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GNOSIS 3/2010
La strategia di Fidel e la tattica di Raùl

Cuba fra rischio collasso e riforme possibili


Domenico VECCHIONI


Foto Ansa
 
Cuba sta cambiando. Ma è difficile dire se il regime castrista sia veramente agli sgoccioli, oppure attui una strategia della sopravvivenza, alla quale non è estranea la liberazione e l’immediata espulsione di alcuni dissidenti da tempo in carcere. Certo è che alcune caute aperture si sono manifestate, Raùl Castro colloquia con la Chiesa e Fidel arriva a dire che il modello cubano non funziona più. Nell’esame della situazione cubana delineato dall’Ambasciatore Domenico Vecchioni, che ha soggiornato a lungo all’Avana, trova posto anche l’ipotesi di un capitalismo alla cinese e una possibile fine dell’embargo americano. Ne potrebbe derivare una ventata di benessere per Cuba e il definitivo tramonto del regime.


Le imprevedibili mosse e contromosse della diarchia regnante a Cuba, i fratelli Fidel e Raùl Castro, spiazzano regolarmente osservatori internazionali, esperti e “cubanologi”. Ma probabilmente non il popolo cubano, abituato (e rassegnato da mezzo secolo!) alle piroette, alle decisioni contraddittorie, ai voltafaccia, alle riforme annunciate e mai attuate, ai cambiamenti preconizzati e subito dimenticati del Lider Maximo prima e del “fratello minore” ora.
Molti osservatori in ogni caso si chiedono se in questi ultimi tempi stia realmente cambiando qualcosa a Cuba, soprattutto dopo la liberazione di 31 prigionieri politici del gruppo dei 75 arrestati nel marzo del 2003 e destinati, secondo dichiarazioni ufficiose, a ritrovare tutti la libertà a breve scadenza.
Le timide misure introdotte da Raùl Castro per dare un po’ di ossigeno alla drammatica situazione economica del Paese potranno frenare lo scontento sociale che, pur stentando ad esprimersi a causa del rigido controllo politico istaurato, è ben presente in tutti gli strati della popolazione? Si tratta dell’avvio di un nuovo sistema economico? Si va verso un modello “alla cinese” (libertà di mercato in cambio del mantenimento di un ferreo controllo del sistema politico)? Esiste attualmente una rivalità tra i due fratelli, Fidel il conservatore e Raùl il riformatore?
Tutte domande lecite e legittime. Tuttavia, come sempre, nelle questioni cubane bisogna cercare di ben discernere le dichiarazioni dalle realizzazioni, gli scopi dichiarati dalle finalità recondite, le promesse occasionali dagli impegni mantenuti, la tattica insomma dalla strategia. Senza contare, inoltre, il vantaggio immenso che ha il regime, rispetto ai sistemi democratici, di poter utilizzare a proprio piacimento tutti i mezzi di informazione del Paese per formare, controllare e indirizzare l’opinione pubblica, alla quale non deve rendere conto, come non deve rendere conto ai partiti politici (inesistenti) o a movimenti di opinione (vietati) ovvero ai sindacati dei lavoratori (in pratica ne esiste uno solo, di stretta osservanza governativa) e così via.
Prendiamo, ad esempio, la recente liberazione di prigionieri politici, tanto esaltata – giustamente – dai media internazionali (ma non da quelli cubani, letteralmente occupati dalle “Reflexiones” di Fidel). Innanzitutto non si è trattato di una “liberazione” ma di un vero e proprio “esilio forzato”. I detenuti, cioè, sono stati fatti uscire di prigione ed immediatamente espulsi, in gran segreto, dal Paese. L’espulsione come condizione della liberazione! Certo, è pur sempre meglio l’esilio del carcere, si dirà. Ma, appunto, si tratta di una mossa tattica, cioè di una mera decisione umanitaria adottata per limitare le crescenti proteste internazionali e per ottenere la fine della “Posizione Comune Europea”? Ovvero siamo di fronte ad un gesto politico, premessa di nuovi ed inediti rapporti con la società civile e l’opposizione pacifica? A noi pare più plausibile la prima ipotesi.
Come non riflettere, in effetti, sulla circostanza che la “liberazione” sia intervenuta proprio alla vigilia della riunione del Consiglio dell’UE che doveva decidere se rinnovare o meno la Posizione Comune? Come non pensare che il governo cubano si serva cinicamente di alcune decine di detenuti per ottenere la fine del blando ostracismo europeo, senza per questo impegnarsi in alcuna riforma democratica e di rispetto dei diritti umanitari? L’Unione Europea insomma chiede dei gesti significativi per eliminare la Posizione Comune, la bestia nera del regime castrista che la considera un’ingerenza intollerabile negli affari interni del Paese? L’Avana decide allora di “sacrificarsi”. Libera quindi un consistente gruppo di detenuti politici per ottenere, al tempo stesso, il definitivo sdoganamento del regime a Bruxelles, una migliore predisposizione degli Stati dell’Unione ad investire nell’isola, un consolidamento delle posizioni governative all’interno e all’esterno del Paese con benefiche pressioni sugli USA perché allentino l’embargo, il mantenimento dei privilegi riservati alla nomenklatura e, soprattutto, un guadagno di tempo per rallentare la costante erosione del regime. Tutto questo val bene la cacciata dal Paese di qualche “mercenario”, ma niente di più. Tattica, dunque, non strategia…
