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GNOSIS 1/2011
Il lungo confronto fra Stato e crimine organizzato

La parabola della mafia dall’Unità d’Italia ad oggi


Alberto CISTERNA


( Foto da www.sperimentaleleonardo.it)
 
Nella storia d'Italia, anzi dell'Italia unita, c'è una costante: la ricerca della superstruttura, del "potere occulto" che condiziona l'economia, la politica e, quindi, la vita degli italiani. Così c'è stata l'affannosa ricerca del "Grande Vecchio", durante gli "anni di piombo" e c'è stata, anzi per certi versi c'è ancora, la ricerca del "Terzo livello" della mafia, al quale non credeva neppure Giovanni Falcone. Altro, ovviamente, è discutere della dimensione orizzontale delle collusioni e delle conteressenze tra mafia e potere. è la mafia, anzi le mafie, il tema che affronta Alberto Cisterna collocate all'interno della storia d'Italia. Una storia parallela che prende le mosse da prima dell'Unità d'Italia, con la relazione nel 1838 di Pietro Calà Ulloa, Procuratore Generale di Trapani e approda all'articolo 416 bis del Codice Penale che per la prima volta definisce l'associazione mafiosa, al di là della collocazione geografica del termine mafia. Ma la "mafiosità", definiamo così il comportamento mafioso, impone il declino della legalità, dovunque la struttura criminale alligni. Ed è proprio sul recupero della legalità che sarà possibile vincere la guerra alla criminalità organizzata. Ma sarà indispensabile un salto culturale, in parte già avvenuto, con l'abbandono dei luoghi comuni e una visione concreta della "mafiosità" che consenta interventi mirati e puntuali.


Una letteratura pulviscolare dipana la storia del Paese come una fitta sequela di crimini, delitti e, soprattutto, complotti. C’è una porzione non marginale e, soprattutto, combattiva della società che tende finanche a ipotizzare che la vita della Nazione possa essere raccontata come un ininterrotto romanzo criminale, in cui mafie, poteri occulti, potentati stranieri e lobby economiche avrebbero deciso le sorti della vita collettiva. Un oscuro demiurgo avrebbe retto le sorti della società secondo un imperscrutabile disegno criminale.
I buchi neri della storia d’Italia (le stragi impunite, gli scandali mai fino in fondo esplorati, le complicità rimaste nell’ombra) sono l’occasione per attribuire ad una sorta di nemico, invisibile eppure onnipresente, le responsabilità più nefaste, gli accordi più scellerati. Una mainstream sotterranea alle Istituzioni e alla vita pubblica in cui si celerebbero atrocità mai rivelate o pienamente attinte.
Eppure il tarlo che ha troppe volte corroso l’etica repubblicana e intaccato la legittimità delle Istituzioni non ha un volto misterioso, né assume comportamenti indecifrabili; le corrosioni e gli sfregi appaiono piuttosto come il lato oscuro di una società, quella italiana, capace di sfolgoranti generosità e umilianti cedimenti. Molto si è detto e scritto dei vizi e delle virtù italiche e si può forse rappresentare questo territorio opaco della morale collettiva nelle parole che, con qualche asprezza, Francesco De Sanctis dedicò all’opera di Guicciardini: «nel Guicciardini comparisce una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure, e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita. Il dio del Guicciardini è il suo particolare».
Probabilmente, in una visione incline all’incanto antropologico e alle tentazioni etnografiche potrebbe ravvisarsi in questa atavica contraddizione dello spirito nazionale, in questa perenne oscillazione tra solidarietà, civica e religiosa, da una parte e perseguimento accanito dei propri interessi, dall’altra, la radice profonda di un fenomeno indiscutibilmente tutto italiano quali sono le mafie (è la famosa tesi di Giuseppe Pitrè secondo cui «la mafia non è setta, né associazione, non ha regolamenti, né statuti … La mafia è coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, d’ogni urto d’interessi e di idee, donde l’insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui»). Oppure, con più aderenza alla storia del Paese, dovrebbe prendersi in considerazione la circostanza che la consapevolezza dell’esistenza della mafia in Sicilia è praticamente coeva all’unità d’Italia, allorquando un mondo rimasto confinato in una porzione del regno borbonico entra in contatto e si contrappone alle nuove regole della nazione appena proclamata.
V’era stata, è vero, la testimonianza del procuratore generale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, che in una Relazione del 1838 diretta ai suoi superiori segnalava la presenza di «fratellanze» e «strane sette»: «il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei» attraverso «Unioni o fratellanze, specie di sette che dicono partiti, le quali, capitanate da «possidenti» e «arcipreti», realizzano «piccoli governi nel Governo» per le componende ossia le trattative tra vittime e autori dei reati, con cui viene sottratto all’ordine legale il potere di perseguire i crimini, per altre trame contro i pubblici funzionari. Scriveva il magistrato «non c’è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a trarre profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi.Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggerlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei. Come accadono furti, escono dei mediatori a offrire transazioni per il recupero degli oggetti rubati. Molti alti magistrati coprono queste fratellanze di una protezione impenetrabile, come lo Scarlata, giudice della Gran Corte Civile di Palermo, come il Siracusa, alto magistrato... Non è possibile indurre le guardie cittadine a perlustrare le strade; né di trovare testimoni per i reati commessi in pieno giorno. Al centro di tale stato di dissoluzione c’è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX, città nella quale vivono quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal lusso e dal capriccio dei grandi. In questo ombelico della Sicilia si vendono gli uffici pubblici, si corrompe la giustizia, si fomenta l’ignoranza» (Leonardo Sciascia, La storia della mafia, in Quaderni Radicali, anno XV, gennaio- giugno 1991, n.30-31).
Ma, come commentano gli storici, si trattava di un atto che, a ben guardare, non segnalava la presenza di un fenomeno ribellistico o antistatuale, ma la sola pratica di forme occulte di regolazione delle controversie tra privati, una sorta di «protomafia». Scrive Salvatore Lupo «Nel 1864 nei suoi Cenni sullo stato attuale della pubblica sicurezza in Sicilia, Nicolò Turrisi Colonna, componente del governo rivoluzionario nel 1849, in seguito senatore d’Italia e sindaco di Palermo, esponente della sinistra moderata spiega benissimo il fenomeno. Il suo è il primo libro sulla mafia, anche se la parola mafia non vi compare. Turrisi racconta di una “setta” composta da ladri e contrabbandieri, la dice ordinata secondo le regole dell’”umiltà” (termine massonico poi corretto dialettalmente in omertà), spiega che in essa le decisioni vengono prese in assemblee, che si entra per giuramento, che i suoi tribunali possano emanare condanne capitali. Nel 1860 la setta è stata usata a fini politici, continua Turrisi, ma nel 1864 bisogna fare i conti con questa realtà, a meno che il governo non adotti misure adeguate» (Storia della mafia. La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Roma, 1993).L’asse di oscillazione intorno al quale gravitano atteggiamenti culturali e metodologie di interpretazione della mafia rimane, a distanza di oltre un secolo, pur sempre rappresentato, ad un estremo, da una concezione antropologica che lega l’agire mafioso ad una sorta di predisposizione interiore connessa a fattori ambientali e sociali, e all’altro capo, da una visione squisitamente criminologica che individua nella condotta di mafia i tratti di un modo delinquenziale orientato verso un profitto. Ad tutt’oggi l’una o l’altra impostazione, e tutte quelle intermedie, costituiscono un terreno di confronto nel dibattito sulla mafia e sull’antimafia, poiché è evidente che si tratta di impostazioni che esigono soluzioni e prefigurano scenari distonici o, almeno, non completamente convergenti.
Conviene, quindi, azzardare qualche considerazione, avendo la consapevolezza che le riflessioni che ci si appresta a svolgere non ambiscono ad alcuna dignità scientifica. Le pervade, in qualche misura, la convinzione che la particolare attitudine delle organizzazioni mafiose a resistere all’azione di contrasto dello Stato trovi la propria ragion d’essere non solo nella difficoltà di produrre strategie appropriate e sforzi durevoli, ma anche in una sorta di “in sé” dell’agire mafioso in cui si intravedono tratti peculiari del Meridione e della sua storia post-unitaria. Occorre procedere a spanne ed incidere con cautela per ignes stante la sterminata congerie di riflessioni e dibattiti (anche aspri) che per decenni si sono agglutinati intorno a questi temi. Si consenta, quindi, di prendere le mosse da talune considerazioni svolte dal Presidente della Repubblica nell’intervento svolto il 17 marzo 2011 alla seduta comune del Parlamento in occasione dell’apertura delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: «E fu debellato il brigantaggio nell’Italia meridionale, anche se pagando la necessità vitale di sconfiggere quel pericolo di reazione legittimista e di disgregazione nazionale col prezzo di una repressione talvolta feroce in risposta alla ferocia del brigantaggio e, nel lungo periodo, col prezzo di una tendenziale estraneità e ostilità allo Stato che si sarebbe ancor più radicata nel Mezzogiorno».
