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GNOSIS 1/2011
ATTUALITA'

INCONTRI SU TEMI CONTEMPORANEI  articolo redazionale

Quattro chiacchere con......Marco MINNITI




 
Presidente della Fondazione ICSA dal giugno del 2009, è Deputato e componente della Commissione Affari Costituzionali.
Già Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (1998-2000), è stato Sottosegretario al Ministero della Difesa (2000-2001) e Vice Ministro dell’Interno (2006-2008).



 
La Fondazione ICSA, acronimo di Intelligence Culture and Strategic Analysis, nasce nel novembre del 2009, come centro progettuale e scientifico di iniziative e di analisi per un approccio integrato e globale del concetto di sicurezza nazionale.
L’idea di base è di creare una sorta di think tank e di “laboratorio di pensieri” per fornire apporti e strumenti di supporto culturale in stretta connessione con tutti gli organi istituzionali deputati al percorso di tutela dell’interesse nazionale.
Fasi indispensabili al consolidamento del concetto, sono le forme di promozione e diffusione della cultura della sicurezza e dell’intelligence e la realizzazione di percorsi di formazione specialistica per contribuire alla creazione di operatori ed analisti in grado di coniugare il patrimonio culturale e l’apporto di fantasia dell’intelligenza con le nuove risorse tecnologiche e cibernetiche indispensabili all’Intelligence.


150 anni del concetto 'sicurezza'


150 anni di Unità d'Italia sono anche più di un secolo di alternarsi di bisogni, di percezioni, di evoluzioni sociali, di sogni e di realtà che soprattutto negli ultimi 30 anni hanno subito trasformazioni e accelerazioni fortissime.
Sono stati 150 anni che hanno cambiato le esigenze e le percezioni della sicurezza adattandole alle necessità degli eventi fino a crearle come bisogni primari del welfare dei nostri giorni.
Nel tempo, sono mutate le paure: dalla guerra con le sirene dei bombardamenti, alla fame e al mercato nero del pane, dalla necessità della emigrazione per trovare il lavoro, al boom economico degli anni '60, fino alla gestione dei migranti con le remore dell'invasività del "diverso", dal terrore dei briganti su alcuni percorsi nazionali allo sgomento degli incidenti stradali con l'incremento del traffico automobilistico, fino alle "stragi del sabato sera"; sono cambiate le forme di comunicazione: il computer ha rivoluzionato cervello e cuore, dalle potenzialità immense delle ricerche, fino alle possibilità di innamorarsi "trovandosi" sui social networks, ma ha incrementato le paure nuove.
Le intrusioni nei database della propria vita, i furti di dati riservati, le minacce cibernetiche, lo spionaggio di softwares, di tendenze o di brands, il rischio di perdere i soldi con pagamenti elettronici o clonazione di carte di credito, fanno parte della evoluzione delle paure tangibili della quotidianeità.
è cambiato il concetto di prevenzione adeguandosi con la tecnologia, la logica e la struttura ai nuovi fenomeni ed è sul percorso del rinnovamento continuo anche il mondo della sicurezza che coagulando un insieme di esigenze, di professionalità e di specificità, mutuando il concetto di Unità Nazionale per adattarlo al Sistema Paese ha creato il concetto di Sicurezza Nazionale.
Ne parliamo con
Marco Minniti, Onorevole e Presidente della Fondazione ICSA e, soprattutto, attento testimone e compartecipe del progetto Sicurezza Nazionale.