Ma, si dice, occorre dare fiducia alla Chiesa cattolica che ha svolto un ruolo di primissimo piano, un’insostituibile opera di mediazione, nelle trattative che hanno portato alla liberazione dei prigionieri politici, diventando un interlocutore privilegiato del regime. Una disponibilità governativa – sostiene il cardinale Jaime Ortega – suscettibile di accompagnare ulteriori riforme ed aperture e che, di conseguenza, va sostenuta ed incoraggiata, scommettendo sulla volontà riformatrice di Raùl Castro. Bene. Anche in questo caso tuttavia vanno chiarite alcune circostanze.
Prima di tutto non c’è stata alcuna “mediazione”. Il tavolo delle trattative è stato rigorosamente riservato e a due: Regime e Chiesa. Grande assente è stato il terzo interlocutore (una mediazione presuppone l’esistenza di due parti contrapposte), cioè i rappresentanti dell’opposizione pacifica o, quantomeno, della società civile. Quindi, non di mediazione si deve parlare, ma di nobile ed apprezzabile intervento a scopo esclusivamente umanitario per ottenere la fine delle ingiuste condanne inflitte ai 75 della “Primavera negra”, colpevoli solo di esprimere la loro contrarietà al regime. Un indubbio successo dei vescovi cubani che peraltro avrebbero potuto farsi sentire prima… Ma un successo che comporta un rischio non trascurabile. Il rischio che la Chiesa cubana si trasformi, nell’abilissima tela di ragno disegnata dai fratelli Castro, in una inconsapevole colonna di sostegno del regime, in attesa di incerte aperture e improbabili riforme democratiche. Questa, del resto, è la convinzione di gran parte della opposizione interna (compresa la componente cattolica di Oswaldo Payà) e di quasi tutti i dissidenti dell’esilio che hanno sempre guardato con molto sospetto alle mosse tattiche del regime il cui unico scopo – affermano – è di perpetuare se stesso. La Chiesa cubana ha indubbiamente le proprie motivazioni pastorali e le proprie visioni trascendentali, ma potrebbe essere caduta in una trappola. Assecondare, cioè, i disegni tattici del regime, senza richiedere chiarimenti sulle intenzioni strategiche, apparendo quindi al momento il miglior pilastro del sistema comunista cubano. Occorrerebbe in definitiva evitare che la liberazione dei detenuti politici diventi un punto di arrivo, considerandolo invece solo un punto di partenza.
Attualmente, sembra evidente la disperata volontà di Raùl Castro di salvare il Paese dalla bancarotta economica ricorrendo a tutti i mezzi “tattici”, compreso quello delle timide aperture in vari settori. In effetti, la situazione economica, commerciale e finanziaria di Cuba sta diventando drammaticamente insostenibile. Un paese dove non si produce nulla, dove le strutture pubbliche (il 90%) sono tra le meno produttive al mondo, dove l’agricoltura, una volta molto fiorente, è stata messa in ginocchio da una forsennata collettivizzazione che ha distrutto lo spirito di iniziativa e la voglia di intraprendere (tanto che Cuba è costretta ad importare l’85% dei prodotti agricoli di cui ha bisogno, compreso lo zucchero), dove le principali entrate pubbliche provengono dai cattivi “cubano-americani” che inviano consistenti rimesse ai parenti rimasti sull’isola (indebitamente tassate del 20% dal governo), dal turismo (prevalentemente a connotazione sessuale), dall’estrazione del nikel (dono della natura, non del sistema…) e dai servizi (in pratica gli introiti derivanti dalla “cooperazione” internazionale alla cubana: 60.000 medici, infermieri e maestri che operano all’estero e le cui retribuzioni vanno a finire in gran parte nelle tasche dell’erario). Un’economia sostanzialmente dipendente dal Venezuela che fornisce ogni giorno a Cuba 100.000 barili di petrolio a prezzi stracciati, un’economia fortemente sussidiata, sostenuta dalle condizioni di favore accordate dai paesi amici (Cina, Vietnam, Brasile).
Alcune significative cifre bastano probabilmente per dare un’idea dell’attuale stato dell’economia cubana. L’Avana ha un debito estero di circa 20 miliardi di dollari (che non onora, la nostra SACE – l’Agenzia di Assicurazione dei crediti all’Esportazione – ne sa qualcosa); i più recenti cicloni hanno causato danni per 10 miliardi di dollari; la bilancia dei pagamenti registra un passivo di 2,5 miliardi di dollari, quella commerciale di 10 miliardi mentre le riserve valutarie ammontano ad appena 4 miliardi. Come colmare una simile voragine? La crisi di liquidità ha assunto tali proporzioni che sono stati congelati persino i conti correnti delle imprese straniere operanti nel Paese, conti che vengono sbloccati col contagocce, secondo criteri più o meno politico-clientelari. Il tutto complicato dal fatto che le importazioni di prodotti agricoli e i medicinali in provenienza dagli USA (le uniche due eccezioni previste al bloqueo statunitense) devono essere pagate in anticipo e in contanti, non potendo le banche americane operare, nemmeno indirettamente, con quelle cubane.
