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GNOSIS 3/2010
Il FORUM



Bioterrorismo e politiche di prevenzione

a cura di Emanuela C. DEL RE



Foto Ansa
Il mare non è sempre nostrum come i Romani amavano definire quello che bagnava tutti i territori che essi controllavano. In molti casi la definizione dei confini delle acque che appartengono ai paesi che si affacciano sul mare è complessa, spesso causa di dispute, conflitti. Numerosi i casi recenti nel Mediterraneo, in cui il diritto marittimo che regola i traffici e le norme per una convivenza pacifica è causa di controversie, a volte in situazioni poco chiare. Ad esempio, un vascello che porta clandestini ed è in balìa dei flutti, chi deve soccorrerlo, se naviga in acque internazionali? E se si trova in acque nazionali, può essere soccorso da una nave straniera se è in stato di bisogno e quella nave è vicina? L’episodio del settembre 2010 del peschereccio italiano mitragliato da una nave libica è avvenuto a 31 miglia da Al Zawara, centro libico al confine con la Tunisia, all’interno del golfo della Sirte. Il problema sembra stia nel fatto che quella zona è ancora percepita dalla Libia come di propria competenza e da qui verrebbe la reazione dei libici, anche se, secondo le norme di diritto internazionale, si tratterebbe di acque internazionali e questo renderebbe la reazione inaccettabile. Il ministro dell’Interno Maroni ha aperto un’inchiesta sulla vicenda.
Le acque territoriali e le questioni di sicurezza marittima che ne derivano rappresentano un problema non solo italiano, mediterraneo ma globale.
Tra le questioni aperte tra Cina e Stati Uniti, ad esempio, è fortemente sentita quella degli episodi avvenuti nel Mar Cinese meridionale, quando nel marzo 2009 le unità di sorveglianza americane USNS Impeccable e USNS Victorious stavano operando a 75 miglia dall’isola Hainan, dove si trova la base navale cinese Yulin, e dove la Cina sta sperimentando nuovi missili balistici e sottomarini nucleari. Alle navi USA è stato intimato l’alt. Sono seguite inchieste e interrogazioni, che non hanno allentato le tensioni, soprattutto perché proprio in quei giorni avevano preso il via le negoziazioni militari tra i due paesi. Una questione, questa, legata anche alla definizione della violazione delle acque territoriali. Recentemente, altre reazioni da parte della Cina vi sono state in merito alle esercitazioni che gli USA hanno proposto di condurre insieme alla Corea del Sud (come segnale chiaro per la Corea del Nord) nel Mar Giallo.
Restando sui fatti internazionali, è ancora aperta la questione della definizione dello status del Mar Caspio, che tanto interessa l’Europa – l’Italia in particolare – per le sue risorse energetiche di idrocarburi e per la posizione strategica. Mare o lago? Sulle sue coste chiuse, senza sbocchi, si affacciano Russia, Iran, Azerbaijan, Kazakistan, Turkmenistan. La divisione delle acque territoriali determina quali campi di risorse energetiche finiscono nelle acque di rispettiva competenza, una questione che caratterizzerà la dimensione geopolitica dell’area nel tempo. Il summit del 2007 tra i Capi di Stato del Caucaso non ha risolto la questione, ma ha portato alla dichiarazione che tutti gli stati che si affacciano sul mare utilizzeranno efficientemente le risorse marine per aumentare la cooperazione economica, soprattutto nel campo dei trasporti e dell’energia, che solo i paesi del Caspio possono dislocare navi e forze militari in quel mare, e che tutti si impegnano ad impedire a chiunque altro di usare i propri territori per aggredire o ingaggiare attività militari contro uno degli altri stati litoranei. Dopo tutto i conflitti nella zona sono sempre latenti, come la questione del Nagorno-Karabakh, ad esempio. Nel 2010 si incontreranno ancora i Capi di Stato del Caspio, e discuteranno delle acque territoriali.
Da un altro punto di vista, in paesi come l’India dove da più parti vengono denunciate falle nella sicurezza marittima, soprattutto per quanto riguarda il terrorismo. Il terrorismo marittimo è considerato dalle autorità indiane la nuova frontiera del terrorismo: dopo gli attacchi del 26 Novembre 2009 a Mumbai, esso viene definito da studiosi indiani come l’uso di minaccia o violenza contro una nave (sia civile che militare), i suoi passeggeri o equipaggio, trasporti, infrastrutture e servizi portuali. Proprio l’attacco a Mumbai ha fatto sollevare voci in merito all’insufficiente apparato difensivo marino dell’India (Guardia costiera e Marina), che teme soprattutto i terroristi del Pakistan i quali potrebbero sfruttare per i loro scopi le centinaia di pescherecci indiani che la Guardia costiera pakistana accusa di violare le acque territoriali e intercetta. Il rischio è che quei pescherecci potrebbero essere usati dai terroristi per infiltrarsi nelle acque territoriali indiane.
Di rischio terrorismo e acque territoriali si parla anche in Nigeria. Il Paese teme di essere inserito nella lista nera della International Maritime Organisation (IMO) a causa della permeabilità delle sue acque territoriali, in cui hanno luogo diversi episodi di illegalità, inclusi attacchi ad imbarcazioni mercantili.
Tornando in Europa, merita attenzione il caso della disputa tra Gran Bretagna e Spagna sulle acque territoriali di Gibilterra. Nel 2009 un pattugliatore della Marina Militare spagnola è entrato nelle acque territoriali britanniche a Gibilterra e ha dislocato una piccola motovedetta per fare dei controlli sui pescherecci spagnoli. Subito il Royal Navy’s Gibraltar Squadron ha inviato le sue navi sul posto e gli spagnoli hanno abbandonato il campo. La questione è seria perché il fatto è accaduto subito dopo la dichiarazione del governo gibilterrino di voler adire a vie legali in merito alla disputa diplomatica sulle acque territoriali di Gibilterra. Un anno dopo, nel Maggio 2010 il Ministero per lo Sviluppo spagnolo ha pubblicato delle linee guida per il salvataggio in mare e per i servizi di pilotaggio. Nelle linee guida è scritto che le navi di salvataggio dovrebbero navigare solo all’interno dei confini delle acque territoriali in caso di incidente marittimo o di emergenza. Il problema, che ha sollevato accese reazioni politiche all’interno della Spagna, è che i confini delineati sono “molto simili” a quelli asseriti dalla Gran Bretagna.
Vi è anche una disputa tra Grecia e Turchia. Il Ministero degli Esteri greco pubblica sul suo sito tutta la documentazione relativa alle acque territoriali asserendo di avere il diritto, avallato dalla normativa internazionale, di estendere i propri confini marittimi nell’Egeo, mentre la Turchia ha sempre dichiarato che se la Grecia lo facesse questo sarebbe considerato un casus belli, esteso anche allo spazio aereo. Una tensione continua anche perché la Grecia denuncia numerose incursioni turche nelle acque territoriali e nello spazio aereo greco. Per ora lo status quo rimane inalterato, ma vi è sempre rischio di crisi.
Per concludere questo breve excursus che dimostra l’importanza del tema che proponiamo in questo forum, non si può non parlare della questione in atto tra Slovenia e Croazia, che vede in gioco perfino l’entrata della Croazia nell’UE. Al centro della disputa vi sono circa 8 miglia quadrate di terra e mare nel Golfo di Pirano, oggetto di contesa da quando la Slovenia divenne indipendente dalla Jugoslavia nel 1991. L’ambizione slovena è quella di ottenere che le sue navi possano raggiungere le acque internazionali direttamente dal territorio sloveno attraverso il suo unico sbocco sul mare. Circondata a nord dalle acque dell’Italia e a sud da quelle croate, la Slovenia vorrebbe poter avere un corridoio di acque neutrali per raggiungere le acque internazionali, perché, teoricamente, la Croazia potrebbe interferire con il traffico in entrata e in uscita dal porto sloveno di Koper o impedire a navi da guerra slovene di attraversare il golfo. La Croazia si è opposta al corridoio. La Slovenia ha risposto minacciando di mettere a rischio l’entrata della Croazia nell’UE ponendo eventualmente il veto. Una questione tanto scottante che il governo sloveno ha indetto un referendum che si è tenuto il 6 Giugno 2010, che ha portato all’approvazione dell’accordo che prevede che la risoluzione della disputa sui confini venga affidata ad un arbitrato internazionale. Per la Croazia questa è un’ottima notizia perché l’accordo approvato dal referendum prevede anche che la Slovenia non blocchi più il suo percorso per entrare nell’UE entro il 2012.
Vi sono altre questioni importanti, come quella tra Turchia e Israele in merito all’episodio della nave Mavi Marmara del 31 Maggio scorso, in cui le acque territoriali ancora una volta giocano un ruolo importantissimo, e vi sarebbero molti altri casi di cui parlare. Quel che è certo è che non si può guardare ai nostri Paesi soltanto dalla prospettiva terrestre, ma bisogna volgere il nostro sguardo all’orizzonte, oltre le nostre sponde, al mare.
L’importanza delle questioni di sicurezza marittima deriva dal fatto che il mare è movimento di merci, persone, idee. Non a caso si parla di “autostrade del mare” – o “strade mediterranee” – progetto importantissimo che l’Italia deve continuare a promuovere e sostenere perché innegabile fattore di sviluppo: è un servizio intermodale di trasporto alternativo alla viabilità ordinaria su strada, che prevede linee di cabotaggio di più imprese per collegare tutti i paesi del Mediterraneo.
Mare vuol dire anche sicurezza, come negli interventi di peacekeeping, ai fini di evacuazione (nel 2006 in Libano) e molte altre attività, tra cui il contrasto al traffico illegale di persone e merci.
È indubbio che la questione delle acque territoriali è di natura geopolitica, geostrategica, ma implica anche una dimensione che potremmo definire “psicologica” per paesi e popolazioni. Per questo abbiamo deciso di approfondirla in questa sede.
Avventurarsi nelle complessità di un simile tema non è facile.


