Quest’anno, il 2010, ricorre il decennale della Convenzione ONU contro la criminalità organizzata transnazionale, chiamata Convenzione di Palermo dalla città in cui fu firmata e che fece assurgere la lotta alla criminalità organizzata al livello più alto politico.
Tra i punti chiave essa ha certamente i seguenti: la necessità di individuare il concetto di gruppo criminale organizzato; la necessità di creare norme processuali idonee a combattere un fenomeno criminale complesso, con una molteplicità di attività illecite e con diffusione in vari Paesi; e infine la necessità di una forte e decisa collaborazione giudiziaria nazionale e internazionale.
Quando, nel 1994, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Dichiarazione della Conferenza Ministeriale di Napoli e stabilì di considerare in via prioritaria la questione di elaborare una convenzione internazionale contro la criminalità organizzata, prese atto che questo fenomeno non interessava più solo la politica interna degli Stati, ma era tale da mettere in pericolo la loro stessa sicurezza: era quindi una rilevante questione politica internazionale che richiedeva una risposta internazionalmente concreta.
Non è stato facile raggiungere questo obbiettivo.
E, forse, non si è lontani dal vero nel ritenere che le allarmanti informazioni che provenivano dall’Est europeo dopo la caduta dell’Unione Sovietica, siano state determinanti per spingere Stati fino ad allora contrari ad ipotizzare la punibilità della partecipazione a una organizzazione criminale, a mutare opinione e quindi ad avvicinarsi alla tradizione dei Paesi latini che già conoscevano, in varie forme, il reato associativo.
Nel corso dei lavori preparatori della Convenzione, che si tenevano presso l’Ufficio delle Nazioni Unite a Vienna, ai quali partecipai quale membro della Delegazione italiana, emerse che molti princìpi, poi accolti nella Convenzione, si trovavano già nella legislazione italiana, spesso ispirati proprio da Giovanni Falcone.
Ed è in effetti al ricordo di Falcone e Borsellino e del loro lavoro in questo peculiare settore della collaborazione tra Uffici che, in Italia e all’estero, hanno il compito delle indagini contro la criminalità organizzata, che mi pare giusto legare quel salto di qualità.
Le recenti indagini di varie Procure che tentano di svelare i retroscena delle stragi che posero fine solo alla loro vita fisica, mi hanno fatto prepotentemente affiorare i ricordi del momento in cui cominciò la loro e la nostra avventura e che credo utile raccontare, per la prima volta, perché si possa cogliere quale enorme differenza vi sia tra gli strumenti investigativi di cui allora si disponeva e quelli di oggi.
Anche ai colleghi che affrontano gravi e complesse indagini in campo nazionale e internazionale, non è facile percepire quale concretamente era lo stato artigianale con il quale allora si affrontava il fenomeno mafia e quindi quale e quanta innovazione è stata apportata che, a sua volta, ha determinato fondamentali innovazioni legislative.
Con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ho trascorso tanti anni e tante vicissitudini quale Sostituto alla Procura di Palermo, mentre loro erano Giudici Istruttori, figura ora scomparsa con il nuovo Codice di rito.
Dal punto di vista strettamente professionale ho lavorato quasi esclusivamente con Falcone, sin dai primi grandi processi contro la mafia siciliana e i suoi collegamenti internazionali (1980) e fin quando andò al Ministero della Giustizia; con Paolo Borsellino in alcune fasi delle indagini sul c.d. processo per gli omicidi di politici (Mattarella, Reina, La Torre) fin quando si trasferì a Marsala nel 1986 e quando poi tornò a Palermo fino al giorno della strage. Con lui, al di là del lavoro, ho avuto un rapporto personale di grande affettuosità.
Ricordarli è rivivere esperienze importanti, professionali e umane, che ci hanno segnato profondamente, e il primo pensiero, che ogni volta affiora, non può non essere legato alla loro tragica fine.
Il giorno della strage di via D’Amelio, mi trovavo a Washington perché ero Pubblico Ministero in un processo che il Tribunale di Palermo celebrava in quella città contro esponenti di primissimo piano della mafia siciliana e dei cartelli colombiani per l’arrivo in Sicilia di 600 kg di cocaina.
All’udienza, commemorando Paolo, ricordai la famosa frase del Presidente Kennedy: “non chiedete quello che l’America può fare per voi ma quello che voi potete fare per l’America” e conclusi che lui aveva agito e aveva speso la sua vita dimostrando quello che si poteva fare per il proprio Paese.