Si può senz’altro condividere l’asciutto rigore di questo sintagma: «tendenziale estraneità e ostilità allo Stato» e non importa se essa sia figlia del sanfedismo o del latifondismo meridionale, dell’amministrazione borbonica o dell’annessione garibaldina. Quel che rileva è che su questa, in parte, irrisolta aporia politica e ideale, su questa incompiuta lealtà costituzionale o civicness si fonda un senso duale di appartenenza che solo la modernità o, meglio ancora, la globalizzazione dell’ultimo decennio sembra in grado di travolgere insieme, purtroppo, a radici etiche ben più profonde, come ha severamente ammonito la massima Magistratura della nazione («Reggeremo - in questo gran mare aperto - alle prove che ci attendono, come abbiamo fatto in momenti cruciali del passato, perché disponiamo anche oggi di grandi riserve di risorse umane e morali. Ma ci riusciremo ad una condizione: che operi nuovamente un forte cemento nazionale unitario, non eroso e dissolto da cieche partigianerie, da perdite diffuse del senso del limite e della responsabilità. Non so quando e come ciò accadrà; confido che accada; convinciamoci tutti, nel profondo, che questa è ormai la condizione della salvezza comune, del comune progresso»).
E' una questione che tratteremo oltre.
Per ora non può non venire in considerazione una data cruciale nella storia del contrasto alla criminalità di stampo mafioso. La lotta alla mafia è prossima al suo trentennale. è un calcolo fatto a spanne se si guarda alla storia del Paese, ma almeno dal punto di vista normativo la stima ha una certa dose di attendibilità. Certo non ci sono state proclamazioni solenni, né possiamo indicare una data precisa, la guerra alla mafia come tutti i conflitti moderni è una guerra deformalizzata, irrituale. Non solo sottratta alle tradizionali regole del diritto bellico, ma anche lontana dalla retorica solennità delle parole pronunciate il 20 settembre 2001 da George W. Bush innanzi al Congresso degli Stati Uniti: «On September the 11th, enemies of freedom committed an act of war against our country. Americans have known wars, but for the past 136 years they have been wars on foreign soil, except for one Sunday in 1941». La vergogna di Pearl Harbor, l’unico giorno di guerra su suolo americano in 136 anni di storia, l’attacco a sorpresa non preceduto dalla tempestiva consegna della dichiarazione di belligeranza da parte dell’Impero del Sol levante.
Molte volte la mafia ha iniziato le ostilità perpetrando l’ignominia dell’attacco a sorpresa, consumando eclatanti imboscate. La Pearl Harbor mafiosa si materializza a Palermo la sera del 3 settembre 1982, in via Carini, con l’uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quell’evento segna, con ogni probabilità, il principio della guerra combattuta tra mafia e Stato, almeno dal punto di vista giuridico. A rispondere a quell’aggressione non sono però gli uomini del Governo, né i vertici degli Apparati di polizia o della magistratura, annichiliti dalla violenza di Cosa nostra. La constatazione della guerra avviene il 5 settembre 1982 durante il rito funebre, alla presenza dei vertici dello Stato, in una chiesa ammutolita e impaurita. Le formalità le consuma un uomo con i paramenti cardinalizi: «si sta sviluppando, e ne siamo tutti costernati spettatori, una catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché, mentre così lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti, siano privati cittadini che funzionari ed autorità dello Stato medesimo, quanto mai decise invece, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire. Sovviene e si può applicare una nota frase della letteratura latina, di Sallustio mi pare, nel De bello jugurtino: ’Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur’; mentre a Roma si pensa sul da fare la città di Sagunto viene espugnata dai nemici».
Sua Eccellenza Salvatore Pappalardo, Cardinale della diocesi di Palermo, pronuncia una frase che nella frazione di pochi attimi entra nel patrimonio morale e civile del Paese e sfonda il muro della belligeranza: la città viene presa d’assalto dai «nemici». Sabato 11 settembre 1982 il Governo prende atto che lo scontro è inevitabile e con un decreto legge inizia la stagione della lotta alle cosche. Il nemico esiste e ha un nome si chiama ‘mafia’. In un varco del codice penale scritto 50 anni prima si inserisce un nuovo articolo: il 416-bis che punisce le associazioni mafiose. Non è solo la norma che molti inquirenti e uomini della politica avevano invocato per anni al fine di meglio contrastare e punire i mafiosi, ma contiene anche le «regole d’ingaggio» da osservare durante le ostilità.
Ogni conflitto per essere efficace esige, innanzitutto, che si individui il nemico e lo si descriva con la massima accuratezza possibile e l’articolo 416-bis non si sottrae a questa incombenza: «l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri», «ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali», si aggiungerà dieci anni dopo, a pochi giorni dalla strage di Capaci e a pochi mesi dall’omicidio dell’onorevole Salvo Lima.
Tralasciamo ogni valutazione giuridica sulla sintassi adoperata nello scrivere il nuovo reato di «associazione di tipo mafioso» e mettiamo da parte anche qualsivoglia considerazione sulle influenze che una certa visione sociologica e antropologica della mafia hanno esercitato nella redazione del testo di legge. Concentriamoci piuttosto sul fatto che l’articolo 416-bis non si limita a punire i mafiosi, ma pretende anche di definire la mafia, di chiarirne gli obiettivi criminali e sociali, di smascherarne il progetto egemone sulla società siciliana e meridionale in genere. Di quest’ultima porzione del Paese reca un’esplicita menzione l’ultima parte di quel testo ove si legge «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso». Lo sbrigativo corollario dedicato a camorra et similia lascia intendere che la preoccupazione principale dello Stato era quella di sfidare l’avversario più temibile e feroce. Il nuovo reato è diretto innanzitutto contro Cosa nostra palermitana. Indicare cosa sia la mafia e, quindi, chi siano i mafiosi, è il primo passo contro l’omertà e l’intimidazione, anche quella patita dalle Istituzioni che nei decenni precedenti avevano persino negato che la maffia esistesse.
è la paura il vero obiettivo dell’articolo 416-bis, l’oggetto di ogni attenzione. La paura ossessiva e paralizzante, quella che rende le Istituzioni distratte o complici, quella che costringe i siciliani a voltarsi dall’altra parte. Bisogna affrontarla perché sarebbe pericoloso sfuggirle ancora. E occorre farlo in modo chiaro, senza tentennamenti e senza reticenze: l’omertà è la paura di ammettere di aver paura. «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze... Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (Paolo, II lettera ai Corinzi).
Occorreva trasformare la debolezza della paura da strumento saldamente in mano ai mafiosi, a prova da utilizzare contro i nuovi “Innominati” nel corso dei processi. Tutte le volte in cui un testimone tacerà o mentirà si avrà un elemento per ritenere che l’imputato è davvero un mafioso, è proprio il silenzio che inizia a raccontare qualcosa di lui e della sua organizzazione. A questo punto tutto può essere disvelato: il metodo, gli scopi, la volontà dominatrice, i mezzi adoperati, le risorse a disposizione. «Decise, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire» aveva tuonato il Cardinale Pappalardo e lo Stato verga l’articolo 416-bis ammettendo che la nazione è pervasa da uomini i quali, non solo mettono a repentaglio la vita e i beni dei cittadini («per commettere delitti») ma, avvalendosi «della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva», minacciano di conquistare «la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici», di accaparrarsi «vantaggi ingiusti», sino a «impedire od ostacolare il libero esercizio del voto».
Le carceri non sono sufficienti per fermare un’armata così agguerrita e feroce, occorre privarla oltre che degli uomini, anche delle risorse: la confisca sarà l’altro strumento messo in campo in questo conflitto iniziato il 1982. Come in qualsiasi altra guerra la vittoria è possibile a condizione che si sgretolino i patrimoni che sorreggono lo sforzo bellico dell’avversario, anche la mafia deve veder erose le proprie ricchezze e i capitali accumulati, visto che le cosche non si limitano a infiltrare l’economia legale, ma muovono per occupare la società (cfr. da ultimo gli interventi nel forum Scacco di Stato ai beni della criminalità organizzata, a cura di Emanuela C. Del Re, in Gnosis, n. 2/2010).
è evidente che non è stato sufficiente e le stragi del 1992-1993, l’uccisione di don Puglisi, di Libero Grassi, di tanti uomini delle Forze dell’ordine, di politici e imprenditori, di parenti di collaboratori di giustizia sono lì a ricordarcelo drammaticamente. Anzi, ultimata in pochi decenni la fase dell’escalation militare e sociale nei propri territori, la funzione e la vocazione mafiosa hanno preteso una completa egemonia su uomini e risorse e hanno preso pericolosamente ad esondare verso il centro-nord, verso l’Europa e altrove. Le mafie italiane, a differenza di altre organizzazioni criminali, non sono strutture solamente voraci, ossia orientate esclusivamente verso la percezione di profitti illegali, ma ambiscono alla sottomissione delle aggregazioni sociali di riferimento. Nella lunga campagna di conquista le mafie hanno progressivamente coinvolto gruppi sociali sempre più vasti, rendendoli partecipi della distribuzione delle ricchezze depredate e guadagnandone la leale collaborazione. Laddove è stato necessario hanno praticato una violenza immane, annichilendo ogni resistenza e abbattendo capillarmente ogni ostacolo. In altri casi si sono mossi con grande flessibilità, evitando contrapposizioni brutali e agendo sul versante della cooptazione e della corruzione. Malgrado ciò è indubitabile che nel perimetro arretrato e depresso delle società meridionali le organizzazioni mafiose abbiano innescato un formidabile, quanto scellerato, processo di innovazione sociale.