Intelligence e tutela della sicurezza nazionale
in tempi di globalizzazione


Cultura della sicurezza, percezione della sicurezza, tutela della sicurezza nazionale: sono gli aspetti fondamentali del DNA dell’Intelligence in tempi di globalizzazione. Come si conciliano queste esigenze in Italia?
Conciliare cultura della sicurezza, percezione della sicurezza nella collettività ed effettiva tutela degli interessi nazionali è la sfida che attende non solo l’Italia, ma gli Stati occidentali e democratici in genere.
Prendiamo per esempio i primi due aspetti.
Sviluppare e implementare una cultura della sicurezza è una delle condizioni ineludibili alla base del patto tra stato e cittadini in qualsiasi società democratica.
Il dispiegarsi della globalizzazione sociale ed economica, di sommovimenti demografici e migratori nonché l’impatto di accadimenti drammatici (guerre, terremoti, catastrofi ambientali, crisi finanziarie e bolle speculative) genera timori a volte giustificati all’interno dei confini nazionali, spesso alimentati ad arte da alcune forze politiche che fondano la propria fortuna sull’intensificarsi delle paure collettive.
In queste condizioni, finisce col prevalere un sentimento di insicurezza diffusa che spesso determina una deriva di chiusura ed un impoverimento comunitario, con conseguenze enormi sul piano dello sviluppo e della crescita.
Le società chiuse non sono necessariamente più sicure, anzi, sono società in cui la percezione dell’insicurezza è molto elevata, fino a rasentare l’allarmismo.
Soltanto le società con un sufficiente grado di apertura possono generare sviluppo economico e garantire una maggiore sicurezza collettiva.
La tutela della sicurezza nazionale trova i suoi necessari presupposti in una cultura della sicurezza condivisa (da forze politiche e istituzioni) e, soprattutto, in una realistica percezione dei problemi della sicurezza interna e internazionale da parte dell’opinione pubblica.

È possibile definire il concetto di interesse nazionale?
Prima di delineare gli obiettivi strategici di sicurezza interna ed internazionale, ogni singolo stato deve procedere alla definizione del concetto di interesse nazionale.
Sul piano metodologico innanzitutto. Noi siamo una giovane democrazia dell’alternanza e per questo motivo occorre ricercare un ubi consistam condiviso, un’idea di sistema Paese che, al di là dei cambiamenti di assetto politico, permanga fissa, costante, teleologicamente determinata.
Icsa è nata anche per questo: per promuovere una cultura della sicurezza e dell’intelligence che non finisca nel tritacarne quotidiano del dibattito politico, una cultura uniformata ad uno spirito repubblicano e super partes. L’altra funzione di ICSA è di dare forma e sostanza, sul piano ontologico, al concetto di interesse nazionale, da declinare in una dimensione sovranazionale.
La dimensione nazionale e quella internazionale si devono saldare assieme. Nessun paese cede in maniera cieca quote di sovranità. L’idea di un’unica superpotenza, diciamo una sorta di super-azionista del mondo, che decide su tutto e per tutti, è ormai di scarsissima applicazione e praticabilità in un mondo multipolare come il nostro.
Ma è anche del tutto evidente che l’interesse nazionale, per come è stato codificato nell’ultimo cinquantennio, non è più perseguibile.
L’interesse nazionale, se praticato in una dimensione molto ristretta, per meri interessi di bottega, finisce per diventare non un interesse nazionale ma uno svantaggio nazionale, un autogol dal punto di vista degli interessi del Paese.
L’interesse nazionale, oggi, si può definire nel punto di incontro tra la garanzia di sicurezza e la ricerca del benessere dei cittadini.
Qui si innesta l’altra grande questione: come bilanciare i poteri nazionali e i poteri sovranazionali. Questa è l’altra importante sfida a cui sono chiamati a rispondere gli apparati statali delle società democratiche.