Pochi mesi prima, in una terribile notte del maggio ‘92, mi trovai con Paolo, da soli e per alcuni minuti, all’obitorio davanti alla salma di Giovanni Falcone. Rimanemmo in un silenzio profondo e lunghissimo ed ebbi poi la sensazione che in quei momenti Paolo si era sentito investito di una responsabilità ancora più grande di quella che aveva vissuto fin allora.
La frase di Kennedy bene si addice a entrambi che per tutta la vita hanno dato testimonianza di quanto ciascuno di noi può incidere profondamente nell’attività che svolge, migliorando e innovando gli strumenti di cui dispone, agendo con tenacia forse anche con caparbietà per riuscire a raggiungere obiettivi fino allora ritenuti impensabili.
1. Tenacia e caparbietà sono forse i concetti giusti per indicare in che modo Falcone volle raggiungere un obbiettivo ritenuto quasi impossibile, quello cioè di conoscere prima e contrastare poi il fenomeno criminale “Cosa nostra”.
Cercherò di fissare i ricordi al momento in cui questo modo nuovo di svolgere le indagini iniziò e per le quali Falcone è stato decisamente un geniale apripista.
Nel maggio 1980 prendevano avvio, presso la Procura di Palermo, tre grandi processi di mafia che, per varie circostanze, furono a me affidati dal Procuratore Costa e che, dopo i primi atti, passarono all’Ufficio del Giudice Istruttore e vennero assegnati a Giovanni Falcone.
La figura del “Giudice Falcone” e quello che era destinato a diventare “il metodo Falcone” nacquero allora.
Venne completamente capovolto il precedente metodo di indagine; il Giudice anziché limitarsi a verificare il lavoro svolto dalle Forze di Polizia che, nel sistema del vecchio codice di procedura, redigevano un rapporto sulle attività svolte, volle direttamente assumere le investigazioni, compiendo personalmente tanti atti o delegandone altri, ma singolarmente e specificamente e non più in via generale. Ma sopratutto assumendo una visione unitaria della mafia, mai prima considerata.
I tre processi cui ho accennato sono quasi l’antefatto del “maxi processo” che nascerà quattro anni dopo soprattutto con le dichiarazioni di Buscetta; ad essi altri se ne aggiungeranno e insieme ci daranno una straordinaria quantità di informazioni molte delle quali saranno i riscontri “ante litteram” alle successive dichiarazioni dei primi pentiti.
Ma essi non avrebbero avuto l’importanza che ebbero se non fossero stati visti come parte di un tutto, come attività diverse ma tutte riconducibili alla unicità della mafia. Il primo processo (contro Spatola Rosario + 120 imputati) riguardava una pluralità di fatti: rapporti tra la mafia siciliana e quella che allora sembrava la mafia americana, numerosi episodi di traffico di eroina tra i due gruppi, sequestro a New York di Sindona e sua ricomparsa.
Il secondo processo (contro Gerlando Alberti e altri) era iniziato con l’arrivo a Palermo, segnalato dalla Polizia francese, di tre chimici marsigliesi, seguendo i quali è stato scoperto, con sorpresa come si dirà, un laboratorio di eroina.
Il terzo processo (contro Mafara Francesco e altri) aveva avuto origine con l’arresto all’aeroporto Fiumicino di Roma di un belga che trasportava 8 kg di eroina da New York a Palermo (e non viceversa!).
I vari fatti a una prima lettura sembravano commessi da gruppi criminali distinti seppure certamente di mafia; nessun nome era comune alle tre indagini e nessun elemento le collegava direttamente.
Avevano invece in comune una particolarità: tutti avevano per oggetto il traffico di eroina e collegamenti con l’estero, nel senso che i fatti oggetto di indagine si erano verificati parte a Palermo, o comunque in Italia, e parte all’estero.
2. Falcone applicò subito il suo metodo il cui primo pilastro era appunto il principio da lui sempre creduto della unicità della mafia.
Egli fu certamente il primo a intuire che la mafia era un organismo unitario e che le sue varie e articolate attività criminali, anche se compiute in luoghi diversi e lontani da Palermo, non appartenevano a gruppi autonomi ma erano sempre riconducibili ad un’unica entità.