Se si potessero seguire in parallelo la vita del mafioso di un piccolo Paese di Calabria e quella del suo coetaneo emigrato in Lombardia o in Germania negli anni ‘50 e ‘60 dovremmo annotare una diversità che non è fatta solo di sangue e denaro. La distinzione riguarderebbe in modo più incisivo il contesto di modernità entro il quale il boss è riuscito a inserire se stesso, i propri congiunti e gli affiliati, malgrado un apparente immobilismo territoriale. Ad esempio il business delle droghe tra America e Europa ha costituito per la mafia non solo l’occasione per enormi profitti, ma anche lo spunto per una raffinata emancipazione sociale e culturale fondata sulla conoscenza e sull’utilizzo dei sistemi bancari, delle prassi mercantili, delle reti di trasporto, delle lingue e via seguitando. Una medesima linea evolutiva si coglie nell’ingerenza mafiosa verso i flussi del denaro pubblico destinati alla sanità, all’agricoltura o agli appalti. Anche in questi settori i clan hanno acquisito una straordinaria competenza nell’intrecciare rapporti con i centri decisionali della politica, delle amministrazioni pubbliche o dell’imprenditoria legale. Strati sociali totalmente emarginati dai consueti circuiti dello sviluppo politico, sociale ed economico hanno guadagnato, attraverso l’esercizio della violenza, un’evidenza e un ruolo altrimenti inaccessibili. I mafiosi hanno raggiunto obiettivi che sarebbe stato possibile conseguire attraverso percorsi molto più lenti e probabilmente più selettivi ed elitari in relazione alle compagini sociali coinvolte.
Non v’è stata alcuna cooptazione da parte della borghesia meridionale, in massima parte guardinga e sospettosa, gli uomini dei clan l’hanno semplicemente espugnata, imponendo la loro ingombrante presenza. Al Sud v’è stata l’esplosione di porzioni consistenti di ceti subalterni, improvvisamente inseriti nella rete dei beneficiari della nuova ricchezza per effetto dei vincoli familiari o di fiducia che li legavano ai boss. Alle clientela della borghesia politica meridionale, le mafie hanno risposto con i clan, con le famiglie, hanno assimilato il metodo dell’occupazione del potere e lo hanno replicato con estrema efficacia e durezza.
La metamorfosi sociale che, a partire dalla miseria dei piccoli centri del sud (da Corleone a Casal di Principe a Gioia Tauro), è giunta alla condivisione del potere con le oligarchie locali e nazionali consegna un trend di espansione difficilmente replicabile in altri scenari.
Man mano che le organizzazioni mafiose acquisivano un ruolo di influenza negli affari della politica e dell’economia, consistenti gruppi sociali riconoscevano nel metodo mafioso l’attitudine a realizzare un’efficiente allocazione delle risorse e una razionale distribuzione del potere. Il fallimento delle politiche di sostegno economico al Mezzogiorno e la deriva inefficiente della pubblica amministrazione hanno convogliato per decenni verso le mafie il consenso reale di segmenti significativi della popolazione e progressivamente delle stesse elite meridionali. In molte regioni del Sud i clan, per effetto della spietata efficienza operativa che li connotava, sono stati in grado di approntare un sistema di regolazione in cui confluivano: le istanze di protezione di un’imprenditoria incapace di reggere la concorrenza dei mercati; le necessità di strati popolari bisognosi di assistenza economica e di mediazione con le classi dirigenti; le ansie del ceto politico di guadagnare consensi elettorali in presenza di una forte frammentazione della rappresentanza partitica (Diego Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino, 1992).
In questa fase intermedia, se vogliamo pre-imperiale, ha agito una vera e propria deregulation mafiosa, protesa all’accaparramento di ogni fonte di ricchezza a discapito di qualunque regola e con il sacrificio quotidiano della legalità. È un compendio troppo eclettico e impreciso, ma comunque introduce un punto della discussione.
All’apogeo del suo ciclo vitale la mafia costituisce a ogni effetto un “sistema totalitario” in un’accezione analoga a quella solitamente adoperata per descrivere il nazismo o lo stalinismo, e come tale agisce da ossessiva custode dello status quo, refrattaria verso ogni innovazione che possa alterare l’assetto sociale («No one bribes where he can bully», scrisse sir Lewis Namier). La pulsione conservatrice costringe le mafie a una continua operazione di contenimento e contrasto dei fattori di modernizzazione della società e le incita contro ogni innovazione capace di squilibrare il controllo, almeno che non riescano a disporne. La cupola di Cosa nostra o i summit della ‘ndrangheta in Aspromonte, analogamente a quanto avviene in altri segmenti politici e economici della società civile, non sono nient’altro che lo strumento necessario al controllo dello status quo, celebrano la forza delle mafie e le rassicurano sulla loro invincibilità.
Le mafie, secondo lo schema classico individuato da Eric Hobsbawn e Terence Ranger, non si limitano a esercitare un grande potere, ma hanno «inventato una tradizione» che le possa in qualche modo giustificare e perpetuare (si pensi ai leggendari Beati Paoli entrati nell’armamentario arcaicizzante della mafia grazie al romanzo pubblicato a puntate da Luigi Natoli su “Il Giornale di Sicilia” dal 1909 al 1910). L’idea che nelle pieghe nascoste e intime della società meridionale alberghi un sentimento mafioso, in bilico tra ribellismo e sopraffazione che la mafia incarna e organizza, è in gran parte il nocciolo duro di questa tradizione, inventata di sana pianta dai clan e modellata su giuramenti, riti, gradi e cerimonie. Il più grande errore che si sia potuto compiere in questo scenario è stato quello di confondere l’apparenza mafiosa con la realtà della mafia, convincersi che la tradizione non fosse astutamente inventata e alimentata, ma affondasse le proprie radici in un “altrove” oscuro e insondabile in cui mafiosi “si nasce” e non si diventa. Così la lotta ai clan improvvisamente perde i suoi connotati tecnici, smarrisce la dimensione, vincente per lo Stato, dello scontro diretto e suggerisce l’idea che la sconfitta della mafia esiga una completa palingenesi sociale, un mutamento profondo delle strutture del potere tout court inteso. La conservazione mafiosa viene confusa con l’ambiguo immobilismo politico del Sud sino al punto in cui la visione dell’una si sovrappone all’altro, costruendo un unico, immaginario, blocco di potere. Questa visione assume i toni di una premessa insormontabile e quindi assoluta in ogni strategia di contrasto alla mafia.
Sarebbe complesso e forse disagevole spiegare l’equilibrio raggiunto, il sottile gioco di specchi in cui l’antimafia più militante e radicale e la mafia si continuano a riflettere. Si disputa una partita che è insieme psicologica, culturale e politica; essa coinvolge il ruolo degli apparati di repressione della mafia, il loro peso istituzionale, la moral suasion che sono in grado di esercitare sui luoghi della politica e della pubblica opinione, i vantaggi professionali e di immagine connessi ad una militanza.
Per intendere fino in fondo come possa realizzarsi il declino dei clan occorre, senza alcuna reticenza, disfarsi dell’alibi di un Mezzogiorno depredato e succube, della visione ideologica secondo cui le popolazioni meridionali vivrebbero in una condizione di democrazia apparente che cela un mondo dominato dalla diarchia cospiratrice di mafia e elite corrotte. Folgorato dai successi della blitzkrieg, la guerra-lampo degli anni ‘70 e ’80, il potere mafioso ha agito come se potesse profittare di risorse umane, morali e economiche pressoché inesauribili. In realtà il disfacimento di parti non secondarie del tessuto sociale, la perdita di ogni coscienza collettiva, corrodeva l’habitat che aveva consentito al fenomeno mafioso di alimentarsi e consolidarsi: l’ecosistema sociale non poteva reggere a lungo la selvaggia razzia posta in essere non più da una esigua porzione di malfattori, ma con il concorso di interi segmenti della popolazione che profittavano del declino della legalità.
Si faccia il caso del traffico di rifiuti o dell’abusivismo edilizio nelle regioni meridionali, con milioni di metri quadrati di case costruite ovunque in spregio a ogni regola urbanistica e di decoro, con l’occupazione di aree pubbliche, di zone verdi o di coste. Popolazione, mafia, politica e imprenditoria hanno stipulato attraverso questo saccheggio, iniziato negli anni ‘70 e proseguito per due decenni a ritmi sostenuti, un mirabile patto sociale e criminale. I ceti più diseredati ponevano rimedio alle proprie elementari necessità abitative; l’imprenditoria legale e quella mafiosa costruivano gli immobili nel silenzio delle amministrazioni pubbliche locali che, a loro volta, dall’inerzia conseguivano un convinto sostegno elettorale. Il controllo mafioso del territorio era lo strumento ideale per consentire che nessuno vedesse e nessuno si adoperasse per arginare lo scempio irrimediabile del meridione. Ancora si potrebbero citare le vicende dell’emergenza-rifiuti in Campania: l’accordo collusivo tra politica e camorra è durato anni con la devastazione di migliaia di ettari di terreno, di fiumi, di colline, sino allo scempio delle strade-immondezzaio. Anche in questo caso è stata determinante la connivenza delle popolazioni locali che traevano vantaggi economici o clientelari dal business ed è durata fino al totale inceppamento del meccanismo e al degrado irreversibile dell’ambiente.
«Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant», ammoniva Tacito. La mafia al pari di ogni struttura imperiale tende a dissipare ingenti risorse economiche, sociali e morali. L’attuazione, e in qualche zona, la liquefazione di ogni percezione del bene comune, la dismissione di ogni intoppo legale e culturale in grado di ostacolare la volontà di dominio delle mafie potevano perpetuarsi a condizione che il ciclo della crescita criminale fosse illimitato. Tuttavia l’originario patrimonio morale e civile delle popolazioni meridionali aveva rappresentato, al pari delle risorse ambientali e finanziarie, un fattore decisivo per l’escalation mafiosa, per il costituirsi di un potere “verticale”.