Ci accompagnano in questo viaggio esperti come l’Ammiraglio della Marina Militare Fabio CAFFIO, esperto di Diritto del mare e autore del Glossario del Diritto del Mare (2007), che interviene sulle acque interne territoriali italiane, patrimonio della nazione, e propone linee programmatiche; il Professore Giuseppe VERMIGLIO, Docente di Diritto dei trasporti presso l’Università degli Studi di Messina, che si sofferma sulla sicurezza marittima; la Professoressa Elda TURCO BULGHERINI, Ordinario di Diritto della navigazione presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, che esplora la questione ponendola in relazione in particolare al contrasto al traffico via mare di clandestini facendo luce sulla normativa relativa alle operazioni in mare; il Giornalista Alberto NEGRI inviato de Il Sole 24 Ore, che ci riporta agli scenari di sicurezza internazionali, alle questioni palpitanti, delineando un concreto scenario futuro.




Fabio CAFFIO




… l’Italia non ha una chiara percezione di cosa siano le proprie acque territoriali …


Paese marittimo per così dire “di facciata”, nonostante i tanti interessi marittimi e nonostante il rilievo economico del cluster marittimo, l’Italia non ha una chiara percezione di cosa siano le proprie acque territoriali, quale la loro estensione, acque interne comprese, quali i problemi, anche normativi, per garantire che le attività che vi si svolgono vengano condotte nel rispetto della legalità. Basti dire, tanto per iniziare, che quasi nessuno studente ha mai visto a scuola una cartina che ne indichi la superficie. Se va bene, negli atlanti o nei libri di geografia vi è qualche linea tratteggiata in modo approssimativo che riporta la mediana con alcuni Stati frontisti, come la Francia, Malta o la Slovenia, senza tenere in alcun conto i confini marittimi stabiliti da accordi con gli stessi Stati (valga per tutti la frontiera marittima del Golfo di Trieste definita con gli Accordi di Osimo del 1975). Per il vero sussiste in molti la convinzione – istintivamente ispirata alle teorie di Grozio sulla libertà dei mari – che in mare non ci siano confini. Ma altri Paesi sono, al riguardo, molto meno approssimativi. La Croazia, ad esempio, in tutte le sedi pertinenti – e sinanco nei gadget turistici – include le acque territoriali nel profilo del proprio territorio. Segno questo che esiste una coscienza nazionale dell’appartenenza degli spazi marini al territorio sotto sovranità. Sicché basta un preteso sconfinamento di qualche centinaio di metri all’interno delle acque territoriali di qualche isola come Pelagosa per far scattare sequestri e crisi diplomatiche. Stesso discorso per eventuali violazioni della sovranità albanese, libica, tunisina, maltese o francese. Insomma, guai a compiere, nelle acque territoriali dei nostri vicini, asserite attività non consentite dalle loro leggi! Per valutare quello che è un problema con molte cause è necessario analizzarlo da vari punti di vista. Il che ci accingiamo a fare iniziando proprio dalle (dis)sconosciute frontiere delle acque territoriali italiane per poi passare a trattare del loro regime internazionale e nazionale, delle competenze delle istituzioni che vigilano al loro interno e di cosa si possa fare per accrescerne la funzionalità.


… acque interne, linee di base e limiti del nostro mare territoriale …


Vi è stato un tempo, sino alla II guerra mondiale in cui le acque territoriali italiane si estendevano per 3 miglia a partire dalla linea di bassa marea della costa. Le tre miglia rispondevano ai princìpi consuetudinari della regola antica del “colpo di cannone” (la sovranità si estende sino a dove arriva la portata delle artiglierie terrestri in quanto land dominates the sea) ed erano in sintonia con le aspirazioni britanniche a non avere limitazioni al libero uso dell’alto mare. Poi il nostro Codice della Navigazione del 1942 ne ha portato il limite a 6 miglia che in seguito la legge 14 agosto 1974, n. 359 ha spostato a 12 miglia, anticipando di qualche anno il regime convenzionale stabilito dalla Convenzione delle N.U. sul Diritto del Mare del 1982 (di seguito UNCLOS). I princìpi ora codificati nella UNCLOS in materia di linee di base dritte da cui è possibile far partire le acque territoriali (a condizione che la costa sia frastagliata o che ci sia una frangia di isole collegate al dominio terrestre) sono stati applicati dall’Italia con il D.P.R. 816/1977. Il risultato è quello che si vede nella cartina pubblicata in apertura. Le acque comprese tra le Isole dell’Arcipelago Toscano e tra altri gruppi di Isole come le Pontine sono passate al regime delle acque interne e così anche quelle dei Golfi di Taranto, di Manfredonia, di Salerno e dell’Asinara. La superficie complessiva delle acque interne e territoriali è divenuta in questo modo di 155.000 kmq. (più della metà dei 301.000 kmq. del territorio nazionale). Il margine esterno del mare territoriale è invece passato ad uno sviluppo lineare di meno di 5.000 km, rispetto ai 7.551 km della linea di costa (3.702 km di coste continentali e 3.849 km di coste insulari di cui 1.500 della Sicilia e 1.849 della Sardegna). Le ragioni di questa iniziativa italiana furono indicate al tempo nell’esigenza di facilitare “l’attività di polizia e vigilanza nei vitali settori della difesa nazionale, della lotta al contrabbando, della conservazione dell’ambiente marino, della pesca”. Oltretutto un articolato sistema di linee di base rette tracciate attorno alle isole era per esempio stato fissato dalla ex Jugoslavia sin dal 1965 e così l’Albania aveva chiuso nel 1970 tutte le sue baie stabilendo addirittura, in violazione del diritto internazionale, che il limite delle proprie acque territoriali fosse di 15 miglia. Nel 1973 la Libia aveva invece inglobato nelle acque interne il Golfo della Sirte tracciando una linea di chiusura di 305 miglia lungo il parallelo 32° 30’. La proclamazione citava soltanto indirettamente la storicità della pretesa mentre venivano invocate esigenze vitali di sicurezza nazionale. Nell’ambito di queste premesse va inquadrata la chiusura italiana del Golfo di Taranto con una linea di 60 miglia tracciata tra Santa Maria di Leuca e Punta Alice facendo espresso richiamo, nel D.P.R. 816/1977 all’istituto della “baia storica” previsto dall’UNCLOS come deroga alla regola del semicerchio con diametro di 24 miglia per la chiusura delle insenature. Sfortunatamente non si vollero esplicitare, nella relazione illustrativa dello stesso provvedimento, quali erano i titoli storici posti a base della pretesa. Ne nacquero delle perplessità da parte della dottrina statunitense (ed anche di studiosi italiani) e gli Stati Uniti protestarono ufficialmente nel 1984, come già avevano fatto e faranno più volte con la Sirte sino al 1986. Le acque territoriali italiane sono anche definite, nel Golfo di Trieste, dall’Accordo di Osimo del 1975 con la ex Jugoslavia e, nelle Bocche di Bonifacio, dall’Accordo di Parigi del 1986 con la Francia.