Conseguenza pratica di questo principio era però che tutte le indagini che dimostravano l’esistenza di “Cosa nostra” dovevano essere accentrate a Palermo che di quella entità era la sua sede naturale.
A quel tempo questo principio non era affatto scontato e anche molti di noi, e lo stesso Paolo Borsellino, non sempre erano d’accordo o ritenevano che, quantomeno, non vi fossero prove sufficienti di questa unicità e che pertanto non era possibile sviluppare a Palermo tutte le inchieste di mafia.
Falcone contrastò vivamente il principio della c.d. germinazione spontanea, come se un gruppo di mafia potesse sorgere spontaneamente a Roma o Milano indipendentemente dalla terra madre che era certamente Palermo.
Su questo come su altri punti, prima e dopo l’apparizione di Buscetta come pentito, vi furono discussioni e anche contrasti tra i colleghi che nel tempo furono chiamati a seguire altri processi e a far parte di quel “pool” che costituì l’inizio di un lavoro collegiale nelle indagini di mafia; ma credo di potere affermare che da queste discussioni nacque non solo un forte legame ma soprattutto si sviluppò un modo nuovo di indagare e furono “inventate” metodologie e prassi spesso nell’assenza di norme per affrontare aspetti della realtà mafiosa prima sconosciuti.
Un forte legame si strinse anche con quanti della Polizia Giudiziaria lavorarono con noi e condivisero, con impegno e slancio, la nuova sfida; Polizia di Stato e Guardia di Finanza riuscirono a trovare le risorse necessarie per seguire contemporaneamente le varie fasi dei tre processi.
Già il primo di essi fornì elementi importanti per dimostrare l’unicità della mafia. Esso aveva numerosi imputati e tra costoro erano intercorse tantissime telefonate sia a Palermo che tra qui e New York ed erano segnalate diverse spedizioni di pacchi a familiari o parenti residenti in America.
Per cercare di comprendere le relazioni tra di loro pensai di inserire ciascun nome che man mano emergeva in una sorta di albero genealogico sull’esempio di quanto si apprende nei libri di storia sulle Case regnanti e fu così che venne fatta una scoperta spettacolare e sorprendente. Quattro famiglie avevano legato i loro rapporti con matrimoni incrociati e con il legame del comparatico (che in Sicilia equivale ad un rapporto di parentela), così da creare un gruppo di potere solidissimo su base strettamente familiare; in più questo gruppo si era diviso, uno operava a Palermo e uno a New York: i rispettivi vertici erano Salvatore Inzerillo e John Gambino.
Erano loro due a monopolizzare a quel tempo il traffico di eroina e furono gli stessi a organizzare il finto sequestro di Sindona che infatti si scoprì essere stato a Palermo ospite di Spatola, cugino di entrambi.
Anche la DEA americana si interessò a scoprire i rapporti di parentela tra gli imputati in Italia e in America; ce ne rendemmo conto un giorno, visitando l’Ambasciata USA a Roma, dove un agente, utilizzando un grande tabellone elettronico, lavorava sugli stessi nomi. Ci dissero che si trattava di un analista, chiamato espressamente dal Minnesota per realizzare l’albero genealogico che io creavo su fogli senza nessun aiuto tecnologico!
Era essenziale, nel processo, dimostrare l’esistenza di un traffico costante di eroina tra Palermo e New York: ciò fu possibile sia con il sequestro tanto in Italia che negli USA di varie partite di stupefacenti, sia con la collaborazione di un infiltrato della DEA all’interno della famiglia Gambino, sia ancora con le indagini parallele condotte negli Stati Uniti.
Pur davanti ai molti casi di traffico di droga tra Palermo e gli Stati Uniti che nel frattempo emergevano da questa e da altre indagini (ricordo che il volo Alitalia diretto fu chiamato “mafia line”) tuttavia non sapevamo da dove questa sostanza provenisse.
Questa conoscenza la ottenemmo dagli altri due procedimenti sopra indicati che da un lato ci fecero chiudere il ciclo completo del traffico di eroina e dall’altro rafforzarono il convincimento che esso era da addebitare allo stesso gruppo criminale.
In realtà i tre processi procedevano in parallelo e mentre Falcone aveva iniziato a sviluppare le indagini del processo Spatola, cominciai a seguire direttamente le prime fasi del secondo processo appena iniziato in Procura: quello che riguardava i tre chimici francesi inviati a Palermo dall’allora fiorente “clan dei marsigliesi”, e che tendeva a individuare i contatti dei tre stranieri non conoscendo noi ancora lo scopo del loro arrivo.