In terre in cui porzioni significative della popolazione maturano il convincimento di una permanente impunità delle azioni illegali e di una correlativa inefficacia dell’azione dello Stato, i clan agiscono con crescente difficoltà. Non a caso nelle intercettazioni ambientali operate a Palermo nel 2007 i boss si lamentano degli effetti del recente indulto e della recrudescenza della piccola delinquenza di quartiere che mette a repentaglio i loro affari e il loro prestigio. A parlare sono Giuseppe Bisesi e Giuseppe Libreri, un emergente di appena 31 anni e il capo della famiglia mafiosa di Termini Imerese: «Il problema dei ladri c’è stato sempre, non solo qua, in tutte le parti. Ora con quest’indulto che hanno dato... siamo rovinati. A Palermo c’è una situazione: farmacie, supermercati che non dormono tranquilli. Ma che scherziamo! È andata a finire a bordello».
Nel momento in cui il metodo mafioso viene percepito da tutti come un sistema efficace per influire sull’economia, sul lavoro, sull’impresa o sulla politica i detentori del privilegio smarriscono il monopolio della forza e perdono il vantaggio competitivo. Paradossalmente non si può dire che i boss non abbiano percepito i rischi di una diffusa degenerazione del tessuto sociale. Al pari di uomini delle Istituzioni e della Chiesa, di intellettuali sensibili e di imprenditori avveduti, anche questa singolare e perversa categoria di “operatori sociali” ha misurato la difficoltà di agire in una collettività disaggregata e spogliata. Non è un caso che Bernardo Provenzano o Salvatore Lo Piccolo fossero seriamente immersi nella lettura di testi sacri o nella redazione dei decaloghi del “perfetto mafioso”. Essi si muovevano nella convinzione che il sistema criminale potesse reggere a condizione che non ne venisse alterata la natura più profonda di potere “dall’alto”, imperiale appunto.
Il frequente ritrovamento nei covi dei boss, come nelle spoglie abitazioni degli affiliati, di pagine che recano vergate a mano le formule di iniziazione, il perpetuarsi nelle carceri dei riti di attribuzione dei “gradi” tra accoliti sono il segno evidente di una cultura criminale che non vuole recedere e che, anzi, pretende di rappresentare un fattore di coesione “verticale” per vasti strati sociali. è l’immagine di Giuseppe Salvatore Riina, figlio del capo di Cosa nostra, che il 28 febbraio 2008 appena scarcerato ritorna a Corleone e si presenta presso la caserma dei Carabinieri per conoscerne il comandante e per farsi “riconoscere”. L’impero ha i suoi riti e non intende dismetterli per ragioni profonde che intuitivamente ciascuno comprende. La desertificazione morale, economica e ambientale delle enclave mafiose si è quindi compiuta per il concorso di numerosi fattori e ha generato un inquieto crogiolo sociale che ha travolto la credibilità dei ceti dirigenti, ivi inclusa quella dell’establishment delinquenziale. Sotto questo profilo la crisi di fiducia che attanaglia i boss della mafia ha radici comuni a quella insofferenza che ha intaccato l’autorevolezza delle elite di potere del Mezzogiorno. Con la differenza che mentre la politica è in grado, attraverso opzioni di tecnica elettorale o semplificazioni dei procedimenti decisionali, di avviare una fase nuova nell’amministrazione del bene comune, le mafie si trovano del tutto sprovviste di alternative rispetto alle strategie di governance sociale sinora praticate.
In astratto per sottomettere e suscitare terrore potrebbero far ricorso alla violenza in modo massiccio, ad esempio perpetrando altre stragi eclatanti, ma la mafia, al pari dei regimi dell’Est al tramonto, è consapevole di non avere ormai alcuna legittimazione politica per ricorrere alla forza. Così come i VoPos non aprirono il fuoco sui giovani che abbattevano il muro di Berlino, così le rivolte dei commercianti e degli imprenditori di Palermo non subiranno alcuna vendetta o reazione. I gruppi sociali, anche quelli che con la mafia cooperano, troverebbero intollerabile l’uso della violenza indiscriminata e si distanzierebbero ulteriormente dalle organizzazioni. è un vicolo cieco l’ultima chance della mafia condannata, nell’impotenza del proprio arsenale militare, a veder svanire l’imperium conquistato nelle comunità del sud Italia e puntare semmai al centro-nord (v.oltre).
L’alterazione inflitta alla società meridionale ha prodotto un tessuto sociale in bilico tra la metastasi e la rigenerazione. Alcuni fattori incontrollati hanno incrinato e spezzato l’egemonia mafiosa: la dismissione anche nei raggruppamenti sociali più arretrati dei vincoli di cieca sudditanza e omertà ha isolato i boss, oggetto di propalazioni anonime, di invidie sociali, di insofferenza per una ricchezza percepita alla fine come ingiusta; la speranza tra gli imprenditori di una crescita sostenuta da innovazione tecnologica e da qualità della produzione, anziché da scarsi e infetti contributi pubblici; la contrazione drastica dei trasferimenti statali per effetto delle politiche di contenimento del budget; il crollo di credibilità del feudalesimo politico hanno indotto le classi sociali che avevano partecipato al patto di rappresentanza in favore della mafia a ritenere che il congegno sia divenuto inefficiente e costoso.
La funzione regolatrice dei clan viene percepita come una disfunzione. Una congerie di regole divenuta incapace di riallocare le risorse e di costruire mediazioni efficaci nella competizione sociale e economica e idonea soltanto a incrementare il potere e la ricchezza dei boss e dei loro cortigiani. Naturalmente come tutte le organizzazioni complesse, anche quella mafiosa non rinuncia a attuare politiche volte a contrastare il declino che percepisce. L’affidarsi a un soft power con la contrazione della violenza esercitata e, ad esempio, con il contenimento del racket estorsivo, segnala un atteggiamento cedevole, incline a accettare un ruolo d’influenza in luogo dell’egemonia finora esercitata. Una lobby pericolosa e sanguinaria, ma che teme di finire relegata in un ruolo marginale entro una società che non le riconosce prestigio decisionale e non intravede progetti da condividere.
Non persuade, così, l’idea di una «mafia invisibile» incline a ricorrere, in questa fase storica, a una strategia di mimetizzazione e inabissamento. Questa opzione contraddice l’evidenza normativa e sociale della mafia che, per esistere come potere, necessita di una continua visibilità e riconoscibilità.
È lo stesso articolo 416-bis che, evocando il canone dell’omertà e dell’assoggettamento, impedisce di ritenere l’arretramento della visibilità sociale della mafia come una libera opzione dei clan. I latitanti hanno dismesso da oltre un decennio di aggirarsi tranquilli per le città e le contrade. La sequela fotografica degli arresti, dei covi mostra situazioni logore, ai limiti dello sfascio, prive di dignità, anfratti, bunker interrati, tombini, vecchi casolari, intercapedini con una brandina e qualche cibo. Cosa ha da spartire tutto ciò con la dimensione imperiale, con l’immagine tronfia di Totò Riina che nel 1993 passeggiava in macchina per le strade di Palermo?
In modo forse paradossale la storia criminale delle organizzazioni malavitose, e prima tra esse la mafia siciliana e la camorra napoletana, rischia di subire una brusca svolta per il dissolversi o il rarefarsi di un’etica repubblicana che ad esse si contrapponga in modo irriducibile. Il discorso, vedremo, flette inevitabilmente in direzione del progressivo espandersi delle infiltrazioni mafiose nel centro-nord del Paese, ove «perdite diffuse del senso del limite e della responsabilità» (Giorgio Napolitano) rischiano di rigenerare le condizioni ideali entro cui le organizzazioni criminali prediligono operare ed espandersi.
Ma si annotava che la mafia per sorgere, e soprattutto perpetuarsi, esige in radice un atteggiamento duale verso lo Stato e le sue Istituzioni che non rinviene eguali in altri fenomeni criminali: se il brigantaggio e il terrorismo, crimini pur importanti nel secolo e mezzo di vita nazionale, esprimono una radicale e spesso irriducibile contrapposizione con le leggi dello Stato e il modo stesso in cui è organizzata la convivenza civile, le mafie hanno una diversa pretesa: quella di contaminare la vita sociale senza estinguerla, di piegare la collettività ai propri voleri senza alcuna intenzione di distruggerla. In questa dualità, perseguita e custodita con pervicacia dalle organizzazioni mafiose, v’è forse la ragione di una difficoltà ad estirpare un fenomeno che se fosse meramente criminale non avrebbe potuto sopravvivere alla moltitudine degli eventi, anche drammatici, che hanno segnato la vita della Nazione in oltre un secolo di storia unitaria. è un Giano bifronte il tempio delle mafie, capace di soggiacere senza estinguersi alla repressione feroce del prefetto Mori e all’assedio di Gangi iniziato con clamore il 1 gennaio 1926 e determinata alla vendetta sino alle stragi del 1992-1993.