… il regime internazionale del transito nelle acque interne e territoriali …


La materia dei diritti dello stato costiero sulle proprie acque interne e territoriali è ampiamente trattata nell’UNCLOS. Lo status legale delle acque interne comprese tra la linea di costa e le linee di base è caratterizzato dal completo ed incondizionato esercizio della sovranità, al pari di quanto avviene nell’ambito dei confini terrestri. Non esiste dunque, per le navi mercantili straniere (ed ovviamente nemmeno per quelle da guerra) quel particolare diritto di transito, detto inoffensivo, che è esercitabile – come sarà precisato più avanti – nelle acque territoriali. Le navi straniere, per poterle attraversare, devono essere dirette o provenire da un porto del Paese costiero. Né è prevista la loro sosta o ancoraggio, a meno che non siano costrette a far ciò in una situazione di pericolo o di forza maggiore. Secondo l’UNCLOS la sovranità dello Stato costiero si estende anche, al di là della terraferma e delle acque interne, su una zona di mare adiacente denominata acque territoriali nonché sullo spazio aereo sovrastante e sul sottostante fondale marino. Il limite esterno è come detto di 12 miglia dalle linee di base, se istituite, o altrimenti dalla linea di bassa marea. La stessa sovranità è però in parte affievolita dalla possibilità per le navi straniere di transitare a certe condizioni nelle acque territoriali (ma agli aerei non è consentito il sorvolo dello spazio aereo nazionale). Il regime del passaggio inoffensivo presuppone una non interferenza con la sovranità dello Stato rivierasco. Secondo l’UNCLOS il transito deve infatti consistere in un attraversamento continuo e rapido che è ammesso a condizione che non sia “pregiudizievole alla pace, al buon ordine o alla sicurezza dello stato costiero”. L’UNCLOS contiene una lista esemplificativa delle attività che rendono il passaggio offensivo. Le ipotesi riguardano il caso che la nave sia impegnata in una qualsiasi attività non avente rapporto diretto con il passaggio, oppure in attività specifiche quali minaccia o uso della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dello Stato costiero ovvero propaganda ostile volta a pregiudicare la difesa o la sicurezza dello Stato costiero nonché esercitazioni con armi di qualsiasi tipo e operazioni di volo, ricerca scientifica o rilevamento idrografico, pesca, grave inquinamento doloso, imbarco e sbarco di persone o merci in violazione di norme interne dello stato costiero in materia doganale, fiscale, sanitaria o di immigrazione. Restrizioni al diritto di passaggio inoffensivo possono stabilirsi dallo Stato costiero, per la sicurezza della navigazione o per la protezione dell’ambiente marino purché non si tratti di misure che risultino chiaramente discriminatorie verso le navi di una determinata bandiera. In questo ambito rientra l’adozione di rotte marine e di schemi di separazione del traffico. Eguale potere di interdizione del passaggio sussiste per zone in cui ciò sia necessario per la sicurezza nazionale o per lo svolgimento di esercitazioni con armi. In ogni caso lo stato costiero può emanare leggi e regolamenti, relativamente al proprio mare territoriale, in materie quali sicurezza della navigazione, protezione di cavi e condotte, conservazione delle risorse biologiche, tutela dell’ambiente marino, o in quelle doganali, fiscali, sanitarie e di immigrazione.


… il regime del transito nelle acque interne e territoriali italiane …


Prima dell’entrata in vigore dell’UNCLOS nel 1994 l’ordinamento italiano, per disciplinare l’ingresso nelle acque interne e territoriali, si avvaleva della vecchia legge 16 giugno 1912, n. 612 sul transito e soggiorno delle navi mercantili: limitazioni al passaggio ed alla sosta in determinate zone del mare territoriale potevano essere stabilite, nell’interesse della difesa nazionale, con decreto. La stessa legge disciplinava le misure da adottare nel caso di violazione del divieto di transito per indurre il mercantile a fermarsi e sottoporlo a visita. Quando poi con la legge 2 dicembre 1994, n. 689 si procedette alla ratifica ed all’esecuzione dell’UNCLOS il legislatore adottò la soluzione dell’adattamento formale dell’ordinamento italiano al trattato mediante il c.d. “procedimento speciale” (“piena ed intera esecuzione è data…”). Non furono quindi emanate norme applicative e l’UNCLOS fu recepita nella sua forma originaria. Eppure forse sarebbe stato necessario emanare norme di esecuzione. Altri Paesi l’hanno fatto e la loro legislazione, divulgata internazionalmente, costituisce un punto fermo che qualsiasi nave straniera è tenuta a conoscere ed osservare. Al riguardo si possono citare sia il Decreto francese n. 85/185 del 6 febbraio 1985 sia il Codice Marittimo emanato dalla Croazia nel 1994, quali testi che recepiscono con integrazioni la normativa dell’UNCLOS prevedendo anche sanzioni pecuniarie per le violazioni commesse da navi straniere (la Croazia prevede anche una pena pecuniaria per la semplice sosta nel proprio mare territoriale). Oltretutto, per effetto del D.L. 25 giugno 2008, n. 112 sulla semplificazione è stata abrogata la legge 612/1912 di cui si è detto, creando così un vuoto, in campo sanzionatorio, nell’ordinamento italiano. La stessa legge sanzionava infatti le violazioni al divieto di transito in determinate zone di mare con ammenda o, nel caso di uso della forza, con l’arresto da uno a dodici mesi.


… le competenze delle Istituzioni operanti sul mare …


La materia del regime del transito e soggiorno nelle acque interne e territoriali è rilevante da vari punti di vista. Sicuramente essa attiene alla sicurezza della navigazione, definita dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) come maritime safety, il cui testo di riferimento è la Convenzione SOLAS ed il cui oggetto riguarda i requisiti di navigabilità delle navi, gli schemi di separazione del traffico, gli ausili alla navigazione, il controllo del traffico anche al fine di evitare collisioni che possano causare inquinamenti. La relativa funzione – disciplinata da numerose direttive comunitarie – rientra in quella più generale della polizia marittima, intesa come polizia tecnico-amministrativa marittima, affidata al Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia costiera, nella veste di Autorità marittima sulla base del Codice della Navigazione. Il Corpo appartiene alla Marina Militare ma, oltre a specifici compiti militari, svolge funzioni per conto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e di altri Dicasteri quale l’Ambiente. Al personale del Corpo, secondo lo stesso Codice, sono attribuite ratione materiae funzioni di polizia giudiziaria per l’accertamento di reati marittimi. Da segnalare inoltre la legge 7 marzo 2001, n. 51 contenente “Disposizioni per la prevenzione dell’inquinamento derivante dal trasporto marittimo di idrocarburi e per il controllo del traffico marittimo” sulla base del quale il Corpo gestisce il sistema del “Vessel Traffic Service” (VTS) nonché l’attività che al Corpo è affidata in materia di “Port State Control” secondo il Paris 1982 Memorandum che è fondamentale per la verifica, durante la sosta in porti italiani, delle condizioni di navigabilità delle navi con bandiera di convenienza le quali, com’è noto, sono anche implicate, molto spesso, in traffici illeciti.
A fronte di queste funzioni attribuite al Corpo tra le quali si collocano anche quelle relative alla ricerca e soccorso (SAR) secondo il D.P.R. 664/1994 e quelle previste dal Regolamento comunitario 725/2004 nel settore della sicurezza del trasporto marittimo e dei porti, vi sono quelle attinenti l’ordine e la sicurezza pubblica sul mare facenti capo al Ministero dell’Interno. Il testo di riferimento è tuttora quello delle “Direttive per il coordinamento dei servizi di ordine e sicurezza pubblica sul mare” del 25 marzo 1998 di cui vale la pena riportare il contenuto: “L’obiettivo da perseguire è il migliore impiego delle risorse disponibili per l’azione di polizia sul mare, sia sotto il profilo della razionalizzazione della spesa che sotto quello del perfezionamento e potenziamento dei servizi, tenuto conto del rilievo delle condotte illecite sul mare (contrabbando, traffici di stupefacenti e di armi, emigrazione e immigrazione clandestina, reati finanziari, inquinamento, ecc.) e dell’accresciuta responsabilità dell’Italia a tutela della frontiera esterna comune dei Paesi aderenti all’accordo di Schengen. Le esigenze di sicurezza sul mare vanno quindi considerate globalmente e non settorialmente, almeno per la parte rimessa all’azione delle Forze di polizia, pur dovendo riconoscere che, accanto ai compiti ed impegni comuni, vanno altrettanto curati i compiti istituzionali specifici (quali, ad esempio: la vigilanza in mare per fini di polizia finanziaria, la traduzione dei detenuti ed internati in stabilimenti situati in isole, la conseguente vigilanza antievasione, la vigilanza a tutela della pesca e dell’ambiente marino, ecc.), senza trascurare la proiezione sul mare dei compiti istituzionali e di pubblica sicurezza esercitati sulla terraferma. A tal fine, il concorso della Guardia di Finanza nei servizi di ordine e sicurezza pubblica sul mare, per l’importante sviluppo aereo-navale del Corpo, per la natura stessa dei mezzi, idonei ad un impiego multifunzionale, e per gli specifici compiti di vigilanza aereo-navale per fini di polizia assolti dal Corpo stesso, assume un ruolo determinante, insieme ai mezzi della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri, nell’espletamento di servizi coordinati di controllo del territorio e di sicurezza generale sul mare. Va nondimeno riconosciuto la preminente competenza dei Corpo delle Capitanerie di porto per quanto attiene alla vigilanza, ai controlli e agli altri interventi relativi alla sicurezza della navigazione …”.
Questa organizzazione di impiego coordinato si avvale delle capacità di tutte le istituzioni dello Stato aventi competenze nelle acque interne e territoriali, prima tra tutte il Corpo della Guardia di Finanza che opera sul mare sulla base dell’art. 2, n. 3 del Decreto legislativo 19 marzo 2001, n. 68 nei prioritari settori della polizia economico-finanziaria e del contrasto dei traffici illeciti. Il Ministero dell’Interno è anche il referente principale del controllo e del contrasto dell’immigrazione illegale via mare secondo la disciplina – ispirata agli stessi princìpi di coordinamento – della legge 20 luglio 2002, n. 189 e dal discendente decreto ministeriale del 19 giugno 2003. Queste disposizioni riservano alle “navi in servizio di polizia”, nelle acque interne e territoriali, poteri di fermo, ispezione e sequestro di natanti sospetti di essere coinvolti nel traffico di migranti. La Marina Militare concorre al dispositivo costiero. La Forza armata esercita infatti in via prioritaria funzioni di polizia dell’alto mare di natura non militare sulla base delle pertinenti norme internazionali, dell’art. 200 del Codice della Navigazione e dell’articolo 99 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 relativo al contrasto al traffico di stupefacenti, esplica sia nei confronti dei mercantili nazionali che di quelli stranieri, al fine di garantire la protezione della sicurezza (intesa come maritime security) delle principali linee di comunicazione marittime e della legalità dei traffici marittimi che vi si svolgono. Questa funzione è interfacciata con quella della difesa marittima del territorio disciplinata dall’art. 98 del D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 (Testo Unico dell’ordinamento militare), nel senso che le minacce ipotizzabili sul mare e dal mare, in relazione alla fluidità dell’elemento in cui vengono condotte, presentano una molteplicità di aspetti che prescinde sia dalla loro qualificazione di tipo militare e sia dallo spazio ove si materializzano, in quanto esse possono essere dirette verso le acque territoriali, pur essendo ancora nella fase del tentativo in alto mare, o viceversa. Nell’ambito della difesa marittima si colloca peraltro l’attività, curata dalla Marina militare, di raccolta dati acquisiti autonomamente o forniti dall’Autorità marittima, riguardanti eventuale presenza di relitti o altri oggetti giacenti sul fondo del mare. È da ricordare al riguardo il problema della presunta giacenza di navi affondate contenenti rifiuti tossici più volte emerso all’attenzione dell’opinione pubblica. dotazione organica è fissata in trenta unità comprese quelle dirigenziali. La stessa norma transitoria ha stabilito che le funzioni del Commissario Straordinario sono assunte dal Direttore dell'Agenzia.