Fu anzitutto individuato l’albergo dove essi avevano preso alloggio e sottoposte a intercettazione le telefonate a loro dirette; i tre, con l’aiuto del gestore dell’albergo (che pagò con la vita la sua collaborazione con la Giustizia) furono costantemente controllati all’interno del locale, pedinati e inseguiti nei numerosi spostamenti a Palermo e paesi vicini. Quando si ebbe un quadro complessivo delle informazioni, si decise di intervenire e grande fu lo stupore, mio e di tutti, quando la polizia comunicò che era stato trovato il primo laboratorio di eroina nei pressi di Trabia.
A quel tempo non sapevamo neppure in che cosa esattamente dovesse consistere un laboratorio di eroina.
Trovammo una piccola villetta di poche stanze e all’interno morfina base, acidi, alambicchi e altro materiale necessario per la lavorazione. Per ottenere l’eroina serve molta acqua e molta energia elettrica: scoprimmo che l’acqua era prelevata da un pozzo vicino e l’elettricità veniva rubata dalla rete pubblica.
Emisi, come allora il P.M. poteva fare, ordine di cattura per le persone che trovammo, tra cui i tre chimici e Gerlando Alberti.
Fu una scoperta sensazionale.
La mafia era tanto sicura del controllo del territorio da impiantare in luoghi abitati proprio i laboratori per la produzione di eroina; successivamente altri due ne scoprimmo in piena città.
Nelle ulteriori fasi dell’indagine fu accertato che l’eroina era prodotta ad un grado elevatissimo di purezza (quasi al 98%) ed era destinata tutta all’esportazione negli Stati Uniti; quella che veniva consumata in Italia proveniva invece da Paesi orientali ed era di qualità molto inferiore.
Nel terzo processo, con l’arresto di Gillet all’aeroporto di Roma con 8 kg di eroina proveniente da New York, entrarono in scena tre persone (due belgi e uno svizzero) che – non essendo mafiosi ma solo assoldati dalla mafia per compiere atti per i quali essa non aveva Know how – una volta scoperti non ebbero difficoltà a rivelare di essere stati incaricati di reperire in Medio Oriente e segnatamente in Turchia e in Libano (valle della Bekaa) la morfina base e portarla a Palermo; in alcuni casi avevano trasportato l’eroina qui prodotta, in America, in altri avevano riportato a Palermo ingenti quantità di dollari frutto della vendita della droga.
I tre (Gillet, Barbè, Charlier) si possono considerare i primi pentiti ante litteram e ricordo ancora la nostra quasi incredulità davanti a rivelazioni a quel tempo inaspettate e che certamente aprivano scenari sensazionali.
Il ciclo del traffico della droga era quindi venuto alla luce e i tre processi, pur restando separati per tutte le fasi del giudizio, ci diedero quelle informazioni che successivamente saranno chiarite da Buscetta sia in ordine alla gestione del traffico di stupefacenti che alla composizione unitaria della mafia.
Quella esperienza è stata per me fondamentale, sia nella fase istruttoria che in quella dibattimentale.
Durante gli interrogatori di tutti gli imputati, condannati poi tutti a gravi pene, emerse un altro aspetto del metodo Falcone: l’assoluta correttezza nel porre le domande e trascrivere (direttamente e a mano) le risposte. Mai (anche davanti ai successivi grandi pentiti di mafia) Falcone chiese se Tizio o Caio appartenevano alla mafia o avevano commesso reati o anche semplicemente se erano conosciuti dal dichiarante. Le domande erano tese ad approfondire fatti o responsabilità di persone di cui il dichiarante aveva già parlato; non cercavano mai di suggestionare l’interrogato. Il rapporto cui sempre ho assistito, era assolutamente professionale anche se improntato spesso a momenti di attenzione personale come quando, in occasione dell’omicidio di Salvatore Inzerillo, facemmo le condoglianze al cugino Rosario Spatola nel successivo interrogatorio.
Se posso dire, noi anche davanti ad autori di stragi o comunque di delitti efferati, non avevamo emozioni: ci sentivamo lo Stato che amministra giustizia.