Quali possono essere nel 2011 gli interessi strategici dell’Italia?
Una volta disegnato il metodo, automaticamente prendono forma i lineamenti degli interessi strategici nazionali. In un mondo in cui la leadership USA è sempre più contesa, in cui la complessità di gestione di problemi planetari è affidata ormai ad aggregazioni sempre più multilaterali (non è un caso se si susseguono allargamenti delle aggregazioni sino a ieri impensabili, dal G8 al G20), dove il ruolo dei Paesi BRIC (Brasile, Russia, Cina e India) cresce esponenzialmente, l’Italia deve necessariamente trovare la sua dimensione aggregativa.
L’Italia deve inscrivere in primo luogo il proprio raggio d’azione all’interno di un grande progetto europeo condiviso. La cosa non è affatto semplice. L’Africa sta cambiando a ritmi vorticosi. Occorre rivitalizzare e sostenere i movimenti di popolo e l’azione delle nuove classi dirigenti di quel continente.
Bisogna intervenire in questi fermenti rivoluzionari con un profilo multilaterale, in chiave europea.
Quanto sta avvenendo nel Maghreb, in Medio Oriente e nella Penisola Araba, si inscrive all’interno di un’onda lunga il cui esito è ancora imprevedibile. Non è un moto destinato ad arrestarsi in breve tempo. Ha assunto le caratteristiche di un cambiamento epocale il cui approdo dipende anche dalle cose che l’Europa sarà in grado di fare.
Le sorti dell’Italia e dell’Unione Europea sono intimamente connesse al processo in corso che ha dei rilevanti caratteri di originalità e novità. Per la prima volta, siamo in presenza di un grande sommovimento di popolo, che non è pervaso da un sentimento antioccidentale.
Non è più possibile applicare la vecchia teoria dell’esportazione della democrazia (che si è rivelata gravida i conseguenze non positive) ma è necessario coltivare i germi di democrazia che caratterizzano le giovani generazioni arabe e musulmane.
Su questo terreno ci si gioca il futuro, anche per quanto riguarda la sicurezza interna degli stati occidentali.
La comunità internazionale deve comprendere che si è aperto un nuovo scenario.
Prima di adesso la questione sicurezza nell’ambito della dinamiche geopolitiche internazionali era spesso oggetto di scambio con regimi autocratici. C’era un rapporto matematico tra le necessità degli approvvigionamenti energetici delle economie mondiali più sviluppate e la tolleranza nei riguardi di regimi autocratici e dittatoriali.
Oggi il rapporto con paesi culturalmente e geograficamente distanti dal nostro, ma ricchi di materie prime e di giacimenti energetici, deve essere costruito su basi di trasparenza e di reciproche convergenze, non può più essere un rapporto tra retrovie oscure del potere.
Così come nell’89 la Germania rispose al crollo del Muro di Berlino imponendo all’Europa una politica di espansione socioeconomica e giuridica verso Est, in questa circostanza l’Italia deve tentare di imporre una effettiva politica mediterranea.
Diventa in questo quadro essenziale il rapporto con la Francia, al di là del protagonismo francese, da parte di Italia e Francia nei prossimi mesi ci dovrà essere una convergenza strategica rispetto alle modalità di risoluzione della crisi geopolitica e militare in atto.

In che cosa l’analisi strategica si differenzia dall’analisi tattica nella tutela degli interessi nazionali?
Noi viviamo ormai in un mondo sempre più potente ma anche sempre più fragile. Può sembrare un paradosso, ma più aumentano la conoscenza e la capacità dell’interscambio e della comunicazione globali, più questo mondo diventa fragile e attaccabile. Attaccabile dalla casualità. Da eventi del tutto inattesi e non programmati.
La crisi finanziaria globale dell’ultimo triennio, la vicenda del vulcano islandese Eyjafjallajökull nel 2010, lo tsunami giapponese ed il disastro nucleare di Fukushima, i conflitti e le tensioni popolari in Nordafrica e nella penisola araba, sono la cifra di una nuova instabilità caratterizzata da un vortice di casualità storica che mina le nostre quotidiane e programmate esistenze.
Ad accrescere l’instabilità di sistema contribuisce in maniera significativa, poi, il terrorismo, guerra asimmetrica non casuale, ma altrettanto difficilmente prevedibile.
E allora, a fronte di questa volatilità ed imprevedibilità degli eventi, che cosa distingue l’analisi tattica dall’analisi strategica, quando si parla di tutela degli interessi nazionali?
Premesso che le due tipologie sono piuttosto compenetrate e intimamente connesse, l’analisi tattica consiste oggi nella capacità di fornire risposte specifiche e soprattutto appropriate a singoli ed imprevedibili accadimenti, di ridurre l’impatto delle crisi di sistema imprevedibili sulle strutture produttive e sulle comunità nazionali, attraverso interventi il più possibile efficaci e risolutivi.
In questo quadro analitico, è il metodo che conta. Sono le procedure normative e le modalità organizzative nell’affrontare una situazione di emergenza ad essere determinanti.
L’analisi strategica è invece caratterizzata dalla combinazione di più attività di intelligence informativa, come ad esempio: l’individuazione dei più efficaci e convenienti (per l’interesse nazionale) sistemi di alleanza; la selezione accurata dei mercati di riferimento dei propri sistemi produttivi; l’applicazione di tecniche avanzate di competitive intelligence in relazione a possibili conflitti e tensioni tra stati e holding multinazionali; la selezione delle migliori partnership di intelligence; l’identificazione di potenziali alleanze strategiche; l’elaborazione delle soluzioni più razionali di counterintelligence competitiva.

