potessero essere soffocati violentemente come l’anno prima era accaduto agli insorti di Perugia.

…convocare elezioni politiche generali in tutte le regioni
ormai costituenti il Regno e far approvare dal nuovo Parlamento
una legge che prendesse atto delle grandi trasformazioni
avvenute sul suolo italiano con il trionfo
del principio di nazionalità,
proclamando Vittorio Emanuele II Re d’Italia…

La risposta delle potenze a questa nota fu negativa, con la sola eccezione dell’Inghilterra. La Francia, l’alleato della guerra del ’59 contro l’Austria, rispose subito con la rottura delle relazioni diplomatiche, le altre tre grandi potenze, Prussia, Russia e Austria, dopo alcuni incontri bilaterali (a Baden tra Francia e Prussia, a Coblenza tra Austria e Prussia e a Magonza tra Inghilterra e Prussia) decisero, su iniziativa dell’Austria, di incontrarsi a Varsavia per concordare adeguate misure contro il Regno di Sardegna, con il quale avevano già rotto le relazioni diplomatiche.
L’allarme per il convegno di Varsavia, fissato per il 26 ottobre, fu grande a Torino, nonostante gli incoraggiamenti e le rassicurazioni che giungevano da Londra, tanto che Cavour rimase nella capitale e non partecipò all’incontro tra il re e Garibaldi che proprio quel giorno avvenne a Teano. E fu solo dopo che il rappresentante sardo a San Pietroburgo gli segnalò, la sera del 29 ottobre, che a Varsavia non era stata presa “alcuna decisione direttamente ostile all’Italia”, che Cavour poté informare il re del cessato pericolo e della possibilità quindi di cominciare a congedare progressivamente le classi richiamate nell’aprile.
L’annessione delle province dell’Italia centrale e meridionale e della Sicilia avvenne anch’essa per plebiscito. I referendum si tennero per il Regno di Napoli e la Sicilia il 21 ottobre, per le Marche e l’Umbria il 4 novembre. In questo mese quindi si veniva a registrare un ulteriore accrescimento, e ben cospicuo, del Regno di Sardegna, circondato però dal dissenso delle potenze europee.
La via per uscire da questa pericolosa ed equivoca situazione fu concordata con l’Inghilterra: convocare elezioni politiche generali in tutte le regioni ormai costituenti il Regno e far approvare dal nuovo Parlamento una legge che prendesse atto delle grandi trasformazioni avvenute sul suolo italiano con il trionfo del principio di nazionalità, proclamando Vittorio Emanuele II Re d’Italia.
Le elezioni si tennero con la legge elettorale sarda il 27 gennaio e per i ballottaggi il 3 febbraio. Il Senato l’approvò il 26 febbraio, la Camera il 14 marzo e finalmente la legge entrò in vigore, il 17 marzo 1861, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Munito di questo strumento, Cavour iniziò la battaglia diplomatica per passare dalla rottura delle relazioni diplomatiche con il vecchio Regno di Sardegna al riconoscimento internazionale del nuovo Regno d’Italia.
L’Inghilterra lo concesse il 31 marzo insieme alla Svizzera, seguirono il 13 aprile gli Stati Uniti. Ma si trattò di una impresa assai difficoltosa che fu conclusa dai successori di Cavour solo cinque anni dopo, con una nuova guerra in alleanza con la Prussia e la conseguente pace di Vienna del 3 ottobre 1866, che portava al Regno d’Italia il Veneto ed il riconoscimento dell’Austria.



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