GNOSIS 2/2010
INTERVISTA L’Islam in Italia: alla ricerca di un equilibrio tra integrazione e tradizione |
VALENTINA COLOMBO Docente di geopolitica del mondo islamico presso l'Università Europea di Roma |
“Ogni corpo è un essere vivente. Ogni poesia è femmina…” Hamada Khamis “…la dicotomia nelle relazioni tra il mondo occidentale e quello musulmano non è uno scontro di civiltà… ma una forte e diffusa paura derivante da una profonda mancanza di conoscenza reciproca...” Valentina Colombo Nel nostro mondo globale e globalizzato, con un presente fatto realmente di portati etnici e multiculturali variegati in cui scuole, case, negozi e strade parlano linguaggi diversi e in cui soprattutto i ragazzi sono alla ricerca di una identità che non sia solo il prodotto di frammenti culturali differenti o un puzzle indefinito fatto di tessere impazzite, è importante la diffusione di un sentimento di appartenenza nuovo che non rinneghi le radici con il passato ma che sia il bagaglio prezioso di una crescita serena verso un futuro consapevole. Il rischio del terrorismo “homegrown” può diventare la risposta esasperata alle istanze di ricerca di valori e credi introvabili nella quotidianità fatta di diversità e della sensazione di essere sempre e comunque “fuoriposto”. L’anelito religioso percepito come unica fonte di verità da raggiungere e imporre anche attraverso il martirio ed il sacrificio estremo di se stessi rischia di essere l’unica chiave di lettura possibile per cambiare la vita in un emisfero occidentale spesso basato sul consumismo, orfano di ideologie e apparentemente votato all’effimero. Di queste crisi di identità e dei rischi legati alle incertezze culturali che i fenomeni d’immigrazione inevitabilmente portano con sé, abbiamo parlato con Valentina Colombo docente di Geopolitica del mondo islamico presso l’Università Europea di Roma, grande esperta di islam, appassionata di letteratura dell’oriente classico e contemporaneo e autrice di libri di straordinaria sensibilità, vere chiavi di interpretazione indispensabili per la decrittazione di fenomeni ed evoluzioni di una realtà policulturale che è ormai patrimonio comune di ognuno di noi, indipendentemente dalle origini, dai linguaggi e dai colori della pelle. Cosa l’affascina ancora e cosa l’ha attratta dell’islam nel percorso degli studi e nell’esperienza da ricercatrice e da scrittrice? Il mio incontro con l’islam avviene attraverso la lingua e letteratura araba. Ormai più di vent’anni fa ho tradotto il romanzo breve “Il nostro quartiere” del premio Nobel egiziano Naghib Mahfuz. Per questo motivo il primo islam che ho incontrato è quello laico, dei musulmani nati tali, ma vissuti in un mondo più mediterraneo che islamico. Successivamente il mio interesse per la letteratura araba classica del periodo abbaside mi ha portata a studiare uno dei più importanti autori della letteratura araba, Jahiz. Apparteneva alla prima scuola di liberi pensatori dell’islam, fautori a livello teologico di un monoteismo assoluto che li portò ad elaborare la cosiddetta teoria del “Corano creato” che consisteva nel considerare il Corano come un testo coeterno a Dio, pur ritenendolo creato nel tempo. Il significato profondo della interpretazione consisteva soprattutto nel limitare l’importanza degli uomini di religione, semplici interpreti della parola di Dio, e aumentare così la libertà umana. Mi ha sempre affascinato la molteplicità dell’islam e la esplicitazione poliedrica della religione: il fatto che se esistono un miliardo e trecento milioni di musulmani potrebbero esistere un miliardo e trecento milioni di islam. Con il passare degli anni e una conoscenza sempre più approfondita di singoli paesi - Marocco, Tunisia, Egitto, Giordania, Yemen, Kuwait - ma principalmente delle persone reali, in carne e ossa, ho compreso che, nonostante il dilagare dell’estremismo islamico, se si crea un rapporto con persone autentiche, quindi con semplici musulmani, c’è la possibilità di costruire un vero dialogo basato sulla condivisione dei valori universali. Ed è per questo motivo che negli ultimi cinque anni ho dedicato i miei studi ai cosiddetti musulmani liberali, a quegli intellettuali che si oppongono all’estremismo islamico e sostengono la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Cosa invece la rende perplessa al