… è necessario diffondere nell’opinione pubblica la percezione del fatto che le acque interne e territoriali appartengono allo Stato e come tali, al pari del territorio emerso, vanno vigilate e protette


Tirare le fila di un discorso così articolato e complesso come quello del regime giuridico delle acque territoriali e delle misure per accrescere la loro sicurezza non è facile ma si può tuttavia tentare sulla base delle considerazioni che seguono:
- è necessario diffondere nell’opinione pubblica la percezione del fatto che le acque interne e territoriali appartengono allo Stato e come tali, al pari del territorio emerso, vanno vigilate e protette. A questo fine le Istituzioni aventi attribuzioni sul mare, dovrebbero riportare, sui loro siti istituzionali, la rappresentazione cartografica degli spazi marini sotto sovranità nazionale;
- sarebbe utile, per la certezza delle norme applicabili, emanare un provvedimento indicante sia le condizioni secondo cui è ammesso l’ingresso di navi straniere nelle acque interne ed il loro transito nelle acque territoriali, sia le sanzioni per la violazione di queste condizioni, sia le attività proibite da leggi italiane che rendono offensivo il passaggio;
- è innegabile come il modello adottato dal Ministero dell’Interno per la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica sul mare sia il più efficace ed adeguato alla realtà organizzativa italiana. Se è così esso dovrebbe essere applicato a tutte le attività di prevenzione e contrasto delle attività illecite svolte dalle istituzioni operanti sul mare. In particolare sembrerebbe necessario far sì che il Corpo delle Capitanerie-Guardia costiera condivida con le altre Istituzioni le informazioni sul controllo del traffico marittimo negli “spazi di interesse nazionale” svolto per conto dei Trasporti e dell’Ambiente secondo la legge 51/2001. I dati acquisiti tramite il VTS e gli altri sistemi di controllo presentano infatti una elevata valenza che va ben oltre il semplice fine di “prevenire gli incidenti in mare o di limitare le conseguenze dei sinistri marittimi nei quali siano coinvolte navi cisterna”. Stesso discorso per le funzioni di Port State Control che, benché attinenti la sicurezza della navigazione ed il rispetto delle condizioni di lavoro dei marittimi, presentano rilevanti implicazioni di sicurezza nazionale in quanto vertono su navi con bandiera di convenienza che possono essere implicati in illeciti;
- la tipologia delle attività illegali ipotizzabili nelle acque territoriali va valutata realisticamente, prendendo spunto sia dalla casistica dei reati accertati, quali l’ingresso clandestino, il contrabbando, il narcotraffico, il grave inquinamento o l’asportazione di relitti archeologici. Prendendo spunto dalle ulteriori minacce presenti nelle acque internazionali non è certo allarmistico pensare, in vicinanza delle coste nazionali, a forme di terrorismo marittimo secondo le fattispecie della Convenzione di Roma e del Protocollo aggiuntivo del 2005, di “pirateria per analogia” (artt. 1135 e 1136 del Codice della Navigazione), di trasporto di armi di distruzione di massa (WMD) nei casi previsti dalla “Proliferation Security Iniziative” (PSI), di attentati all’integrità di cavi sottomarini elettrici o telefonici, di condotte di idrocarburi (si pensi ai tratti terminali dei gasdotti provenienti dalla Libia o dall’Algeria) e di piattaforme petrolifere;
- nell’ottica di impiegare al meglio tutti gli assetti disponibili dei vari dispositivi di controllo e pattugliamento delle acque interne e territoriali è bene considerare che le minacce ivi esistenti vanno valutate in modo unitario insieme a quelle degli spazi extraterritoriali. In considerazione di questo sarebbe auspicabile affidare alla Marina Militare la realizzazione di quel “Dispositivo Interministeriale Integrato di Sorveglianza Marittima” (DIISM) che da tempo viene indicato come il più adeguato alle esigenze di ottenere una conoscenza quanto più approfondita possibile di tutto quello che si muove nelle acque interne, territoriali ed internazionali di interesse del Paese, allo scopo di poter efficacemente provvedere alla prevenzione e contrasto di qualsiasi attività marittima illecita a similitudine delle procedure in atto per lo spazio aereo territoriale ed internazionale limitrofo a quello nazionale. Il DIISM avrebbe il pregio di lasciare inalterate le competenze attualmente previste in capo agli organismi operanti sul mare consentendo tuttavia di adottare un approccio “interagenzia”, orientato prioritariamente alla sicurezza nazionale, aperto alla valorizzazione di informazioni che altrimenti risulterebbero confinate in ambiti settoriali.




Giuseppe VERMIGLIO




… la sicurezza marittima nella società del rischio …


Nel definire quali siano i nuovi orizzonti ai quali si apre la disciplina giuridica della sicurezza in mare, preme evidenziare che da un rapido esame della normativa e dagli atti di indirizzo e documenti programmatici comunitari è possibile agevolmente ricavare la dimensione della accezione di alcuni concetti acquisita nel linguaggio comune, tecnico-economico e transitata nei testi normativi.
La «sicurezza» come risultato di una azione di prevenzione e repressione di illeciti dolosi e colposi (Security), di prevenzione di pericoli prevedibili e contenimento dei danni di eventi imprevedibili in settori determinati e speciali di attività o azioni a rischio (safety), si è estesa, con il progressivo espandersi e consolidarsi dello Stato sociale, all’azione di regolazione dell’intera economia indirizzata al risultato dello sviluppo sicuro ecocompatibile. “Sicurezza” costituisce così il risultato di una azione di governo diretta ad assicurare un obiettivo complesso: protezione della vita umana e dell’ambiente non solo da sinistri e pericoli, ma anche dai rischi. Soffermandoci qui sulla sicurezza marittima, occorre verificare se sul piano storico, socio-culturale e del linguaggio prima e poi su quello giuridico si rivengano nuove possibili acquisizioni (dimensioni o orizzonti se si preferisce) da riconoscere a questo valore fondante l’ordine sociale e giuridico.
Possiamo richiamare gli eventi più noti del processo di trasformazione economico, sociale e politico esploso nel ventennio scorso; l’implosione del sistema sovietico, l’avvento delle nuove tecnologie, l’espansione della globalizzazione dell’economia, l’attentato alle torri gemelle ed il manifestarsi del terrorismo internazionale, ed i fenomeni migratori conseguenti allo sviluppo ineguale del nord e del sud del mondo hanno radicalmente mutato il quadro di riferimento. È opinione largamente condivisa, che queste trasformazioni storiche, sociali, economiche, stanno cominciando ad incidere in modo determinante e significativo anche sulle organizzazioni giuridiche statali e sul sistema normativo (e per le strette interrelazioni tra politica, economia e diritto non potrebbe essere diversamente).
Ai nostri fini interessa accennare al processo evolutivo che sta determinando in tutti i settori dell’ordinamento il diverso modo di configurazione della sicurezza che, da risultato dell’azione dell’autorità che legittima il conferimento del potere di limitare i diritti di libertà per mantenere l’ordine pubblico, si va ponendo come pretesa della persona nei confronti dello Stato (diritto fondamentale, quindi) per assicurare uno sviluppo che garantisca la vita umana e l’ambiente non solo dai danni e dai pericoli ma anche dal rischio.


… la sicurezza marittima non è un «sottosettore» dell’incolumità pubblica …


In questo diverso contesto, non pare più sufficiente definire la sicurezza marittima un «sottosettore» dell’incolumità pubblica, che si stempera nel complesso di norme – tecniche e non – dirette al fine della perfetta riuscita della «spedizione», intesa quest’ultima, nel complesso di attività coordinate al raggiungimento di un dato fine attraverso la navigazione marittima.
È sufficiente scorrere i documenti recenti che delineano la politica comunitaria in materia di mare, trasporti, infrastrutture ed ambiente per cogliere come la disciplina della sicurezza marittima sia aperta ai nuovi orizzonti della sostenibilità dello sviluppo e come la sicurezza del mezzo e della spedizione non siano valori in sé ma risultino obiettivi strumentali al fine primario della tutela della vita e dell’ambiente.
Occorre, allora, verificare se il valore, i princìpi, l’organizzazione che si desumono dalla disciplina della sicurezza marittima siano comuni a quelli intorno ai quali si costruisce il diritto del rischio.