Nessun sistema sociale avrebbe potuto tollerare una violenza incontrollata, diffusa, praticata incessantemente sulla popolazione; se questo fosse accaduto, se veramente le mafie avessero conteso allo Stato il solo «monopolio della violenza» allora la questione sarebbe stata definitivamente risolta dal totalitarismo fascista e dalla mistica del potere dittatoriale che non tollera eccezioni. Ma anche la Repubblica democratica non avrebbe potuto in alcun modo accettare la presenza di organizzazioni che ne ponessero radicalmente in discussione la potestà coercitiva (e la storia delle Brigate Rosse lo dimostra). La flessibilità delle mafie è l’unico accorgimento che connota in modo indefettibile il modo d’agire delle organizzazioni; la capacità di adattarsi rapidamente alle reazioni dello Stato e, finanche, a quelle della società civile (ad esempio le temute associazioni antiracket) è il rimedio con cui le cosche rispondono agli inevitabili mutamenti di scenario e al solo fine della propria sopravvivenza.
Occorre segnalare che la stessa legge penale non prende sufficientemente in considerazione questo peculiare “statuto” delle mafie, avendo preferito marcare piuttosto la contesa che le organizzazioni muovono allo Stato sul piano del sopra menzionato “monopolio della violenza”. Vi sono, in questa visione, influssi ideologici, politici e culturali («la mafia come antistato») che affondano le proprie radici in una lettura incompleta del modo di atteggiarsi delle cosche rispetto alla società e alle sue istituzioni. Probabilmente molto ha influito sulla scrittura, in primo luogo, dell’articolo 416-bis C.p., ma più generale dell’intera legislazione antimafia dal 1982 in poi, la concomitante stagione terroristica e, dopo, l’impronta stragista del 1992-1993. Tuttavia è certo che l’articolo 416-bis C.p. privilegia il versante “militare”, antistatuale delle cosche («l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti …») e trascura l’uso modulare della violenza, con un’attenzione eccessiva alla dimensione organizzativa del fenomeno. è questo, probabilmente, un punto di vulnerabilità della legislazione e delle conseguenti prassi preventive (si pensi alla certificazione antimafia) e repressive (si discute molto di voto di scambio e di concorso esterno nelle aule parlamentari).
Così l’impianto sembra non del tutto idoneo a fronteggiare la soft war inaugurata da Cosa nostra siciliana circa vent’anni or sono. La ridondanza mediatica (forse eccessiva) sui temi d’indagine della trattativa, del papello, dei mandanti occulti e via seguitando, seppur proporzionata alla rilevanza e delicatezza delle investigazioni, rischia di generare una non corretta focalizzazione dello stato attuale degli apparati mafiosi nel Paese e delle strategie più congrue al risultato da perseguire, ovvero la sconfitta dei clan. La distorsione visiva, ossia la costante proposizione in termini di attualità processuale e mediatica di vicende storiche collocabili un ventennio prima, potrebbe compromettere la lucidità d’analisi che l’attuale fase operativa delle cosche esige e proporre soluzioni inadeguate allo sforzo richiesto. Per essere chiari il tema della punizione dell’autoriciclaggio, del potenziamento delle strutture dedite all’utilizzo del sistema bancario e finanziario da parte delle cosche, della stretta connessione tra contrasto all’evasione/elusione fiscale ed individuazione dei patrimoni illegali, del rafforzamento della legislazione anticorruzione rischia di risultare marginale nel dibattito ideologico circa gli obiettivi delle mafie.
Con grande efficacia Salvatore Lupo ha definito la mafia come una patologia del potere e della modernità (Potere criminale. Intervista sulla storia della mafia, a cura di Gaetano Savatteri, Roma-Bari, 2010). L’endiade meriterebbe di essere scomposta e analiticamente ponderata. Se sul versante della «patologia del potere» si può registrare una pressoché unanime valutazione di storici, analisti, politici, sociologi; più controversa appare la condivisione di una visione della mafia come «patologia della modernità». Sono ancora recenti i tentativi di accreditare l’aspetto folcloristico e rituale di talune organizzazioni con significati e rilievi che eccedono il concreto modus agendi delle famiglie mafiose; se si collocassero veramente fuori dalla modernità, in un territorio quasi arcaico, le cosche sarebbero destinate a soccombere e rischierebbero di smarrire il vantaggio che loro ancora deriva dall’uso (minacciato o praticato) della violenza.
Si tratta di un profilo distintivo che connota non solo le mafie, ma più genericamente tutte le organizzazioni criminali votate, oltre che alla naturale realizzazione di azioni delittuose, alla costruzione di progetti sociali più complessi attraverso l’influenza, l’ingerenza, l’interferenza, l’egemonia. In questo senso appaiono illuminanti le considerazioni svolte da Gray con riferimento ad una delle più temibili organizzazioni postmoderne: «…. è organizzata sul modello di una famiglia estesa. Facendo leva sui legami di fiducia che tengono insieme le famiglie, può fare un uso considerevole di sistemi bancari che hanno un raggio d’azione globale … La sua struttura chiusa rende estremamente difficile penetrarla … I valori “pre-moderni” le permettono di operare in maniera molto efficiente in una condizione di globalizzazione. Perciò essi non sono affatto pre-moderni» (John Gray, Al Qaeda e il significato della modernità, Roma, 2004). Nel medesimo contesto è ancora più significativo un altro passo del celebre professore della London School of Economics: «nessun cliché è più stupefacente di quello che descrive Al Qaeda come un regresso al Medioevo. Essa è un effetto collaterale della globalizzazione. Come i cartelli della droga planetari e le società di affari virtuali che si sono sviluppate negli anni Novanta, Al Qaeda si è evoluta in un periodo in cui la deregolamentazione finanziaria ha creato grandi patrimoni all’estero e il crimine organizzato è diventato globale» (ibidem). La negromanzia ‘ndranghetistica dei summit di Polsi o della riunione di Paderno Dugnano non deve indurre ad individuare in questi profili rituali null’altro che cerimonie volte al rafforzamento e alla conservazione dell’identità criminale dell’associazione, senza alcuna refluenza sul piano delle dinamiche criminali o della sola spartizione dei profitti illeciti.
Nel celeberrimo passo di Walter Benjamin si legge: «C’è un quadro di Klee che s’intitola ‘Angelus Novus’. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta» (Tesi di filosofia della storia (1940), in Angelus novus. Saggi e frammenti, Torino, 1962).
è uno snodo importante della riflessione che la teoria della mafia come «patologia della modernità» impone all’operatore. Essere nella modernità comporta anche scontarne gli effetti e le conseguenze; abbandonare la comoda posizione di demiurgo sociale ed esporsi ai danni collaterali del progresso. In questo senso ogni “uomo di rispetto” è proteso alla ricerca di un precario equilibrio tra l’esercizio arcaico, brutale e sempre meno tollerato della violenza (la strage di Casal di Principe o quella di Duisburg, le stragi del 1992-1993) e la necessità di percepire con precisione il sentiero lungo il quale la società, nel suo variegato complesso, procede e si organizza. è un compito straordinariamente complesso che mette in gioco la stessa sopravvivenza delle organizzazioni mafiose, nate in contesti economici arretrati e abituate per decenni a circuiti di mera depredazione delle altrui risorse (racket, guardianie, subappalti ecc.).
Per operare in modo competitivo in questo contesto le organizzazioni sviluppano una domanda crescente di competenze e risorse umane. Hanno bisogno di soggetti, ad essi inizialmente estranei, che siano disponibili a contribuire alle attività di riciclaggio, all’occupazione della politica, alla connivenza nelle Istituzioni, allo sviluppo delle pratiche di influenza mediatica. Si suole definire quest’area di libero scambio e cooperazione «zona grigia» o «borghesia mafiosa», con una locuzione di criminologia molto in voga, ma provvista di una certa indeterminatezza e imprecisione.
L’endiade «zona grigia», com’è noto, è stata coniata da Primo Levi in un capitolo di I sommersi e i salvati. Lo scrittore torinese intendeva puntare lo sguardo non solo sulla tragedia dei lager, ma anche su tutte quelle situazioni e quei luoghi in cui la convivenza di centinaia o migliaia di persone, dalle caserme agli uffici, dagli ospedali alle fabbriche, produce quella dialettica di potere tra un vertice che comanda e una base che obbedisce. In mezzo c’è appunto la «zona grigia», quella di coloro che in vario modo e a vario titolo e responsabilità collaborano al funzionamento della macchina di potere. In questo senso il termine descrive in modo improprio la situazione dei ceti di mezzo che scelgono di interloquire con le organizzazioni in una posizione spesso paritaria, se non addirittura asimmetrica a loro vantaggio (AA.VV, La mafia del salotto buono, gli intellettuali, la questione morale, in Segno, 2005). In realtà in questi casi sono soggetti spesso egualmente operanti in «zone nere» a entrare in contatto con i boss, a realizzare questa area di scambio illegale; è il caso della corruzione politico-amministrativa, dell’evasione fiscale, dell’accaparramento illegale dei fondi pubblici, della manodopera abusiva, dell’inquinamento industriale e via seguitando (si veda Rocco Sciarrone, Il potere delle reti mafiose, in AA.VV., Mafia e potere, Torino, 2006).
I connotati, sopra descritti, dell’articolo 416-bis C.p. manifestano un coefficiente di rigidità, rispetto a queste nuove condotte negoziali, che non incoraggia la repressione penale e rende difficoltoso l’accertamento delle responsabilità. Il ricorso a questo strumento sanzionatorio, con la clausola vicaria del concorso esterno realizza un’impostazione che, a lungo andare e in corrispondenza dell’evolversi dei fenomeni criminali, produce fibrillazioni nell’ordinamento giuridico e obbliga la giurisprudenza ad approntare rimedi perimetrali per sanzionare condotte di singoli soggetti la cui valenza “strutturale” appare attenuata. Il pantheon delle sentenze che inquadrano i contorni mobili e imprecisi del concorso esterno in associazione mafiosa è, in fondo, l’inevitabile corollario di un approccio sanzionatorio fortemente orientato sul modulo organizzativo dell’articolo 416-bis C.p. e poco adatto a reprimere i comportamenti individuali capaci di accrescere il potere delle mafie.