3. Il secondo pilastro del “metodo Falcone” era quello relativo alle indagini bancarie e patrimoniali.
Certamente anche in passato queste indagini erano state esperite (ad es. quelle seguite all’omicidio Di Cristina) ma mai in modo così ampio e certosino, spulciando ogni singolo assegno emesso o versato dagli imputati e cercando di ognuno la causale. Giovanni in questo aveva una perseveranza e uno scrupolo quasi maniacale: grazie a questo scrupolo si è avuta la scoperta che una intera agenzia della CRAM (Cassa Rurale e Artigiana di Monreale), con sede a Boccadifalco, serviva gli interessi della famiglia Inzerillo, si sono dimostrati collegamenti del gruppo Inzerillo-Spatola con personaggi calabresi e napoletani implicati nel contrabbando di sigarette (cui anche Inzerillo era dedito), si sono individuati rapporti con enti e società che da una parte introitavano denaro di provenienza illecita e dall’altra producevano ulteriore ricchezza.
Particolarmente interessante è stato verificare che parte dei proventi della vendita dell’eroina in America tornava a Palermo e finiva nell’impresa edile di Rosario Spatola e nell’azienda di Leonardo Greco a Bagheria.
Anche questa scoperta è stata l’antefatto dell’altra di maggiore ampiezza avvenuta qualche anno più tardi nel corso dell’operazione chiamata “Pizza connection” sempre tra Palermo e gli Stati Uniti, poi confluita nel maxi processo.
Essa è stata di grandissima importanza. Come unico P.M. del processo, seguii tutte le fasi preliminari dell’indagine che aveva numerosi imputati, tra i quali Gaetano Badalamenti e Tommaso Buscetta (in quel momento residenti rispettivamente in Spagna e in Brasile mentre la gran parte si trovavano negli Stati Uniti) e il 16 aprile 1984 emisi ordine di cattura, eseguito nei vari Paesi interessati.
L’indagine provò che l’eroina prodotta a Palermo veniva venduta nelle pizzerie in molte città degli Stati Uniti e il ricavato, attraverso numerosi passaggi in varie banche di diversi Paesi, serviva sia a dare inizio ad un nuovo ciclo del traffico che ad investire in operazioni immobiliari.
Dopo l’arresto in Brasile, Tommaso Buscetta iniziò la sua collaborazione con Giovanni Falcone.
Quell’operazione ci consentì di conoscere la legislazione degli Stati Uniti sulla protezione dei testimoni (caso Amendolito) e di prendere contatti con le Autorità di altri Paesi attraverso cui quel denaro transitava senza incontrare particolari difficoltà e dove vigeva il segreto bancario.
L’indagine bancaria, quindi, portata in parallelo con quella che chiamerei tradizionale, è stata fondamentale per l’accertamento delle responsabilità e ci ha ancora dimostrato come le varie e diverse attività facevano sempre capo ad un’unica organizzazione criminale.
Con il valido aiuto di tutte le Forze di Polizia, in mancanza di una banca dati, venne realizzato un sistema semplice ma sicuramente efficace di raccolta e catalogazione di ogni tipo di informazione, di ogni elemento di natura economico-finanziaria, di ogni correlazione tra fatti e persone per ciascun singolo imputato.
A partire da quegli anni, e poi sempre, lo S.C.O. della Polizia di Stato, guidato da funzionari quali De Gennaro, Manganelli e Pansa, sviluppò un eccezionale lavoro in Italia e all’estero, che diede definitivamente corpo alle intuizioni di Falcone, “inventò” le modalità per la gestione dei primi pentiti – quando ancora nessuna norma amministrativa prevedeva come metterli in sicurezza e come provvedere anche alle necessarie piccole spese (ricordo qui i casi di Francesco Marino Mannoia e di Antonino Calderone, arrestato a Marsiglia) – intensificò i rapporti con le Polizie straniere.
4. Il terzo pilastro del metodo era quello della collaborazione giudiziaria nazionale e internazionale, allora pochissimo sviluppata.
Falcone intuì subito che la mafia aveva ormai allargato i suoi tentacoli anche in altre zone d’Italia e addirittura all’estero, per cui anche lì, bisognava cercare le prove per i nostri processi: e il metodo richiedeva il sacrificio personale di andare a cercarle.
I primi contatti (cui molti altri se ne aggiunsero) furono stabiliti con l’A.G. di Milano nell’ambito del processo Spatola perché in quella città era stato sequestrato il più ingente quantitativo di droga (40 kg) che, partito da Palermo, era stato fatto transitare da Milano per eludere i controlli agli aeroporti di Palermo e Roma.