Come cambia il ruolo dell’intelligence nei velocissimi tempi di facebook e twitter?
Certamente qualcosa è cambiato. In questo universo informativo in costante evoluzione cambia l’importanza assegnata all’analisi delle fonti aperte da parte dell’intelligence. Dinanzi alla grande mole di informazioni circolanti occorrerà implementare e potenziare di molto la capacità di analizzare ed interpretare le fonti aperte.
I nuovi media e i social network richiedono un ampliamento e un aggiornamento continuo delle competenze informatiche dei servizi di intelligence. Certo i social network aumentano la diffusione e la capillarizzazione della propaganda terroristica, ad esempio, ma sull’altro versante potenziano la capacità di infiltrazione dell’intelligence, come dimostra una recente iniziativa dell’esercito americano, che ha deciso di contrastare le ideologie estremiste e la propaganda anti-americana ricorrendo a un software che crea profili fittizi in grado di interagire e, quindi spiare, i “nemici che agiscono nel cyberspazio”. Dunque, dal punto di vista della minaccia terroristica, i social network sono in sé strumenti neutri a disposizione sia degli infiltranti che degli infiltrati. La vera differenza competitiva la fanno la qualità e il livello culturale delle risorse umane impiegate.
Diverso è il discorso in rapporto al cyber crime, per il quale i social network rappresentano un vasto territorio di azione e una fonte di lucro. Oggi infatti i malware, i programmi maligni, non viaggiano più attraverso gli allegati mail, ma si diffondono proprio attraverso Facebook e Myspace, sfruttando il potenziale moltiplicativo della rete di contatti per il furto d’identità e di dati personali. Da questo punto di vista, i social network giocano eminentemente il ruolo di vittime potenziali.

Gli equilibri fittizi del cosiddetto “benessere diffuso” – insieme ad una diversa “immagine commerciale della società” hanno mimetizzato fin dagli anni ’80 le difficoltà della classe lavoratrice, come è stato possibile?
Il “benessere diffuso” non è mai stato un obiettivo disprezzabile: dopotutto è il modello concretizzatosi nelle migliori socialdemocrazie europee. Senza arrivare a teorizzare “il diritto al caviale” come facevano certe frange movimentiste nel ‘77, bisogna però ricordare che l’alternativa socio-economica al modello rivoluzionario marxista è il riformismo gradualista che assicura un innalzamento generale del tenore di vita e un miglioramento delle condizioni di lavoro.
La crisi economica che stiamo vivendo si è certamente prodotta a causa di fattori economico-finanziari di respiro globale, ma vi ha giocato un ruolo anche il modello produttivo attuale che fa pagare solo ai lavoratori ed al ceto medio, ossia il corpo della società italiana, i costi della competizione internazionale.
Come è accaduto questo? Probabilmente la colpa principale è da attribuire agli appetiti e all’irresponsabilità di un ceto finanziario e brokeristico transnazionale, il quale ha preferito ignorare che il mondo della produzione di beni e servizi ha delle regole di comportamento codificate, dei tempi, delle procedure organizzative che non possono stare dietro alla velocità degli scambi borsistici o delle lotte che avvengono nelle principali piazze d’affari internazionali o nei consigli d’amministrazione delle multinazionali.
Bisogna inoltre considerare il ruolo della globalizzazione, che se non governata o vigilata a sufficienza può avere un impatto tremendo sulla vita delle persone e sulle potenzialità di crescita dei sistemi produttivi nazionali.
Da ultimo, la crisi fiscale degli stati che ha di fatto reso impossibili o ridotto significativamente le capacità di investimento dei singoli stati, soprattutto nelle aree della ricerca, della cultura e dell’imprenditorialità giovanile.