è questo un dato di cui occorre tener conto ogniqualvolta si dipanino discussioni sul modo attraverso cui sia possibile pervenire nel prossimo decennio alla sconfitta dei clan nel nostro Paese. Per farlo occorre, dispiace sottolinearlo, uno sguardo lucido e non enfatico sulla sostanza delle questioni che riguardano il rapporto mafia-società. Talune affermazioni e pubbliche denunce scontato il prezzo di una grave asincronia con le concrete e attuali dinamiche evolutive del mondo criminale di stampo mafioso. Così, quando si pone l’accento in modo insistente su pretese “zone grigie” o sulle cc.dd. infiltrazioni al Nord si deve francamente riconoscere un ritardo di almeno due decenni nella proposizione delle questioni le cui matrici si ricollegano a tappe della fenomenologia mafiosa ormai trascorse. E il dato però ancor più discutibile se proviene da settori che avevano il compito specifico di attaccare i nuovi spazi occupati dalla mafie dall’inizio degli anni ‘90 e, invece, si sono scrupolosamente dedicati ad altro. C’è insomma nelle modalità clamorose in cui oggi talune di queste minacce viene evidenziata una sorta di latente cattiva coscienza di alcuni segmenti degli apparati investigativi che con ritardo si sono accostati al tema, ad esempio, delle collusioni perimetrali delle mafie e con impostazioni e tecniche giudiziarie non del tutto adeguate. Tra queste, il concorso esterno appare quella più d’ogni altra messa alla corda da un orientamento sempre più restrittivo della Corte di cassazione (la famosa sentenza Mannino delle sezioni unite) e dalla difficoltà di leggere in modo dinamico il concreto atteggiarsi della società.
Per molti decenni è prevalsa, infatti, una visione puramente antagonista dei fenomeni mafiosi (il celebre brocardo, legittimato dalla teoria degli ordinamenti di Romano, secondo cui “la mafia è uno stato dentro lo Stato”), come si diceva fortemente condizionata dal modello “militare” recepito dall’articolo 416-bis C.p. e sicuramente capace di focalizzare la stagione del contrasto violento tra mafia e Stato in Sicilia e, tuttavia, inidonea a raffigurare l’evolversi delle associazioni in altre parti della medesima regione (si pensi a Catania o a Messina), per non parlare del resto del Paese (Calabria, Puglia, Campania e via via verso il nord). Per gli epigoni di quell’impostazione è consequenziale, ad esempio, descrivere la situazione attuale delle regioni settentrionali come una fase di conquista; quasi che l’Armada mafiosa si fosse mossa all’unisono per convergere verso quelle ricche terre; ovvero immaginare l’area della contiguità come una sorta di “quinta colonna” disponibile a soccorre il vincitore ed a espugnare «da dentro le mura» l’immacolato candore di popolazioni sottratte al giogo mafioso. Può darsi che le cose stiano, drammaticamente, in modo affatto diverso e che l’azione delle cosche in regioni a bassa densità mafiosa venga favorita da vizi ormai congeniti di quelle strutture sociali, economiche e politiche, piuttosto che da sofisticate strategie di occupazione. L’affarismo di Tangentopoli aveva già mostrato i segnali di cedimento etico e legale all’interno di un mondo in cui, tuttavia, non si è mai registrata (in quella storica inchiesta) alcuna significativa presenza mafiosa come inclusa nelle dinamiche della politica o dell’economia di quelle regioni.
Il punto è che quella situazione sembra oggi riproporsi con urgenza, sia pure a macchia di leopardo, con una ripresa imponente delle pratiche corruttive e collusive nella politica e nella pubblica amministrazione (si veda la relazione del procuratore generale presso la Corte dei conti del 22 febbraio 2011) e con la pericolosa percezione da parte degli uomini dei clan di muoversi in ambiti di ampia e cedevole negozialità. A questo punto il ragionamento necessita di alcune sintetiche premesse.
Innanzitutto si deve constatare che i clan, in tutte le regioni del Mezzogiorno a tradizionale presenza mafiosa, hanno praticato strategie di interlocuzione con la politica e le istituzioni particolarmente complesse e flessibili. Le prassi omicidiarie (Reina, Mattarella, La Torre, Lima, Ligato, Fortugno e via seguitando) hanno certo pesantemente connotato la mattanza siciliana (sino alla stragismo), e solo episodicamente l’azione della camorra e della ‘ndrangheta, ma esse rappresentano anche uno degli snodi di maggior difficoltà nella necessità avvertita dai clan di instaurare un dialogo con la politica. Laddove il termine “dialogo” non intende connotare negativamente l’azione della politica, ma descrivere l’intrinseca difficoltà per i boss di intendere “i linguaggi” e “le regole” dell’agire politico. L’apprendistato mafioso nel settore vitale dell’influenza, ingerenza, interferenza, egemonia sulla politica potrebbe essere misurato con l’alternarsi di soft war e hard war, ossia con l’instaurarsi di conflitti a bassa (danneggiamenti, intimidazioni, avvertimenti) ed ad alta intensità (omicidi, gambizzazioni) sino a quando, almeno in parte, la situazione è giunta ad una sorta di meno precario equilibrio. Sino al punto in cui mafia e politica apprendono l’arte di negoziare significati condivisi. Anche in questo caso l’equilibrio non può essere portato a regola generale delle relazioni mafia-politica nel nostro Paese, poiché in effetti l’assetto di tale laison si connota di molteplici specificità e si manifesta in modo sensibilmente diverso non solo nelle diverse regioni, ma finanche nell’ambito delle stesse circoscrizioni mafiose, ossia nelle aree di influenza dei clan.
E siamo alla seconda premessa. Nella Sicilia occidentale l’evoluzione del fenomeno ha mostrato in modo più evidente, stante la distanza profonda che separa la storia criminale della mafia rispetto a quella di ‘ndrangheta e camorra (si veda sempre Salvatore Lupo Potere criminale citato), l’articolarsi di un sistema di relazioni tendenzialmente volto a conseguire una pesante influenza/ingerenza sulle decisioni politiche, attraverso la costruzione di interlocuzioni prima nazionali e, quindi, solo regionali (non sempre sorrette dal necessario vaglio giurisdizionale, ma storicamente acclarate). Ma già per la Sicilia orientale la questione non può essere raffigurata in modo analogo. La stessa Cosa nostra catanese appare connotata da relationship politiche piuttosto arcaiche rispetto alla consorella palermitano; sostanzialmente poggiate sul voto di scambio e su un sistema mercantile di relazioni con il ceto politico regionale.
Qualcosa di simile accade per le aeree criminali più stabili della provincia napoletana e casertana, con esclusione della disordinata entropia del comprensorio urbano del capoluogo campano. In Calabria il dato è ancora più arretrato. La forte frammentazione del sistema criminale e la presenza pulviscolare delle cosche sul territorio rende il comparto politico della ‘ndrangheta fortemente instabile e connotato da relazioni instabili e mobili con gli interlocutori politici che si contendono, qualche volta, il pacchetto di voti a disposizione dei clan.
Occorre, tuttavia, precisare che le ultime investigazioni segnalano un evidente cedimento del controllo mafioso sul consenso elettorale; grandi boss riescono a manovrare una manciata di preferenze a dimostrazione di una sostanziale perdita di adesione sui meccanismi clientelari e sulle dinamiche di scambio che regolano nel Mezzogiorno la domanda politica.
Il dato, tuttavia, se per un verso potrebbe apparire confortante (il potente clan dei Pelle di San Luca, ad esempio, nelle ultime consultazioni regionali non è stato in condizione di determinare le sorti politiche di alcuno dei candidati per i quali aveva deciso di votare e in alcuni casi l’esito è stato addirittura imbarazzante), per altro segnala una pericolosa svolta nel partenariato mafia-politica, ossia la possibilità che la merce di scambio appetita da alcuni settori politici sia proprio la violenza mafiosa e la possibilità di un suo esercizio incondizionato. In questo caso l’orologio delle relazioni piuttosto che tornare indietro, mostrerebbe un pericoloso balzo in avanti poiché confermerebbe la definitiva e non episodica (come pure è avvenuto) posizione dei clan calabresi come struttura di servizio specializzata nell’uso della violenza e una linea evolutiva della ‘ndrangheta in questo scorcio di terzo millennio affatto diversa da quella di Cosa nostra siciliana. In cui cioè la pretesa egemonica segna il passo in favore di una coesione d’interessi volta a dare ingresso alla violenza organizzata come fattore di regolazione della vita sociale. è a tutta evidenza un progetto in itinere, di cui si intravedono segnali e anticipazioni, ma che potrebbe subire una brusca accelerazione per effetto di una costruzione fortemente federalista delle Istituzioni repubblicane non accompagnata da una vigile opera di riassetto dell’azione di contrasto (v. oltre).