punto di dedicare l’ultimo libro alle osservazioni più dure, sintetizzandole nell’assioma “Vietato in nome di Allah”? Mi preoccupa il dilagare spaventoso dell’integralismo islamico, rappresentato essenzialmente dal movimento dei Fratelli musulmani e dell’ideologia wahhabita. Entrambi sostengono di essere gli unici veri rappresentanti ed interpreti dell’islam, di un “Islam” con la I maiuscola. Un Islam che quindi ha il diritto, anzi il dovere, di difendere la propria introspezione religiosa come autentica chiave di lettura. L’interpretazione fa sì che costoro siano i più acerrimi sostenitori del takfir ovvero della condanna di apostasia nei confronti di altri musulmani non ritenuti veri credenti, addirittura traditori dello spirito dell’Islam. Quindi si crea l’assurda situazione per cui uno scrittore, un giornalista, un poeta può essere definito da un mufti, da uno shaikh o da un sedicente imam, comunque un “nemico dell’islam”, un apostata e conseguentemente bersaglio di una condanna a morte. Ancora una volta il mio interesse per l’islam si è legato strettamente alla passione per la letteratura. L’idea di scrivere “Vietato in nome di Allah: libri e intellettuali messi al bando nel mondo islamico” nasce dalla constatazione dell’esistenza di numerosissimi casi di scrittori la cui vita è a repentaglio nell’area islamica per avere creato poesie, romanzi o saggi definiti “eretici”. Il caso da cui è scaturito il volume è quello del giovane poeta giordano Islam Samhan che nel settembre 2008 vede la sua raccolta di poesie Leggiadra come un’ombra stigmatizzata come “un osceno insulto a Dio”. Giudizio peraltro confermato dal Gran mufti di Giordania che lo definisce “un apostata e un nemico della religione” e poiché l’articolo 37 della legge della legge sulla stampa giordana prevede che non possa essere pubblicato nulla che oltraggi una religione, Samhan viene incarcerato e sottoposto a processo. La vicenda viene poi aggravata da un comunicato dei Fratelli musulmani locali in cui il poeta viene assimilato ai disegnatori danesi delle vignette asseritamente blasfeme su Maometto. Il comunicato rappresenta di fatto una sorta di “semaforo verde” per le frange più radicali dell’islam che iniziano a minacciare quotidianamente la vita dello scrittore giordano. Il caso di Samhan non è stato né il primo né sarà l’ultimo, né in Giordania e neppure nell’ambito del mondo islamico. La situazione sta addirittura evolvendo in peggio, tanto che in Turchia dove fino a qualche anno fa gli intellettuali venivano portati in tribunale per oltraggio alla nazione, oggi - come dimostra il caso dello scrittore Nedim Gursel - vengono accusati di oltraggio all’islam. È nostro dovere quindi difendere le voci libere perchè solo partecipando alla difesa della loro libertà saremo in grado di tutelare noi stessi. Non a caso nel volume ho dedicato un capitolo al “vietato in nome di Allah” ambientandolo in occidente con il cosiddetto “jihad in tribunale” che vede intellettuali occidentali e musulmani portati in tribunale con l’accusa di islamofobia o semplicemente per avere “offeso” un rappresentante dell’estremismo islamico. L’Occidente sta conoscendo il tramonto delle ideologie mentre il mondo dell’islam assiste all’esasperazione religiosa delle proprie teosofie ... se guardiamo avanti ci sono prospettive di riequilibrare i due universi?... Sono fermamente convinta che per arginare l’esasperazione religiosa islamica e anche per sconfiggere la paura che in occidente si insinua nei confronti di tutto ciò che è islamico bisogna avvicinarsi all’islam e cercare di conoscere meglio questo mondo convincendosi in primis che nessuno può veramente ergersi a rappresentante dell’islam, perchè per definizione vocazionale non esiste alcuna autorità islamica paragonabile, per esempio, al Papa cattolico. Una conoscenza più approfondita del “pianeta islam” nelle sue mille sfaccettature e nella molteplicità sostanziale potrà aiutare senza dubbio a raggiungere un equilibrio. Solo una conoscenza più attenta di quanto accade nel mondo islamico farà capire che in occidente talvolta si radica e si diffonde con estrema facilità un pregiudizio astratto a causa di alcune interpretazioni “ingenue” del credo islamico. Un esempio tra tutti è costituito dal dibattito intorno all’opportunità dell’uso del velo