L’A.G. di Palermo a quel tempo non aveva buona fama. L’insuccesso di tanti processi a causa di una evidente lacunosità delle indagini, suscitava diffidenza in altri Uffici; figurarsi quindi cosa hanno pensato i colleghi di Milano quando ci presentammo a loro per chiedere che quel carico di eroina venisse trasmesso a Palermo per competenza!
Ricordo ancora (e non me ne voglia) l’allora Giudice Istruttore Pizzi che era ben deciso a rifiutare le nostre richieste.
Ma Falcone lo convinse e da allora con Milano si istaurò un clima di reciproca fiducia che consentì di iniziare una stagione nuova e diversa di proficua collaborazione che non aveva precedenti.
Altro caso di completa collaborazione nello stesso processo fu quello relativo al ricordato caso Sindona, che a Milano era seguito in particolare dai colleghi della Procura Colombo e Turone: dall’incrocio degli accertamenti effettuati dai due uffici giudiziari fu possibile ricostruire completamente il percorso di Sindona dall’America in Italia e ritorno, alcuni dei suoi incontri e addirittura, con le dichiarazioni rese a Falcone da Miceli Crimi, il suo ferimento compiacente compiuto da quest’ultimo. Analoga attività fu svolta prima con gli Stati Uniti, poi con il Canada e in seguito con tanti Paesi europei ed extraeuropei.
5. Ci recammo la prima volta a New York nell’ambito del processo Spatola nel dicembre 1980.
Tante volte in seguito ricordammo con Falcone quel primo viaggio: andavamo nell’ufficio dell’Attorney Federale Rudolph Giuliani ed eravamo due signor nessuno che chiedevano collaborazione agli Stati Uniti!
Non vi erano trattati tra i nostri Paesi, non vi erano precedenti significativi, non avevamo se non la formale autorizzazione alla missione, e previ contatti attraverso la Polizia dei due Paesi.
Il primo impatto con quell’ufficio e con la DEA fu per noi carico di sorprese. Certamente fummo accolti con cortesia e certamente fummo studiati: in fondo chiedevamo informazioni e atti istruttori nei confronti di persone di spicco della mafia italo-americana, ma quello che però ci colpì (ricordarlo oggi fa quasi sorridere) fu la scoperta del computer!
Io non l’avevo ancora visto direttamente pur se ne conoscevo le poten-
zialità.
Quando ci sedemmo a discutere, noi aprimmo i nostri quaderni e le nostre agende nelle quali segnavamo i nomi degli imputati e, accanto a ciascuno, i fatti principali che dovevamo accertare; gli agenti della DEA aprirono i loro computers nei quali risultavano inseriti gli stessi nomi con i collegamenti e i riferimenti già effettuati.
Ci spiegarono che la rete dei computer si articolava per Contee, Stati e Federazione e che era uno strumento indispensabile per affrontare una organizzazione articolata come la mafia!
Eravamo certamente d’accordo ma non potevamo assicurare che l’avremmo avuto presto anche noi. Il risultato fu comunque estremamente positivo.
Nacque quasi istintivamente un rapporto personale strettissimo con i collaboratori di Giuliani (soprattutto Louis Free e Richard Martin) e con gli Agenti prima della DEA e poi dell’Fbi che, negli anni, ci consentì di muoverci con gli Stati Uniti con la stessa speditezza e concretezza che avveniva con i colleghi italiani.
In molte occasioni elaborammo una collaborazione veramente innovativa, come nella ricordata operazione Pizza connection.
Agenti della Polizia italiana furono inviati in alcune città americane e inseriti formalmente nelle squadre operative di quella Polizia, per poter comprendere e tradurre contestualmente i colloqui ascoltati con le intercettazioni telefoniche, che gli imputati si scambiavano in siciliano stretto, e che hanno dato la prova della vendita dell’eroina nelle pizzerie.
Non siamo, ovviamente, ancora all’introduzione delle squadre investigative comuni (che saranno previste dalla Convenzione di Palermo e da quella Europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 2000) ma è evidente il salto di qualità, lo sguardo proiettato al futuro che sta alla base del nuovo metodo di indagine.