Non è questa la sede, ovviamente, per affrontare questioni così controverse e sulle quali la stessa storia d’Italia sì è lungamente spesa. Tuttavia sia consentito ricorrere a riflessioni che, pur minoritarie nel dibattito fin troppo enfatico e mitologico attualmente in corso sul potere mafioso, hanno il pregio di un’indiscutibile autorevolezza: «Giovanni Falcone nella conversazione con Marcelle Padovani raccolta nel libro Cose di Cosa nostra, analizzando il fenomeno mafioso, usò parole pesanti per coloro che non conoscendo cosa fosse veramente Cosa nostra la classificarono come una struttura di servizio del cosiddetto “terzo livello”.
Ecco il testo in cui riassume il suo pensiero: “I crimini eccellenti, su cui finora non si è riusciti a fare luce, hanno alimentato l’idea del ‘terzo livello’, intendendo con ciò che al di sopra di Cosa nostra esisterebbe una rete, ove si anniderebbero i veri responsabili degli omicidi, una sorta di supercomitato, costituito da uomini politici, da massoni, da banchieri, da alti burocrati dello stato, da capitani di industria, che impartiscono ordini alla cupola”. E aggiunge: “Questa suggestiva ipotesi che vede una struttura come Cosa nostra agli ordini di un centro direzionale sottratto al suo controllo è del tutto irreale e rivela una profonda ignoranza dei rapporti tra mafia e politica”. In verità, ad alimentare questa visione delle “cose di Cosa nostra” non sono stati solo noti “mafiologhi” ma anche i comportamenti di alcuni magistrati che compiacenti mezzi di comunicazione hanno indicato come intransigenti persecutori del “terzo livello”. Lo stesso Falcone avverte come “attraverso un percorso misterioso, non so per quale rozzezza intellettuale, il nostro ‘terzo livello’ è diventato il ‘grande vecchio’, il ‘burattinaio’ che dall’alto della sfera politica, tira i fili della mafia”… Le cose invece sono molto più semplici e più complesse al tempo stesso.Le parole di Falcone a Marcelle Padovani sono del 1991 … Sono oggi trascorsi sedici anni da quando Falcone rilasciò quell’intervista a Marcelle Padovani. Anni carichi di avvenimenti di cui lo stesso Falcone fu protagonista sino al giorno della strage di Capaci e di via D’Amelio, che segnarono certamente una svolta non solo nella storia di Cosa nostra, ma nel rapporto tra mafia e politica, tra mafia e Stato» (così Emanuele Macaluso, prefazione a Pietro Grasso e Francesco La Licata, Pizzini, veleni e cicoria. La mafia prima e dopo Provenzano, Milano, 2007). L’esemplare chiarezza di queste riflessioni, la loro intrinseca e perseguita opinabilità, offre un criterio per interpretare il modo differenziato attraverso cui ciascuna organizzazione criminale persegue la ricerca di un rapporto con la politica e le istituzioni. Occorre adattarsi a questa lettura plurale e non ideologica delle relazioni illegali dei clan con le classi dirigenti e cercare ogni volta di ricostruire in concreto l’oggetto, la natura e la prospettiva di questo legami.
Il ricorso a schemi espositivi rigidi e a slogan destinati alla mera comunicazione mediatica rischia di compromettere i risultati dell’analisi e, circostanza più grave, compromettere le chance di successo nella lotta ai clan. Il gran successo di formule come «terzo livello» o «zona grigia» non può soddisfare l’esigenza insopprimibile di parcellizzare e smembrare le tecniche di contrasto, adattandole ai connotati meticci che ogni organizzazione manifesta non solo nel genotipo di appartenenza (mafia, ‘ndrangheta, camorra), ma nello stesso contesto territoriale d’azione. Assimilare l’agire dei clan della Piana di Gioia Tauro o di Reggio Calabria, a quello delle organizzazioni dei narcos di Platì o San Luca può soddisfare momentanee istanze di marketing mediatico, ma lascia aperta la strada a pericolose generalizzazioni, sostanzialmente incapaci di un successo duraturo. Tutti i concetti porosi («borghesia mafiosa») hanno il vantaggio di consentire sottili sfumature e imprimere significativi semitoni, ma costituiscono materiale facilmente deperibile nelle aule di giustizia.
La terza proposizione ci introduce, per così dire, nel territorio instabile ove si dovrebbero con una certa attenzione scrutinare i risultati dell’azione di contrasto e verificare in concreto la possibilità che le organizzazioni mafiose siano sconfitte solo per via giudiziaria. L’osservazione non intende porre in modo banale il problema, ovvio e costantemente riproposto, della necessaria coesione sociale che deve assecondare l’opera investigativa e repressiva dello Stato, quanto piuttosto porre l’accento sulla necessità che non si può pensare di risolvere il problema mafia con un’applicazione più evoluta dei bersaglieri e della cavalleria di cui v’è traccia nella relazione della commissione d’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1875/1876, quasi si trattasse solo di mettere a disposizione uomini e mezzi.
è in discussione, piuttosto, l’esigenza di organizzare i fattori sociali, economici e politici in modo tale da orientarli verso il definitivo isolamento del modello di regolazione sociale proposto dai clan. Occorre, altrimenti detto, proporre un assetto in cui la domanda di violenza che la mafia intende soddisfare sia progressivamente contenuta, il chè comporta taluni inevitabili aggiustamenti nel modo in cui formazioni sociali e centri di potere perseguono l’intento, in sé lecito, di esercitare una forte influenza politica, economica o anche solo culturale nel Paese. Occorrerà pur domandarsi circa le ragioni che hanno comportato l’inidoneità di epocali riforme politiche e istituzionali poste in essere nella storia d’Italia ad incidere sulla fenomenologia mafiosa, sopravvissuta alla monarchia, al fascismo, alla repubblica, al regionalismo, al decentramento, all’Unione Europea e via seguitando.
Il policentrismo autarchico delle mafie costituisce uno straordinario modello di resistenza alle innovazioni sociali che trova la sua ragion d’essere nella loro latente capacità di soddisfare la richiesta di violenza insita nei processi decisionali e nelle svolte decisionali.
è un azzardo, ma forse l’attenuazione in Italia - per ragioni storiche cui non sono estranei la radicata presenza della Chiesa e il brusco processo di riunificazione risorgimentale di realtà fortemente disomogenee - delle regole di duro determinismo sociale ed economico che sono impliciti nel modello capitalistico evoluto ha comportato che alla tenue “violenza legale” dei processi di inclusione e esclusione dal circuito decisionale e del profitto (procedure elettorali fortemente selettive, brusco e ciclico ricambio dei ceti dirigenti, carenza di tutela per i nuovi emarginati ecc.), si sia sostituita una “violenza illegale” in cui taluni di quei risultati vengono raggiunti ricorrendo all’azione delle cosche. Alle inevitabili inefficienze selettive del consociativismo, dell’economia assistita e del solidarismo fondato sulla spesa pubblica illimitata, l’istanza irruenta della modernità ha risposto in zone diffuse del Sud facendo ricorso alla forza brutale della mafia, con la sua capacità di imprimere brusche accelerazioni politiche o di arginare tentativi coraggiosi di cambiamento.
I competitor sociali si sono trovati avviluppati nel Mezzogiorno in un intreccio di spinte e di coazioni in cui la violenza mafiosa ha finito per assumere, pur sempre con differenti gradienti di incisività, un ruolo rilevante e in qualche caso decisivo, accreditandosi, appunto, come regolatrice di volta in volta della modernità o della conservazione. Ed è la consapevole accettazione di questa violenza, con ogni probabilità, una delle responsabilità storiche del Mezzogiorno di cui ha detto con chiarezza il Presidente della Repubblica nel menzionato discorso al Parlamento sul punto della “questione meridionale”: «Proprio guardando a questa cruciale questione, vale il richiamo a fare del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia l’occasione per una profonda riflessione critica, per quello che ho chiamato “un esame di coscienza collettivo”.
Un esame cui in nessuna parte del Paese ci si può sottrarre, e a cui è essenziale il contributo di una severa riflessione sui propri comportamenti da parte delle classi dirigenti e dei cittadini dello stesso Mezzogiorno.
è da riferire per molti aspetti e in non lieve misura al Mezzogiorno, ma va vista nella sua complessiva caratterizzazione e valenza nazionale, la questione sociale, delle disuguaglianze, delle ingiustizie - delle pesanti penalizzazioni per una parte della società - quale oggi si presenta in Italia».
Si è perfettamente consapevoli che le considerazioni sopra esposte possono, al più, suscitare qualche reazione, ma non offrire alcuna risposta soddisfacente alle ragioni storiche che fanno delle mafie, a ben guardare, una delle pochissime formazioni sociali sopravvissute in Italia al “crollo del muro di Berlino” ed alle conseguenti variazioni geopolitiche. Tuttavia il problema tende a proporsi con urgenza nel momento in cui la storia del Paese, almeno negli ultimi due decenni, tende a conferire al territorio e all’identità territoriale connotati di assoluta rilevanza.
Scriveva Ilvo Diamanti oltre dieci anni or sono «la frattura fra Nord e Sud si è rovesciata. Fino ad allora la questione nazionale era la questione meridionale, nel senso che in tale area trovava fondamento l’equazione “basso sviluppo = bassa identità nazionale”, a partire dagli anni’80 e fino ai ‘90 (ma oggi ancor di più n.d.r.) la questione nazionale è diventata quella settentrionale, con un rovesciamento dei termini del problema perché oramai il disamore nei confronti dell’Italia è maggiore dove è maggiore lo sviluppo, non dove è minore lo sviluppo. Per una qualche strana ragione, le regioni sono diventate più evidenti, il territorio, tenuto a bada per anni, è scappato dalle mani ed è diventato una bandiera di disunità; se prima le problematiche territoriali erano state dissimulate, per paura che generassero contraddizioni, adesso vengono usate proprio per generare contraddizioni. In ogni caso dietro ai due atteggiamenti di chi, da una parte, nascondeva le differenze territoriali e di chi, dall’altra, tende oggi ad esaltarle, c’è una comune convinzione, un comune giudizio, ovvero che il territorio è un elemento di divisione, di frattura e di contraddizione per l’Italia» (Intelligence e analisi strategica, con interventi di Ilvo Diamanti, Efisio Espa, Giuseppe Roma, in Per aspera ad veritatem, n. 14, 1999).