… l’ordinamento amministrativo della navigazione si va progressivamente trasformando …


Sul piano del valore, è agevole rilevare che è proprio nel settore della navigazione marittima che ha origine una disciplina che dalla sicurezza della nave e del carico trasportato si è consolidata espandendosi progressivamente alla sicurezza della vita umana in mare e del mare stesso come prevenzione del rischio. È noto poi che il principio di precauzione si è affermato prima a livello di diritto internazionale del mare, così come la tutela dell’ambiente marino e la nuova dimensione del valore sicurezza che si costruisce secondo i parametri dettati dallo sviluppo economico dalla scienza della sostenibilità; sono dati, questi, ormai acquisiti dalla ricerca giuridica e sui quali non occorre indugiare oltre.
Sul piano organizzativo del governo della sicurezza marittima, poi, è possibile cogliere innovazioni che non pare siano riconducibili tutte alle speciali esigenze di protezione del fatto nautico: il mezzo, la vita umana in mare, l’ambiente marino, ma che discendono da più generali processi di trasformazione del nostro ordinamento nel contesto della integrazione europea.
L’ordinamento amministrativo della navigazione si va, infatti, progressivamente trasformando nell’organizzazione, nelle attribuzioni, nelle competenze, nei modelli organizzativi e procedimentali in conseguenza di politiche comunitarie e di azioni per attuarle, dirette al governo del rischio, o meglio in attuazione del diritto del rischio.
Le peculiarità del modello europeo del diritto (o governo) del rischio individuabili attraverso le tre correlate chiavi di lettura proposte: – il rapporto regolazione – funzione amministrativa, nuovi modelli di organizzazione amministrativa, il portato del principio di precauzione – si ravvisano chiaramente nella disciplina della sicurezza marittima e dell’ambiente nell’odierno assetto definito dagli interventi comunitari del pacchetto Erika III.


… il pacchetto Erika III è il risultato di una articolata politica europea … integra e definisce un quadro della normativa comunitaria tra i più avanzati al mondo in tema di sicurezza marittima …


Il pacchetto Erika III, composto da due regolamenti e sei direttive, adottato dall’Unione Europea nell’aprile 2009 (Direttiva 2009/15/CE del Parlamento e del Consiglio del 23 Aprile 2009), integra e definisce un quadro della normativa comunitaria tra i più avanzati al mondo in tema di sicurezza marittima. Il pacchetto comprende: la Direttiva 2009/15/Ce del Parlamento e del Consiglio del 23 aprile 2009, relativa alle disposizioni ed alle norme comuni per gli organismi che effettuano le ispezioni e le visite di controllo delle navi e per le pertinenti attività delle amministrazioni marittime (Testo rilevante ai fini del SEE), ed il Regolamento (CE) n. 391/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, in pari data, relativo alle disposizioni ed alle norme comuni per gli organismi che effettuano le ispezioni e le visite di controllo delle navi 8 rifusione) testo rilevante ai fini del SEE. La direttiva 2009/16/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009, relativa al controllo da parte dello Stato di approdo (Testo rilevante ai fini del SEE); la direttiva 2009/17/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009, recante modifica della direttiva 2002/59/Ce relativa all’istituzione di un sistema comunitario di monitoraggio del traffico navale e d’informazione (Testo rilevante ai fini del SEE); la direttiva 2009/18/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009, che stabilisce i princìpi fondamentali in materia di inchieste sugli incidenti nel settore del trasporto marittimo e che modifica la direttiva 1999/35/Cee del Consiglio e la direttiva 2002/59/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio (Testo rilevante ai fini del SEE); la direttiva 2009/20/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009, sull’assicurazione degli armatori per i crediti marittimi (Testo rilevante ai fini del SEE); la direttiva 2009/21/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio relativo al rispetto degli obblighi dello Stato di bandiera (Testo rilevante ai fine del SEE); il Regolamento Ce n. 392/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009, relativo alla responsabilità dei vettori che trasportano passeggeri via mare in caso di incidente (Testo rilevante ai fini del SEE).
Il pacchetto proposto nel 2005, con l’obiettivo di garantire le condizioni di concorrenza agli operatori che rispettano le norme internazionali, non risponde alle esigenze rilevate nell’immediatezza di un sinistro, come per i precedenti pacchetti Erika I e II, ma è il risultato di una articolata politica europea che tende alla creazione di uno spazio marittimo europeo nel mercato internazionale dello shipping.



Elda TURCO BULGHERINI




… le statistiche relative agli sbarchi avvenuti negli ultimi anni nell’area dello Stretto di Sicilia dimostrano come il fenomeno in questione sia purtroppo in netta crescita …


I flussi migratori illegali raggiungono via mare – attraverso il Canale di Sicilia – le coste siciliane, e in particolare Lampedusa (la maggiore delle isole Pelagie), partendo, oltre che dallo Stato “tradizionalmente” interessato da questo fenomeno – la Tunisia – anche dall’Algeria verso la Sardegna e dalla Libia il cui flusso, dopo la rimozione dell’embargo, sembrava diminuire. In realtà dal 2005 ad oggi i clandestini arrivati in Italia, presumibilmente partiti dalle coste libiche, sono più di 60.000 (dati del Ministero dell’Interno). Le statistiche relative agli sbarchi avvenuti negli ultimi anni nell’area dello Stretto di Sicilia dimostrano come il fenomeno in questione sia purtroppo in netta crescita. Ed invero, se nel biennio 2003-2004 si era assistito ad una diminuzione del fenomeno (si era passati dai 14.331 clandestini del 2003 ai 13.594, su un totale relativo alle coste nazionali di 13.635 del 2004), i dati relativi all’anno 2005 smentiscono tale tendenza decrescente, infatti nell’anno in questione sono stati 22.939 clandestini sbarcati sulle coste italiane (di cui 22.824 a Lampedusa e in Sicilia), ossia diecimila in più rispetto all’anno precedente. Il trend risulta confermato anche per l’anno 2006, in cui, su un totale di 22.016 clandestini sbarcati, ben 21.400 sono giunti sulle coste siciliane (di cui 18.476 a Lampedusa e Linosa). Al 30 settembre 2007 risultano sbarcati 15.000 clandestini.
Dopo oltre quattro anni di trattative il 29 dicembre 2007 il Ministro dell’Interno italiano ha firmato un Protocollo d’intesa finalizzato al contrasto dell’immigrazione clandestina ed alla lotta alla criminalità organizzata dedita allo sfruttamento del traffico di esseri umani, con le autorità di Tripoli che, a fronte di una serie di concessioni e finanziamenti, hanno consentito di effettuare operazioni di controllo, ricerca e salvataggio da parte di unità navali offerte dall’Italia con equipaggi misti nelle acque libiche (nel Protocollo un’autostrada dalla Tunisia in Egitto, lungo la costa libica e caserme per la polizia libica nonché l’erogazione di due milioni di euro dell’UE, di cui 700.000 italiani, per il progetto di rimpatrio volontario per gli extracomunitari entrati in Libia da paesi limitrofi). Si segnala, in merito alle operazioni in mare, la missione “Nautilus” che vede la Libia coinvolta in operazioni di pattugliamento congiunto nel Canale di Sicilia, a cui in cambio l’UE offre un sistema elettronico di controllo della frontiera sud con Niger, Chad e Sudan.
Sempre in tema di accordi volti al contrasto dell’immigrazione clandestina, un importante traguardo è rappresentato dagli accordi sottoscritti dallo Stato italiano con il governo albanese per attuare un dispositivo di vigilanza marittima finalizzato ad una maggiore collaborazione dei due governi nel contrasto del fenomeno. Tale modello di cooperazione è stato seguito nel recentissimo citato Protocollo d’intesa, firmato con la Libia il 29 dicembre 2007, che prevede un pattugliamento delle acque libiche effettuato da squadre miste italo-libiche su unità navali cedute dall’Italia.
Per quanto concerne l’Albania si fa riferimento, in particolare, a tre importanti intese: il Memorandum del 26 agosto 1991 e l’Accordo mediante scambio di lettere del 25 marzo 1997, relativo alla collaborazione nella prevenzione degli atti illeciti che ledono l’ordine giuridico nei due Paesi e l’immediato aiuto umanitario quando è messa a rischio la vita di coloro che tentano di lasciare l’Albania ed, infine, il Protocollo applicativo dell’Accordo, firmato il 2 aprile 1997, che autorizza le unità navali italiane a pattugliare le acque territoriali albanesi ed a procedere nelle acque internazionali ad inchieste di bandiera, fermo, visita e dirottamento del naviglio albanese.