Il rapporto con gli Stati Uniti ci facilitò i contatti con altri Paesi specialmente di Common law, e tra questi è stato particolarmente utile quello con il Canada, dove pure si era insediata una frangia mafiosa e dove, a partire dal 1984, assistiti dalla Royal Canadian Mounted Police, ci siamo recati più volte sia con Falcone che con Leonardo Guarnotta, per le prime indagini contro Vito Ciancimino.
È stato importante a quel punto cominciare a conoscere e a studiare le differenze tra i due ordinamenti.
Le prime richieste di estradizione rivolte agli Stati Uniti per John Gambino e altri non ebbero (e non potevano avere) alcun esito; non bastava infatti, come noi pensavamo, allegare il mandato di cattura che conteneva sinteticamente gli elementi di prova contro gli Imputati, perché ciò contrastava con il principio della “probable cause”, necessaria per il Giudice Federale USA, ma del quale noi non avevamo alcuna cognizione.
Questa nuova consapevolezza ci indusse a studiare i princìpi fondamentali del diritto americano e, più avanti, a chiedere che il Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti inviasse stabilmente a Roma, presso l’Ambasciata, un suo rappresentante per facilitare ai magistrati italiani i contatti con gli inquirenti americani; il primo a venire in Italia con questo incarico (un anticipo dei magistrati di collegamento) fu proprio Dik Martin che utilizzò l’esperienza maturata con noi nei primi processi.
Ma il rapporto personale non poteva bastare; accorrevano norme e trattati, giacché la legislazione USA non conosceva il reato di associazione per delinquere e ciò finiva per rendere difficile la reciproca collaborazione.
Studiammo allora la possibilità di preparare nuovi Accordi di Governo sia in materia di assistenza giudiziaria che di estradizione, e a questi Accordi si giunse nel 1984.
6. Con Giovanni Falcone compimmo numerosissime missioni all’estero e sempre riportammo una gran quantità di dati, informazioni, atti giudiziari.
Con gli Stati Uniti tuttavia si realizzò un’esperienza assolutamente unica; non soltanto furono avviate varie rogatorie ma si svilupparono indagini che chiamo parallele e speculari, nel senso che a Palermo e a New York si indagò spesso praticamente sullo stesso fatto: noi sulla partenza dell’eroina e loro sull’arrivo del medesimo carico. In altra circostanza negli Stati Uniti sulla partenza di 600 kg. di cocaina e a Palermo sull’arrivo (operazione “Big John” dal nome della imbarcazione che trasportava la sostanza stupefacente e il cui dibattimento in America celebravamo, come ho già ricordato, proprio nei giorni della strage di Borsellino).
Sul tavolo dei magistrati dei due Paesi vi erano quindi gli stessi atti e le stesse prove; i risultati giudiziari, tuttavia, sono stati molto differenti a causa dei diversi ordinamenti.
Sotto un diverso profilo il contatto con gli Stati Uniti diede a Falcone tante nuove idee che nel tempo cercò di introdurre nel nostro sistema.
Prima fra tutte il lavoro collegiale: nacque così prima l’idea del “pool antimafia” presso la Procura e l’Ufficio Istruzione di Palermo, che rispondeva a più esigenze: diluire il rischio, fare svolgere le indagini da un gruppo di magistrati che si specializzassero, non disperdere le molte informazioni che si dovevano raccogliere; e molto più avanti l’idea stessa delle DDA e della DNA, essendo egli fermamente convinto della necessità di accentrare le indagini sulla mafia in pochi uffici giudiziari, di formare magistrati (e anche Forze di Polizia) specializzati e di creare un organismo giudiziario di coordinamento nazionale.
Altra idea recepita dall’esperienza americana fu quella relativa alla informatizzazione degli atti giudiziari. L’enorme mole del maxi processo rese subito evidente che esso non sarebbe stato gestibile senza ricorrere all’aiuto delle nuove tecnologie: fu così che si procedette ad una operazione mai tentata prima e la Corte fu messa in grado di poter leggere immediatamente qualunque pagina di quel processo.
Falcone si spinse anche, in qualche occasione (proprio per l’esperienza americana) a non rifiutare pregiudizialmente l’idea di un collegamento tra l’Ufficio del P.M. e il Ministero della Giustizia: ma la realtà italiana era ben diversa da quella degli Stati Uniti e questa idea gli provocò serissimi contrasti.