Si può ancora parlare di ideologia o il rischio del palcoscenico virtuale sposta in rete sia le piazze che le idee?
Il medium del web ha infinitamente velocizzato la circolazione delle idee, ma allo stesso tempo ne ha depotenziato la capacità di attecchire nella mente dei fruitori dei nuovi mezzi di comunicazione. Oggi le idee si consumano rapidamente, hanno vita breve, vengono subito soppiantate da altre idee, anche perché Internet ha moltiplicato i centri di produzione ideale (si pensi allo sterminato numero di blogger che fanno concorrenza ai giornalisti accreditati dalla carta stampata). Contro la rapidità e la sintesi che la rete ha imposto alla comunicazione, le ideologie meditate, elaborate, sedimentate possono ben poco. È un processo che si può riscontrare anche nella brevità dei libri che vengono pubblicati: sono sempre più rari i romanzi fiume, i saggi che superino le 150/200 pagine e sempre più diffusi gli instant book, i libri brevi che nascono sull’onda di un tema di attualità. La produzione ideale è impegnata in una corsa contro il tempo, quel tempo che Internet ha vertiginosamente accelerato, e allora gioca al ribasso, si concentra sulla produttività più che sulla qualità e sulla durabilità di ciò che viene immesso nel panorama culturale. Le ideologie sono apparati pesanti, la velocità di Internet invece richiede idee snelle e leggere.

Qualcuno sostiene che i popoli fanno le rivolte e le élites le rivoluzioni. È vero?
Innanzitutto bisogna definire esattamente cosa sono “rivolta” e “rivoluzione”: la prima ha un carattere spontaneo, nasce, come diceva Albert Camus, dal “rifiuto ostinato, quasi cieco all’inizio, di un ordine che voleva mettere gli uomini in ginocchio”. È quello che sta accadendo in questi ultimi tempi nel Maghreb: una forza popolare è insorta contro regimi corrotti e dispotici che avevano prodotto una disoccupazione diffusa e una miseria immensa, soprattutto in Tunisia ed Egitto.
La rivoluzione, invece, contiene un progetto alternativo di società. Immagina nuovi assetti socio-economici e politici e, in questo senso, coinvolge le avanguardie – le élites – intellettuali della popolazione. Queste ultime sono già all’opera in Maghreb, dove le fasce giovanili e digitalizzate della popolazione stanno svolgendo un ruolo importante nelle rivolte. Tuttavia, in quest’area manca ancora la chiara formulazione di modelli politico sociali alternativi e l’aspirazione alla democrazia deve ancora concretizzarsi in un progetto definito. Non è ancora scongiurato il rischio che i regimi autoritari di Ben Ali, Moubarak e Gheddafi, una volta rovesciati, lascino il posto a forme di governo a loro volta non democratiche, se è vero, come diceva Hannah Arendt, che le rivoluzioni sono predeterminate dal tipo di governo che vogliono abbattere. In questo senso, l’Occidente può fare molto per aiutare il Maghreb a proseguire sulla strada di una vera transizione democratica, rispondendo alle istanze di libertà e giustizia sociale che provengono dai popoli in rivolta.

Quali saranno i rischi principali che correranno le prossime generazioni?
Le aree a grande rischio in cui dovranno necessariamente cimentarsi i sistemi e gli apparati nazionali di intelligence saranno il contrasto alla criminalità organizzata, nazionale e transnazionale, la lotta al terrorismo, alla corruzione, al cyber crime, la protezione delle Infrastrutture Critiche.
La globalizzazione porta libertà, democrazia e ricchezza ma se non vigilata produce distorsioni, elusione delle regole, permeabilità delle giurisdizioni nazionali, vulnerabilità, incremento delle disuguaglianze, riciclaggio, corruzione, protezionismo, conflitti.
Le piramidi dei poteri e delle relazioni tra stati e tra soggetti economici e produttivi cambiano con grandissima velocità.
Le sempre più profonde differenze di benessere e di reddito, sia tra stati che all’interno dei singoli stati, rappresentano la causa fondamentale dei rischi planetari, che si possono articolare lungo tre direttrici: sbilanciamenti globali e volatilità finanziarie, crisi fiscali e collasso dei prezzi dei beni; corruzione, riciclaggio e sviluppo delle organizzazioni criminali transnazionali; volatilità dei prezzi delle materie prime energetiche, modificazioni climatiche e insicurezza alimentare e idrica.
Ecco allora che l’intelligence economica diventa una parte fondamentale dell’attività dei Servizi. Il deficit di interesse riguardo la centralità dell’intelligence economica è il sintomo di un significativo ritardo culturale: l’opinione pubblica non ha ancora una percezione chiara dei volumi d’affari generati dalle mafie, né immagina fino a che punto le speculazioni finanziarie o immobiliari possano minare le strutture politiche e socioeconomiche di interi stati.
La complessità del mondo in cui viviamo richiede un nuovo modello nazionale di intelligence, attraverso il potenziamento della capacità di analisi e di interpretazione della globalizzazione sociale, economica e finanziaria. In questo senso, occorre implementare un modello organizzativo dell’intelligence in grado di interpretare i processi di trasformazione strutturale delle economie mondiali, le modificazioni del carattere antropologico, culturale e religioso dei popoli, persino i mutamenti di carattere climatico e ambientale e i loro effetti sulla vita del pianeta. Questi obiettivi non sono irraggiungibili, ma necessitano di una maggiore integrazione tra i vari apparati statali e della cooperazione con il sistema universitario e imprenditoriale al fine di selezionare le aree prioritarie di intervento, le competenze e i profili professionali più adeguati ai moderni apparati di intelligence.
Se non affrontiamo il tema dell’intelligence economica avremo uno svantaggio competitivo del sistema Italia che diventerà uno svantaggio strutturale. E allora siccome vige, ancor di più rispetto al passato, una serrata competizione tra le strutture nazionali di intelligence, l’Italia deve attrezzarsi per ottenere una capacità informativa in grado di competere con quella degli altri Paesi Un Paese che dispone di molte informazioni è un Paese che conta negli equilibri della sicurezza internazionale.