… il quadro di riferimento giuridico che riguarda il traffico di clandestini via mare non può, quindi, prescindere dalla definizione giuridica di nave da guerra …


Sul piano normativo, l’Italia si è dotata di leggi e provvedimenti che disciplinano l’attività d’intervento in mare al fine di contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Tali norme attribuiscono ai diversi Corpi militari e di polizia dello Stato competenze e funzioni in base alla zona marittima d’intervento. Le suddette disposizioni, in particolare, disciplinano i poteri d’intervento attribuiti ai diversi mezzi navali (militari e da guerra) dello Stato: Marina Militare, Guardia Costiera, Guardia di Finanza ed Arma dei Carabinieri.
Ne consegue che il quadro di riferimento giuridico che riguarda il traffico di clandestini via mare non può, quindi, prescindere dalla definizione giuridica di nave da guerra quale species del più ampio genere di nave militare.
Controversa appare ancora oggi l’enumerazione degli indici di riconoscimento da cui far discendere per il naviglio delle Forze di polizia la qualifica di “nave da guerra”. Naturalmente la dizione rinvia alle disposizioni di diritto interno e internazionale al cui rispetto – soprattutto dopo la Convenzione di Montego Bay, ovvero Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 10.12.1982, entrata in vigore il 16.11.1994 ratificata con la l. 2.12.1994, n. 689, entrata in vigore in Italia il 12.2.1995, in GU n. 295 del 19.12.1994, SO n. 164 – soggiace il riconoscimento della qualificazione in parola.
Come detto, l’azione di contrasto del fenomeno viene organizzata da naviglio militare e da aeromobili militari, disciplinati da leggi e regolamenti militari. Le convenzioni internazionali – tra cui la citata Convenzione di Montego Bay – tendono a equiparare alle navi da guerra le navi pubbliche o di Stato non aventi una destinazione commerciale.


… non può negarsi che con tali importanti provvedimenti l’Italia è uscita da una lunga fase di gestione emergenziale del fenomeno dell’immigrazione clandestina …


In Italia, la prima vera regolamentazione organica di settore venne introdotta con la legge 28 febbraio 1990 n. 39 (c.d. “legge Martelli”) di “conversione in legge, con modificazioni del decreto-legge 30.12.1989 n. 416”, recante “norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolamentazione dei cittadini extracomunitari e apolidi già presenti nel territorio dello Stato”. Numerose le iniziative legislative da allora. Tra queste, la cosiddetta Legge “Bossi-Fini” (30 luglio 2002, n. 189, recante “modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”) ha, in particolare, inasprito sensibilmente le pene in caso di favoreggiamento dell’immigrazione, migliorato il coordinamento tra le forze impegnate a difesa delle coste e reso più efficace il meccanismo delle espulsioni, nell’intento di garantire un maggior livello di sicurezza. Tale legge offre un significativo contributo alla lotta all’immigrazione clandestina via mare. Con essa, infatti, ai sensi dell’art. 35 viene istituita, presso il Dipartimento della P.S., la Direzione Centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, con il compito di presiedere a tutte le attività relative al contrasto all’immigrazione clandestina, anche sul piano internazionale.
L’art. 10 della legge assegna alla suddetta «Direzione centrale», in via esclusiva, il coordinamento dell’azione di contrasto in mare ed il compito di acquisire e analizzare le informazioni connesse all’attività di vigilanza, prevenzione e contrasto dell’immigrazione clandestina via mare, nonché il raccordo degli interventi operativi effettuati dai mezzi della Marina Militare, dalle Forze di polizia (Polizia di Stato, Guardia di Finanza) e delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera.
Con successivo Decreto interministeriale del 14 luglio 2003, già citato, sono state fissate le “Disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina”, determinando altresì le modalità di intervento delle navi della Marina Militare e delle unità navali in servizio di polizia (in particolare Guardia di Finanza e Guardia Costiera). Alla luce delle disposizioni contenute in tale Decreto interministeriale, alla Marina Militare spetta il coordinamento tecnico-operativo dell’attività antimmigrazione nelle acque internazionali, in applicazione dell’art. 12 del T.U. 286/1992 (Legge Turco-Napolitano): in tal senso il legislatore sembra, quindi, avere riconosciuto che essa dispone di maggiori poteri d’intervento e più mezzi a disposizione per bloccare già nelle acque internazionali (art. 3) le imbarcazioni che trasportano clandestini; ciò, tuttavia, sempre nel rispetto dei presupposti d’intervento di cui alla normativa internazionale ed in particolare all’art. 110 della Convenzione di Montego Bay, ovvero l’inchiesta di bandiera, la visita a bordo ed il fermo. La Marina Militare, inoltre, grazie ai sistemi di comunicazione ad alta tecnologia, detiene importanti funzioni di sorveglianza, finalizzata alla localizzazione, identificazione (spesso con il concorso di mezzi aerei) ed al “tracciamento” dell’imbarcazione sospetta fino al limite delle acque territoriali, al fine di consegnarne il controllo alle altre unità navali in servizio di polizia (in particolare Guardia di Finanza e Guardia Costiera), le quali dispongono di prioritari poteri d’intervento nelle attività di vigilanza dell’immigrazione clandestina nelle acque suddette (art. 3).
In particolare, al Corpo delle Capitanerie di porto-Guardia Costiera spettano, in via esclusiva, e fatto comunque salvo il concorso delle altre Forze di polizia, le competenze riguardo al soccorso e alla salvaguardia della vita umana in mare (SAR – Search and Rescue). Queste funzioni sono state attribuite al Comando generale delle Capitanerie di Porto dal D.P.R. 28 settembre 1994, n. 662, che stabilisce anche i limiti delle zone circostanti la penisola sottoposte alla giurisdizione SAR nazionale. Nel corso della Conferenza IMO di Valencia del 1997 è stato approvato il General Agreement on a Provisional SAR Plan in cui sono delimitate le zone SAR del Mediterraneo.
Al Corpo della Guardia di Finanza spetta, in via prioritaria, l’esercizio dei poteri di polizia sia nelle acque territoriali sia in una “fascia di coordinamento” che si estende per 12 miglia oltre le acque territoriali.
In tal senso, del tutto peculiare è la previsione, introdotta al fine di rendere più efficace l’intervento delle Forze di polizia (art. 6) oltre le acque territoriali – nel caso intervengano mezzi appartenenti ad amministrazioni diverse – della suddetta “fascia di coordinamento”, definita, in maniera alquanto ambigua, “zona contigua”, nelle cui acque le attività navali finalizzate al contrasto dell’immigrazione clandestina sono coordinate dalla Guardia di Finanza. Una simile disposizione, almeno nel nostro Paese, solleva la ormai nota e delicata questione della determinazione della c.d. “zona contigua”; ciò in quanto la Convenzione di Montego Bay ha demandato ai singoli Stati la delimitazione della stessa, e l’Italia non si è, ancora ad oggi, adoperata a tal fine. Un simile stato di cose, com’è ovvio, comporta una situazione d’incertezza giuridica, non essendo rinvenibile alcuna normativa sul punto.
È stato rilevato come “la disposizione è, in realtà, meno ambigua di quanto possa apparire ad una prima lettura. Infatti, sembra potersi affermare che il legislatore, con l’uso della locuzione «area di mare internazionalmente definita come zona contigua», abbia solo voluto intendere un’area marittima la cui estensione è pari alla zona internazionalmente riconosciuta come zona contigua. In buona sostanza, tale disposizione non mira ad istituire ex novo la zona contigua, né tanto meno a riconoscere i poteri tipicamente esercibili nell’ambito spaziale della stessa, bensì intende individuare una zona che si potrebbe definire ‘convenzionale’ al solo fine di agevolare l’attività di coordinamento in materia di immigrazione clandestina”.
Tuttavia, non può negarsi che con tali importanti provvedimenti l’Italia è uscita da una lunga fase di gestione emergenziale del fenomeno dell’immigrazione clandestina, attraverso la previsione di vari livelli d’intervento: individuazione del funzionamento dei meccanismi di contrasto dell’immigrazione illegale via mare; tutela dei diritti dei migranti e rispetto della dignità della persona; salvaguardia della vita umana in mare messa a repentaglio dall’utilizzo di unità navali prive di qualunque standard di sicurezza ed, infine, prevenzione finalizzata al mantenimento dell’ordine pubblico interno (clandestini avviati verso attività illecite).
Tali norme delineano, quindi, il sistema italiano di controllo dei flussi migratori attraverso il rafforzamento dei controlli esterni, da un lato, promuovendo un inasprimento delle sanzioni per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e, dall’altro, un più efficace meccanismo delle espulsioni. Esse sanciscono, inoltre, il potenziamento dei controlli alla frontiera da realizzare anche mediante appositi accordi stipulati con gli Stati confinanti.