Tutta colpa dell’embargo americano? Solo in parte. In realtà è stato il modello cubano che non ha funzionato e se ha resistito tanto tempo lo si deve solo agli interessati sostegni di paesi ideologicamente affini.
In tale inquietante situazione il governo cubano è ben consapevole della necessità di dover adottare alcune riforme nel sistema economico del Paese, introducendo gradualmente i parametri dell’economia capitalista (privatizzazione di molte attività, meritocrazia, lotta agli sprechi e alla improduttività pubblica, salario commisurato ai risultati, reintroduzione parziale della proprietà privata ecc…). Salvare l’economia vuol dire del resto avere più chances di mantenere il regime politico, soprattutto al venir meno della figura carismatica di Fidel Castro. In ogni caso si guadagnerebbe tempo. Questo – secondo molti osservatori – sarebbe il pensiero di fondo di Raùl Castro.
Ma una simile politica corre un rischio mortale. L’apertura del mercato e del Paese potrebbe far prendere fiato ad una ventata liberale e liberista incontrollabile, suscettibile di buttar giù a breve scadenza l’intero palazzo, con tutti i detentori del potere che lo abitano e di mettere, dopo cinquantuno anni, la parola fine all’esperimento rivoluzionario. Questo in sostanza sarebbe il pensiero di Fidel, da sempre allergico a riforme significative, nemico giurato a suo tempo della perestroika e della glasnost che a Cuba, in effetti, non hanno mai attecchito proprio per volontà del Lider Maximo.
Contrasto tra i due fratelli quindi? Niente è meno sicuro.
Da sempre in effetti i due sono stati complementari e sin dall’inizio hanno scelto ruoli diversi per la stessa finalità: il mantenimento del potere! A Fidel, quindi, la gloria e l’esasperata esposizione mediatica, a Raùl l’organizzazione e la discrezione. Un ben studiato gioco delle parti che Fidel e Raùl hanno maneggiato con arte e continuano a maneggiare confondendo e spiazzando gli osservatori internazionali. Giocando su tavoli diversi e in qualche modo anche intercambiabili. L’importante è adottare sempre la migliore strategia utile al mantenimento in vita della Rivoluzione.
Il tutto complicato dalla politica americana, incerta come non mai nei confronti di Cuba. Eliminare il tanto deprecato embargo, rivelatosi inutile ai fini del ristabilimento della democrazia e dannoso per l’immagine americana nel mondo? È oggi una possibile opzione per il governo Obama. Ma come reagirebbe la consistente comunità cubano-americana della Florida, dal peso elettorale in alcuni fasi determinante per lo stesso Presidente? È da considerare, peraltro, che la legge sull’embargo può essere modificata o eliminata unicamente dal Congresso (dove il sentimento anti-castrista è ancora molto forte) e non dal Presidente, il quale può eventualmente intervenire solo su alcune misure applicative. Washington in tale prospettiva chiede gesti significativi di apertura democratica, ma il regime comunista non può andare oltre un certo limite senza rinnegare se stesso e senza rischiare il suicidio politico. Un nodo inestricabile.
Cosa è dunque lecito presagire per Cuba? Impossibile avventurarsi a fare delle ipotesi, troppe sono le variabili, come abbiamo visto, da prendere in considerazione. Numerosi scenari sono in realtà proponibili e tutti credibili. Da quelli più ottimisti (un graduale cambio senza scosse e sommovimenti sociali), a quelli più drammatici (esplosione di violenza, vendette personali che covano da mezzo secolo), a quello assolutamente… originale di un Fidel – diminuito nelle sue facoltà mentali o forse rinsavito – il quale proprio nei giorni scorsi ha dichiarato: “il modello cubano non funziona più!”. Che ha voluto dire? Ha d’improvviso abbracciato le teorie dei partigiani favorevoli a sostanziali modifiche del “sistema”, di quel sistema che ha ostinatamente difeso per mezzo secolo? E diventato di colpo più riformatore di Raùl il quale, finora, ci è stato presentato come l’innovatore che non può andare avanti a causa del retrogrado fratello maggiore?
Il gioco delle parti continua, il popolo cubano continua ad essere assente dalle decisioni che lo riguardano, l’economia del Paese continua ad essere in caduta libera, gli “utili idioti” internazionali continuano ad affollare la corte dell’Avana.
La confusione insomma regna, ma una cosa tuttavia appare certa.
Il futuro di Cuba comincerà solo dopo l’uscita definitiva di scena dei Castro, quando il popolo cubano riacquisterà la propria identità smarrita, quando si dissolverà il fanatismo ideologico durato mezzo secolo, quando i cubani potranno finalmente prendere in mano il proprio destino e decidere, democraticamente e senza condizionamenti esterni, la strada da indicare alle nuove generazioni.



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