Il lavoro in comune tra Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, unitamente ai colleghi della Procura e dell’Ufficio Istruzione, si concretizzò in particolare nella istruttoria del primo maxi processo, terminata nel 1985, nella quale il “metodo Falcone” fu applicato nel modo più avanzato e approfondito.
Quell’improba fatica certificò definitivamente, sulle dichiarazioni dei primi pentiti e sugli accertamenti eseguiti, la struttura unitaria di Cosa nostra, e i traffici, i delitti, le stragi di cui si era e continuava a rendersi colpevole.
L’esito di quel processo, pesantissimo per gli imputati, può essere visto come il primo tratto del percorso di due parabole: una ascendente (quella dell’efficacia della lotta contro la mafia e le altre forme di criminalità organizzata), l’altra discendente (quella di Cosa nostra che rispose inaugurando la stagione delle stragi che impose al Paese un contributo di sangue pesantissimo, ma di sicuro non inutile).
I nuovi obiettivi
Dal sacrificio di Falcone e Borsellino, come da una sorgente vitale, sono sorti e vengono incrementati numerosi rivoli che ancora oggi portano linfa al terreno di coltura, di tutte le iniziative antimafia:
- anzitutto una società civile più attenta a rifiutare ogni collegamento mafioso (che si è manifestata più in Sicilia ma non ancora in altre Regioni come la Calabria e la Campania) e che arriva fino alle più recenti dichiarazioni di Confindustria siciliana e nazionale;
- una più efficace legislazione per contrastare tutte le forme della criminalità organizzata (si pensi alle norme sul 41 bis – per assicurare ai capi mafiosi un regime penitenziario di massima sicurezza – e a quelle per una più reale e concreta aggressione ai patrimoni della mafia, i cui risultati si sono visti anche di recente nelle operazioni avvenute in Sicilia, in Calabria, in Campania);
- una più attenta analisi del fenomeno criminoso oggi forse più pericoloso (la ‘ndrangheta) che si va rivelando sempre più vicino alla tradizionale struttura di Cosa nostra, anche nella conquista di spazi in ambito nazionale e internazionale;
- la creazione di nuovi organismi internazionali e di nuovi Accordi di Governo che, proprio nello spirito delle iniziative di Falcone, tendono a realizzare una più efficace collaborazione giudiziaria. Si pensi ad Eurojust, ai Magistrati di collegamento con altri Paesi, alla stessa attività internazionale della DNA che – da un lato – collabora con il Ministero della Giustizia e spesso anche con quello degli Affari Esteri e con Organismi Internazionali (ONU, OSCE, U.E.) ai quali fornisce il supporto della propria esperienza, e – dall’altro – ha siglato Memmorandum di Intesa con le Procure Generali dei Paesi più sensibili alla nostra materia, per creare una sinergia e una pari cultura tra gli investigatori che affrontano la criminalità organizzata transnazionale.
Risultati quindi sono stati raggiunti, ma il cantiere che Falcone e Borsellino sono stati orribilmente costretti a lasciare, deve restare aperto perché la costruzione del vivere civile è ancora irta di ostacoli sia in ambito nazionale che internazionale.
In ambito nazionale, non è diminuita la penetrabilità della criminalità organizzata nel mondo degli affari, degli investimenti e spesso della pubblica amministrazione, che tanto penalizza le Regioni meridionali e non solo.
In ambito internazionale molti Paesi hanno ancora difficoltà – per cultura, tradizioni e persino scrupoli di immagine – a recepire la Convenzione di Palermo, ad aprire le loro strutture investigative ad una non solo formale collaborazione giudiziaria, a neutralizzare il segreto bancario e le altre norme che non consentono di individuare e colpire la ricchezza illecitamente accumulata.
Ma Falcone e Borsellino sapevano bene che la mafia non si combatte solo con i processi; essa si combatte anzitutto con la cultura.
Francesco Marino Mannoia ad una mia domanda su quali iniziative lo Stato dovesse intraprendere per sconfiggere la mafia, un giorno mi disse: “tenere dentro tutti i mafiosi e gettare la chiave, perché tanto noi ricominciamo sempre daccapo, e lavorare nella scuola perché noi abbiamo una cultura che lei non può immaginare”.
Cultura contro cultura, dunque.
Nel celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, è meno fuor di luogo di quanto superficialmente si potrebbe immaginare, invitare a riflettere su quel suggerimento di uno dei primi pentiti di mafia. |
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