Cosa le manca dei suoi venti anni?
Prima di tutto i capelli. Stavo scherzando naturalmente...
Mi manca piuttosto il senso e la passione del pensiero lungo di quegli anni. Devo confessare la mia incapacità oggi a immaginare orizzonti che vadano oltre i mesi, un sentimento del tempo, una sorta di breve-terminismo del pensiero che tenta, non sempre riuscendovi, di adattarsi alla velocità e all’imprevedibilità degli eventi.
È un sentimento questo, ed è una novità per me, che si accompagna, ormai sempre più spesso, alla mia attività di politico, che richiede programmazione degli obiettivi, progettualità e capacità di comprensione dei fatti nel lungo periodo.


INTELLIGENCE ECONOMICA
Il ciclo dell'informazione nell'era della globalizzazione


L’EVENTO – Presentazione nell’ambito della Fondazione ICSA.

L’Intelligence economica – in quanto studio degli aspetti previsionali della evoluzione della produttività, delle possibilità di investimento delle risorse di un Paese, delle fluttuazioni dei brands e dei mercati e di tutte le variabili in grado di influenzarli – rappresenta da sempre uno dei temi fondamentali della tutela della sicurezza dello Stato.

Il concetto – come è naturale – comprende anche una componente relativa all’attività di spionaggio nella misura in cui l’attività di spionaggio, in genere, costituisce solo una tappa del processo della tutela dell’interesse nazionale.

Non a caso la concorrenza è diventata competizione globale non solo tra sistemi economico finanziari ma soprattutto come potenzialità di protezione delle proprie informazioni/strutture rinforzata dalla possibilità di acquisizione di dati informativi esterni in grado di fornire elementi previsionali.

La presentazione del lavoro di Jean e Savona – edito da Rubbettino - dedicato all’intelligence economica come ciclo di informazioni nell’era della globalizzazione nell’ambito delle iniziative della Fondazione ICSA - sottolinea la vocazione analitica del fenomeno che per esprimere al meglio il significato totale deve sviluppare le tecniche di raccolta di tutti i dati, verificarne i risultati e creare schemi di ipotesi innovative.

Entrambi gli autori si esprimono avendo come riferimento costante il concetto di interesse nazionale primario da tutelare: la sicurezza intesa come un compositum di apporti in relazione alla nuove e vecchie forme di criminalità, ai recenti orizzonti del cyberspazio e agli aspetti evolutivi della cultura della sicurezza, in ogni settore.

Nel corso della presentazione, gli interventi del Direttore del DIS, Prefetto DE GENNARO, e del Presidente della Fondazione ICSA, Marco Minniti, hanno evidenziato la crescita della consapevolezza della cultura della sicurezza e la necessità che un “sistema Paese” tuteli il proprio patrimonio-sicurezza in un flusso continuo di informazione e conoscenza trasversale per elaborare linee strategiche a medio e a lungo termine, oltre le tattiche emergenziali o le rigide posizioni politiche.



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