Allora non deve sembrare casuale che il problema della presenza delle organizzazioni mafiose nel centro-nord del Paese abbia assunto connotati di grande rilevanza e, in qualche caso, di animata dialettica politica. È evidente che molteplici ragioni spingono i clan a flettere la loro operatività verso quelle zone: l’esigenza di inseguire le risorse pubbliche e private che in modo massiccio abbandonano le aree meridionali, in apparenza condannate alla marcata marginalità economica nei processi di allocazione governati da una politica sempre più attenta alle istanze territoriali; l’urgenza di allocare i profitti dei traffici illeciti (in primo luogo gli stupefacenti) in contesti in cui l’attività di riciclaggio o anche di sola mimetizzazione può più facilmente sottrarsi al controllo investigativo (l’ipermercato di Trapani o di Siderno e quello di Bergamo o Rovigo presentano un indiscutibile tasso differenziale di rischio); l’insopprimibile necessità di assecondare i processi sociali e politici del Paese per non smarrire la propria ambizione a svolgere una funzione di rilievo nei meccanismi decisionali.
Sono queste solo alcune delle motivazioni che spingono i clan a superare la fase dell’infiltrazione e del radicamento al centro-nord (sviluppatasi negli anni del soggiorno obbligato sino alla fine degli anni ‘80 e dello smercio dell’eroina e della cocaina in quelle piazze), per affrontare il tema più delicato e complesso dell’egemonia. è questa una fase ancora embrionale e l’allarmismo sparso a piene mani non deve indurre ad errori di analisi. Certo l’indagine “Infinito” (luglio 2010) o l’indagine “Redux-Caposaldo”(marzo 2011) della procura di Milano mostrano le tracce di uno sviluppo ulteriore, di una metastasi in corso in ambiti e settori (l’edilizia pubblica e privata, la sanità) in cui la presenza criminale, in questo caso della ‘ndrangheta, è andata avanti per quasi un decennio senza contraccolpi significativi. Gli uomini dei clan sembrano aver attivato le cellule silenti che da molti anni si erano implementate in quel territorio destinandole ad una nuova vocazione: l’occupazione degli spazi della politica e dell’economia legale connessa alle pratiche della mala amministrazione. I segnali di un cambio di strategia, o forse del mero tentativo di trasporre il modello meridionale, non devono indurre a sottovalutare la criticità della scelta operata. I clan sono in mezzo al guado, in un’incerta terra di mezzo in cui hanno, per un verso, abbandonato le familiari enclave delle regioni meridionali e, peraltro, non ancora conseguito quel coefficiente di penetrazione sociale e istituzionale che la loro opera criminale esige in modo indefettibile. Non è un problema di numeri (10, 100 o 1000 affiliati), ma una questione di controllo del contesto in cui si agisce e questo, per fortuna, tarda ad arrivare.
La costruzione di rimedi giuridici e di argini sociali alla deep strategy mafiosa esige, quindi, un altrettanto radicale mutamento della prospettiva di contrasto. Si dovrebbe più duramente ingaggiare l’avversario non solo nei luoghi tradizionali della sua azione (le regioni del Sud), ove è già forte la presenza delle strutture investigative dedite per oltre un decennio alla cattura delle decine di boss latitanti (restano solo i noti Messina Denaro e Zagaria, mentre in Calabria l’azzeramento è stato pressoché totale), ma proprio laddove le sue ambizioni lo stanno conducendo. Le economie, le articolazioni amministrative, le imprese del centro-nord hanno tratti difformi da quelle del Mezzogiorno; se la corruzione e la spartizione lottizzatrice sono presenti anche in quel tessuto, difetta per fortuna un contesto sociale diffusamente tollerante o complice dell’illegalità. In questi casi l’irrigidimento della legislazione anticorruzione, la più serrata lotta all’evasione e all’elusione fiscale, un’attenta revisione delle regole di accesso e di governo dei partiti politici potrebbe portare nell’immediato ad isolare gli uomini dei clan.
La vera legislazione d’emergenza sarebbe quella che, in questo momento, accompagnasse l’intervento negli ambiti tradizionali dell’intervento antimafia (carcere duro, confische, inasprimento delle pene, ect.) con una più incisiva azione sul versante della legalità dell’economia e della pubblica amministrazione.
Viene qui in considerazione il decennio prossimo venturo e la transizione definitiva da compiersi dal regionalismo accentuato degli anni dal 1970 in poi al vero e proprio federalismo. In mezzo v’è la necessità di evitare che il centro-nord veda ulteriormente eroso il coefficiente di etica pubblica che ne marca la differenza rispetto alle spinte degeneratrici e centrifughe della storia della società meridionale.
Nessuno può pensare o accettare che i processi economici e sociali del Paese possano subire il condizionamento delle mafie. Così, ad esempio, si può essere favorevoli o contrari al ponte sullo Stretto, ma è inaccettabile che la scelta sia fatta agitando lo spettro dell’occupazione mafiosa dei cantieri. È ovvio che spetta allo Stato assicurare la legalità degli appalti e la trasparenza democratica delle decisioni impedendo che il fardello delle cosche possa condizionare scelte così importanti.
è giusto ritenere che il federalismo sia un’opzione irrinunciabile per il Paese, addirittura indispensabile per la riorganizzazione della responsabilità politica. Anzi, in modo più netto, il trasferimento dei poteri pubblici e delle risorse alla comunità locali può costituire un’occasione decisiva per il recupero dell’etica repubblicana. Tuttavia è una svolta che, anche per garantire questi obiettivi, necessita di alcune consapevolezze.
Il sistema elettorale nazionale, benché pessimo per i diritti di cittadinanza, ha mandato letteralmente in fumo il potere delle cosche di condizionare l’elezione dei parlamentari. Le liste di “nominati” su base regionale sono una vera e propria dannazione per i padrini che non sono in grado di far eleggere alcun parlamentare con il proprio voto. Il proporzionale a preferenza multipla è stato, invece, una pacchia per il clientelismo e le infiltrazioni. La modificazione del sistema elettorale nazionale, nel recupero della sovranità popolare rispetto alla scelta dei candidati, io credo, non potrà non tenere conto di tutto questo.
Così il macigno elettorale delle cosche, che sono tuttora in grado di spostare nei proprie enclave centinaia di voti, si dirige sempre di più verso le elezioni regionali e amministrative, dove le preferenze ancora pesano e sono fortemente inseguite dai candidati, come dimostrano inchieste giudiziarie anche recenti in Calabria e Campania. Un inseguimento che non è specifico di questo o quel partito, ma che viene mantenuto in piedi dalla mafia col solo ed unico criterio della propria convenienza. Un federalismo pienamente attuato necessiterà, quindi, anche di qualche accorgimento nei sistemi elettorali locali che tocca, ovviamente, alla politica individuare, anche attraverso congegni capaci di sanzionare i partiti che scelgono con poca accortezza i propri candidati (ad esempio con una congrua contrazione dei rimborsi elettorali e delle somme a disposizione dei gruppi consiliari).
Ancora, il trasferimento di poteri e risorse verso le regioni o i comuni rischia di favorire l’azione di una “mafia di prossimità” che fa del controllo ossessivo del territorio il suo punto di forza. è evidente che in uno stato federale compiuto sarà ancora più importante per le cosche avere collusioni e complicità con un assessore regionale, piuttosto che con un ministro, poiché gran parte delle risorse saranno gestite a quel livello. Si pensi a cosa hanno significato per il potere mafioso settori già a larga competenza regionale come la sanità, la gestione degli operai forestali, l’urbanistica, i trasporti locali o la distribuzione dei finanziamenti europei. D’altronde non si può negare che l’autonomia regionale della Sicilia non ha operato da fattore in grado di contenere o contrastare l’endemica presenza della mafia in quella regione (Gaetano Paci, Sistema di potere mafioso e malasanità, in AA.VV., La violenza tollerata, Milano, 2006). Le mafie corrono dove c’è il denaro: questa resta la vera e fondamentale loro caratteristica.
Si pone, quindi, il problema dei controlli pubblici sull’attività degli enti territoriali, di fatto cancellati da oltre un decennio, e del complessivo adeguamento delle Istituzioni che contrastano l’illegalità (le procure regionali della Corte dei Conti sono a ranghi insufficienti, v’è l’urgenza, ripetiamo, di una buona legge anticorruzione). La strada della trasparenza e dei controlli nella gestione delle risorse e nell’esercizio delle funzioni amministrative è decisiva. La percentuale di mafiosi che non paga i tributi locali con la compiacenza o il terrore di tanti amministrazioni comunali è elevata e talune inchieste hanno anche affrontato tale endemico e odioso privilegio.
Si badi a rendere vigorosa l’azione di tutte le Istituzioni sul territorio, altrimenti la scommessa per uno Stato moderno ed efficiente rischia di essere perduta.



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