… si ribadisce l’importante compito di raccordo svolto dalla Direzione centrale della polizia dell’immigrazione e delle frontiere per gli interventi operativi in mare … l’importanza dei servizi di ricerca e soccorso (SAR) che fanno affidamento sulle navi per assistere coloro i quali si trovano in difficoltà in mare …


La Convenzione di Montego Bay all’art. 87 (“Libertà dell’alto mare”) sancisce la libertà di navigazione nelle acque internazionali o alto mare, contestualmente essa prevede la necessità di contrastare gravi condotte illecite, lesive di fondamentali beni giuridici universalmente riconosciuti, comportando un temperamento alla libertà di navigazione.
La citata norma assume un rilevante significato se rapportata all’art. 110 della stessa Convenzione; disposizione questa che prevede il diritto di visita, da parte di una nave da guerra in alto mare, nei confronti di una nave straniera qualora vi siano fondati motivi per sospettare che la nave sia impegnata:
1) in atti di pirateria;
2) nella tratta degli schiavi;
3) in trasmissioni abusive (radiodiffusione non autorizzata);
4) ovvero nel caso in cui la nave sia priva di nazionalità o rifiutando di esibire la bandiera, la nave sia sospettata di avere la stessa bandiera della nave da guerra.
In tali casi, la nave da guerra può procedere ad una verifica dei titoli che autorizzano l’uso della bandiera. Pertanto, un’imbarcazione al comando di un ufficiale può avvicinarsi alla nave sospetta e se, dopo la verifica dei documenti, permangono ancora i sospetti, la verifica può continuare a bordo della nave stessa, anche nei riguardi delle navi che esercitano un servizio pubblico. Occorre soggiungere che la Convenzione di Montego Bay consente che la nave sospetta sia condotta o costretta a far rotta verso un porto nazionale solo nell’ipotesi di pirateria o di mancanza di nazionalità. Più complessa ed incerta è l’indagine circa la formazione di una consuetudine generale che estenda l’imposizione al caso di trasporto di persone ridotte in schiavitù con l’assimilazione ulteriore – almeno in determinate ipotesi – al traffico di emigranti clandestini.
A ben vedere, nella suddetta elencazione delle fattispecie che caratterizzano il diritto di visita, manca quella relativa al traffico di clandestini, ovvero manca una norma giuridica (di diritto internazionale, consuetudinaria o pattizia) che qualifichi il traffico di migranti in alto mare come illecito internazionale o “crimen iuris gentium”, che, in quanto tale, sia perseguibile dalle navi da guerra di tutti gli Stati e che rientri in quella categoria di delitti particolarmente efferati (come, ad esempio, i delitti di matrice terroristica) nei confronti dei quali ogni Stato può – e in linea di principio deve – esercitare la propria potestà coercitiva e punitiva, anche oltre i limiti ad esso normalmente assegnati dal diritto internazionale.
Ne consegue che, alla luce della vigente normativa, il traffico di migranti non è, quindi, perseguibile ipso facto in alto mare dalle navi da guerra nell’ambito delle funzioni di polizia dell’alto mare (art. 110 Convenzione di Montego Bay); ciò in quanto, come anticipato, esse sono limitate alla pirateria, alla tratta degli schiavi, alle trasmissioni non autorizzate e al caso di navi che navigano prive di bandiera, ovvero, più in generale, alle ipotesi riconducibili ai crimini internazionali. Sicché, nonostante l’esistenza della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 e del c.d. Diritto di Ginevra, è opportuno approfondire il concetto di “schiavitù”, da intendere come perdita della capacità giuridica, proprio in ragione di una tutela – quella apprestata dall’art. 110 della Convenzione di Montego Bay – che si rivela insufficiente.
All’uopo, onde stabilire le modalità tecnico operative degli interventi in mare, ed in attuazione del suddetto Decreto interministeriale del 14 luglio 2003, è stato sottoscritto il 29 luglio 2004 – dai rappresentanti dell’Interno, della Marina Militare, della Guardia di Finanza e delle Capitanerie di porto – l’“Accordo tecnico operativo per gli interventi connessi con il fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare” che ha definito le modalità e le procedure di coordinamento per il contrasto dell’immigrazione clandestina via mare svolte dai mezzi aeronavali della Marina Militare, della Guardia di Finanza, del Corpo delle Capitanerie di porto-Guardia Costiera e della Polizia di Stato. Successivamente, tale Accordo è stato sostituito dal citato Accordo tecnico operativo del 14 settembre 2005 che ricalca il precedente, differendo da esso soltanto per avere disposto l’inserimento dell’Arma dei Carabinieri, tra i Corpi di polizia e le Forze Armate interessate all’attività di contrasto del fenomeno de quo.
In forza di tale intesa si ribadisce l’importante compito di raccordo svolto dalla Direzione centrale della polizia dell’immigrazione e delle frontiere per gli interventi operativi in mare, e per l’acquisizione e l’analisi delle informazioni connesse all’attività anti-immigrazione. Il suddetto Accordo d’intesa definisce le modalità e le procedure di coordinamento per il contrasto del traffico di clandestini svolto dai mezzi aeronavali delle suddette amministrazioni, ribadendo che le attività relative alla ricerca, soccorso, e salvataggio della vita umana in mare (SAR) sono di competenza primaria del Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera e trovano la loro disciplina comune nel “Piano nazionale per la ricerca e salvataggio in mare” (IMRCC 001 del 25 novembre 1996) del Comando Generale delle Capitanerie di Porto.
Sul punto giova evidenziare l’importanza dei servizi di ricerca e soccorso (SAR) che fanno affidamento sulle navi per assistere coloro i quali si trovano in difficoltà in mare; oggi, infatti, con l’ausilio delle tecniche di comunicazione satellitare e terrestri, le operazioni di soccorso possono essere organizzate in modo rapido e coordinato.
Sullo stretto legame tra attività umanitarie e di polizia, appare doveroso rilevare come, in molti casi, al termine dell’attività di soccorso si sia evidenziata la difficoltà ad ottenere il consenso di uno Stato allo sbarco delle persone soccorse, in particolare se prive di documenti d’identificazione. Per risolvere tale problema il Comitato per la Sicurezza Marittima dell’IMO (International Maritime Organisation) ha introdotto due importanti emendamenti (adottati nel maggio 2004 ed entrati in vigore il 1° luglio 2006) alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita umana in mare del 1974 (SOLAS) ed alla Convenzione sulla ricerca e soccorso in mare del 1979 (SAR).
Ai sensi di tali emendamenti gli Stati hanno l’obbligo di cooperare e coordinarsi tra loro al fine di assicurarsi che le persone soccorse vengano effettivamente assistite e fatte sbarcare nei porti di primo approdo, senza pregiudizio per le navi soccorritrici, evitando altresì che le navi siano obbligate ad effettuare deviazioni rispetto alla rotta prevista, con la conseguente perdita dei profitti economici da parte delle compagnie marittime e di assicurazione. Il timore, infatti, di rimanere bloccati nei porti di sbarco, in attesa di formalizzarne le modalità, ha determinato, in molti casi, una reticenza dei comandanti delle navi a rispondere agli appelli di soccorso in mare, malgrado sia previsto l’obbligo del comandante di prestare soccorso a chi si trovi in mare in condizioni di pericolo di vita (art. 98 Convenzione di Montego Bay e Capitolo V, Regolamento 33 della SOLAS). Si è, altresì, stabilito che le persone soccorse devono essere trasportate in luogo sicuro (place of safety) ed in tempi ragionevoli sotto la responsabilità dello Stato competente della regione SAR interessata.
Inoltre, in data 20 maggio 2004, il Comitato per la Sicurezza Marittima dell’IMO ha adottato una Risoluzione che contiene le Linee Guida per il trattamento delle persone salvate in mare che specificano alcuni punti dei citati emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR (definizione di luogo di sicurezza, questioni relative all’immigrazione ed asilo, ecc.). A tal fine, ritenendo necessario fornire delle direttive alle autorità di governo ed ai comandanti di nave, alle compagnie assicurative ed agli armatori, è stata redatta nel 2006 una pubblicazione “Soccorso in mare – Guida a principi e pratiche da applicarsi a migranti e rifugiati”, sotto l’egida dell’IMO e del UNHCR (The United Nations Refugee Agency), contenente linee guida su disposizioni normative e su procedure da seguire in caso di soccorso in mare al fine di assicurare un rapido sbarco delle persone.

… l’azione di contrasto non può da sola bastare a sconfiggere il fenomeno del traffico via mare di clandestini de quo ...


Dai dati di cui si dispone si presume che il fenomeno del traffico via mare di clandestini non esaurirà la propria spinta in modo spontaneo ed il nostro Paese dovrà fronteggiare tale fenomeno con fermezza e coerenza in base alla normativa vigente e intraprendendo le necessarie misure, nonché preventivando ulteriori sforzi in termini di risorse umane e finanziarie, nonché di impegno più efficace.
In tal senso, va sicuramente sollecitata una politica comunitaria più incisiva, a sostegno delle iniziative in corso, che porti ad un’azione univoca ed armonizzata nei confronti dell’immigrazione illegale.
In questo contesto, un ruolo trainante dovrà sicuramente essere ricoperto dall’Italia che, allo stato attuale, risulta uno degli Stati maggiormente coinvolti nel fenomeno in questione (in quanto frontiera esterna più vicina ai Paesi di origine del traffico illecito), anche per le innumerevoli possibilità di transito verso i Paesi dell’Europa centrale.
Naturalmente l’azione di contrasto – a parte l’esigenza di riconoscere a chi ne ha il diritto lo status di rifugiato accelerando la procedura e predisponendo la realizzazione dei centri d’accoglienza – non può da sola bastare a sconfiggere il fenomeno de quo.
Per far sì che il traffico di clandestini via mare possa ridimensionarsi, in ambito UE è stata altresì definita un’azione comune sulla politica dell’immigrazione in Europa che porta a costituire una “Schengen del mare” tra Italia, Spagna e Francia al fine di contrastare tale fenomeno, proponendo, tra l’altro all’UE di destinare il 3% delle sue risorse al controllo delle frontiere ed agli aiuti ai Paesi di origine dei clandestini.
In tal senso, tuttavia, anche lo sforzo dell’UE, da solo, può non essere sufficiente. Occorre – così come l’Italia ha già stabilito con alcuni Paesi – procedere ad azioni di sviluppo nei Paesi d’origine e d’integrazione bilanciata nell’ambito dei Paesi dell’UE; tale indirizzo, va sostenuto anche se le decisioni in ambito europeo stentano a decollare sia per insufficienza di fondi, sia per mancanza di una precisa volontà politica su un tema che presenta risvolti molto complessi: da quelli della sicurezza e dell’ordine pubblico a quelli di carattere economico e di solidarietà.



Alberto NEGRI



…i pirati somali, che già trovano sostegno nei porti yemeniti, venivano incoraggiati a insistere negli attacchi alle petroliere e alle navi da carico …


Il guardiano del Golfo di Aden è il generale Ali Ahmad Rassa. Comanda la Guardia Costiera yemenita, una flotta che conta soltanto nove motovedette, inadeguata a tenere sotto controllo le acque territoriali: “Ne servirebbero almeno altre venti”, diceva sconsolato in un’intervista del dicembre scorso a Sana’a. Il generale è il primo a essere preoccupato dalla minaccia di Al-Qaeda di voler prendere il controllo di Bab el-Mandeb, dove passano circa tre milioni di barili di petrolio al giorno, un braccio di mare di venti miglia, nel punto più stretto del Mar Rosso tra le sponde del Corno d’Africa e lo Yemen, infestato dai pirati somali e dai traffici delle guerriglie islamiche.
Bab el-Mandeb, in arabo “la Porta della Lamentazione”, è uno degli obiettivi di Al-Qaeda che in un messaggio audio diramato in febbraio su internet chiamava i musulmani al Jihad contro i cristiani e gli ebrei: “Non c’è altra via d’uscita che attaccare ovunque gli interessi americani e crociati. Prendere il controllo di Bab el-Mandeb costituirà una vittoria eclatante per l’Islam: una morsa si chiuderà intorno agli ebrei, perché attraverso lo Stretto l’America porta loro il suo appoggio a Israele”. Si ringraziavano poi gli Shebaab, gli integralisti islamici della Somalia, per aver proposto l’invio di rinforzi. Il comunicato era firmato da Said al-Shihri, ex detenuto saudita di Guantanamo rilasciato tre anni fa, che nel gennaio 2009 aveva partecipato alla fondazione di “Al-Qaeda on the Arabian Peninsula” (Aqap), capeggiata da Nasser al-Wahayshi, terrorista yemenita che fu segretario di Bin Laden. Entrambi – il leader e il suo vice – erano stati dati per morti o catturati dalle forze yemenite.
Che senso aveva il comunicato, che citava anche la conferenza di Londra sullo Yemen? Il primo messaggio era diretto all’interno, ai seguaci, per affermare che la leadership è ancora viva nonostante i raid aerei yemeniti e americani. Il secondo messaggio era rivolto all’esterno: Al-Qaeda confermava di voler destabilizzare l’intera regione. Per Bin Laden lo Yemen è una scelta strategica dettata da tre ragioni. Primo: il paese, in difficoltà per la guerriglia Huti nel nord e le spinte separatiste del sud, mette l’organizzazione a diretto contatto con una popolazione giovane, impoverita, vulnerabile alla predicazione degli imam radicali; secondo: le basi in Yemen consentono le infiltrazioni in territorio saudita; terzo: Bab el-Mandeb facilita gli scambi di uomini e armi con le guerriglie del Corno d’Africa.
Quali potevano essere le conseguenze di queste minacce nello Stretto? I pirati somali, che già trovano sostegno nei porti yemeniti, venivano incoraggiati a insistere negli attacchi alle petroliere e alle navi da carico. In Yemen tra l’altro ci sono circa un milione di profughi somali che godono dello status di rifugiato. La flotta internazionale che solca il Mar Rosso può dare una certa garanzia che
Al-Qaeda non si impadronirà dello Stretto ma la stabilità dello Yemen passa dalla sorveglianza delle coste e delle acque territoriali.


… ringrazio la cooperazione italiana … ma la presenza internazionale è ancora troppo limitata …


“Ringrazio la cooperazione italiana per avere fornito i radar della Selex e il personale per il training della Guardia Costiera»“, ci diceva il generale Rassa. “Ma la presenza internazionale è ancora troppo limitata: finora si è parlato molto e si è fatto poco”. Anche per il generale Rassa Bab el-Mandeb è la porta della lamentazione e, qualche mese dopo, altri fatti confermavano le sue preoccupazioni, ma anche la vulnerabilità dell’apparato di sicurezza yemenita in difficoltà non soltanto a controllare le acque territoriali ma anche il porto più grande e strategico del Paese, Aden.
Il 19 giugno scorso alla fonda nel Golfo di Aden c’erano le navi da guerra di una ventina di grandi nazioni. Sventolavano bandiere americane, russe e cinesi davanti al passaggio delle petroliere mentre nei silos di acciaio e cemento sono custodite le riserve strategiche della marina di Washington. Fu qui che il 12 ottobre del 2000 Al-Qaeda, durante una sosta per rifornimento, squarciò la fiancata dell’incrociatore Usa Cole uccidendo 17 marinai. Da questo porto, circondato dalle creste di un cratere vulcanico, capitani e marinai di una grande armata internazionale quel 19 giugno hanno visto alzarsi colonne di fumo e sentito da vicino le raffiche di mitra e le esplosioni delle granate che si levavano dalla sede dei servizi segreti, un edificio basso e squadrato, ben segnalato dalle antenne della vicina tv di stato.
Alla cerimonia dell’alzabandiera, Al-Qaeda, forse sostenuta dalla guerriglia separatista, aveva scatenato un attacco spettacolare e mortalmente efficace contro il quartier generale degli 007: una decina di morti, forse undici, mentre decine di prigionieri, sospettati di appartenere alla rete di Osama Bin Laden, venivano liberati dopo un paio d’ore di battaglia furibonda dalle sequenze confuse come le testimonianze sugli eventi rilasciate dalla polizia locale. Incrociatori potenti e fregate luccicanti, radunate per combattere la pirateria somala nel Mar Rosso, restavano forzatamente immobili nell’azzurro del Golfo, a lucidare il ponte e l’artiglieria, scrutando l’orizzonte di una battaglia che si svolgeva a ottocento metri dalla tolda.
Il colpo di mano di Aden del 19 giugno è venuto due giorni dopo che l’organizzazione Al-Qaeda nella Penisola Araba aveva lanciato un appello alle tribù orientali a sollevarsi per rispondere a un’offensiva anti-terrorismo nella provincia di Maarib, minacciando di “dare fuoco alla terra sotto i piedi” del presidente Ali Abdallah Saleh. Per la verità più di una metafora: qaedisti e tribù hanno fatto saltare di recente una pipeline vitale per le esportazioni petrolifere dello Yemen che in un anno sono quasi raddoppiate.


… lo Yemen è la guerra di domani …


“L’Iraq è la guerra di ieri, l’Afghanistan la guerra di oggi, lo Yemen quella di domani”, aveva dichiarato il senatore Joe Lieberman, Presidente della Commissione Sicurezza Interna Americana, che si è recato a Sana’a nel 2009, quando la capitale è diventata meta frequente delle alte sfere di Washington, compreso il generale David Petraeus, allora comandante in capo del Centcom prima di sostituire McChrystal in Afghanistan. È stato proprio Petraeus a decidere di espandere anche in Yemen le attività clandestine delle forze speciali con l’obiettivo di distruggere Al-Qaeda. Commando americani e velivoli senza pilota, i droni, sono entrati in azione dopo il fallito attentato del Natale scorso al Boeing della Northwest portato dal giovane Umar Faruk Abdulmutallah. A una di queste operazioni è sopravvissuto Anwar al Alawqi, musulmano del New Mexico, il primo cittadino americano inserito nella lista delle persone che la Cia è autorizzata a uccidere. L’emiro americano è considerato l’ispiratore di Umar Faruk ma anche il méntore del maggiore americano Nidal Hasan, l’autore della strage di Fort Hood.
Al-Qaeda si è inserita perfettamente nella crisi dello Yemen, terra d’origine della famiglia Bin Laden, perché qui vantava da tempo una presenza importante. Sembra che lo stesso Presidente Saleh si fosse servito dei qaedisti per reprimere i tentativi di secessione e avesse utilizzato gli estremisti sunniti per contrapporli alla rivolta sciita del Nord. Dopo l’11 settembre 2001 Saleh si è schierato con gli Usa ma la battaglia contro Al-Qaeda è sempre stata esitante. L’ascesa dell’ala yemenita è stata favorita dalla presenza di Imam simpatizzanti di Bin Laden e dai vantaggi strategici colti benissimo dalla propaganda di Al-Qaeda: la guerra dello Yemen e nelle acque di Bab el Mandeb non è una battaglia di domani, come pensava il senatore Lieberman, ma drammaticamente di oggi.



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