integrale. Ebbene non sono in molti a sapere che anche nel mondo islamico il velo integrale è guardato con diffidenza e viene considerato “uno scoglio alla sicurezza”: si stanno prendendo addirittura misure precauzionali affinchè le donne che lo indossano abitualmente debbano toglierlo sul luogo di lavoro e davanti alle Forze di polizia per consentire adeguati controlli. Tutto ciò avviene in modo del tutto naturale nel mondo islamico, mentre in occidente il dibattito imperversa rasentando ciò che in terra d’Islam costituisce un assurdo. Mi è capitato di recente di sentire affermare che anche l’occupazione del suolo pubblico per la preghiera islamica nel nostro paese dovrebbe essere compresa in quanto in Italia siamo stati educati alla tolleranza. Ebbene anche in questo caso nascono contraddizioni: in Marocco e in Egitto i musulmani pregano in moschea perchè altrove è vietato. La “non conoscenza” (ignoranza) delle regole porta alla creazione di “non problemi” (equivoci interpretativi) che finiscono per aumentare paure, intolleranza e diffidenza nei confronti dell’islam. A proposito di dibattito sul velo, la donna nell’islam ha un ruolo particolare che a noi occidentali emancipate sembra a volte compresso se non mortificato… La donna nel mondo islamico contemporaneo svolge un ruolo fondamentale. In prima istanza essendo la principale vittima del terrorismo e dell’estremismo islamico (resta vedova o priva dei figli shahid votati al martirio) ne è la più acerrima nemica. Non è un caso che tra gli intellettuali contemporanei le penne più coraggiose siano quelle femminili impegnate in prima linea non solo per favorire e promuovere l’emancipazione della donna, ma anche per combattere le idee radicali nemiche della libertà di pensiero e della libertà della persona. Alcuni nomi tra le sempre più numerose voci femminili libere e forti provenienti dal mondo islamico sono l’attivista saudita Wajeha al-Huwaider, che da anni lotta sia contro le ideologie che gravano sulla mente araba sia per fare diventare le donne saudite delle “persone” a tutto tondo; l’avvocatessa del Bahrein Ghada Jamsheer che si batte per ottenere la promulgazione di un Codice dello Statuto personale nel proprio paese; Rola Dashti, una delle quattro prime donne elette nel parlamento kuwaitiano, che ribadisce e sottolinea continuamente l’importanza dell’integrazione della donna nella sfera sociale e politica poichè non può esistere vera democrazia se la donna rimane ai margini dei ruoli- chiave di un Paese. Un ulteriore esempio di quanto l’emancipazione della donna sia un’arma privilegiata per sconfiggere il terrorismo viene dal Marocco. Ebbene in questo paese la tanto agognata riforma del Codice della Famiglia, la Moudawana, con una maggiore attenzione ai diritti della donna, viene praticamente imposta dal re Muhammad VI nel 2003 dopo gli attentati terroristici a Casablanca. La decisione è stata presa, per ammissione dello stesso sovrano, come risposta all’integralismo islamico e all’interpretazione integralista del testo coranico. Si può a ragione affermare che oggi nel mondo islamico la “donna è la soluzione” globale alle istanze più adeguate di problemi vecchi e nuovi. Nell’ambito del fondamentalismo la donna può scegliere di arrivare a diventare kamikaze (... scelta di estrema svalutazione di sé delle “vedove nere”...) nell’islamismo È LA MADRE (... educatrice silenziosa che può essere mediatrice...) Nel fondamentalismo la donna diventa un mezzo per raggiungere il fine ultimo, qualunque esso sia. La donna in genere ha il “privilegio culturale” di stare in casa perchè è fisiologicamente creatrice e preposta alla cura del nucleo familiare, mentre l’uomo deve sostenere l’onere di lavorare per il sostentamento della famiglia. È palese che si tratti di un retaggio culturale che lascia trasparire un modo sottile ed implicito per evitare l’emancipazione della donna. È sufficiente analizzare lo Statuto di Hamas per rendersene conto. All’articolo 17 si può leggere infatti: “La donna musulmana ha un ruolo non minore di quello dell’uomo musulmano nella guerra di liberazione; è forgiatrice di uomini e ha un ruolo tra i più importanti nella guida e nell’educazione delle nuove generazioni. I nemici hanno compreso il suo ruolo; e credono che, se riusciranno a guidarla ed educarla come vogliono, allontanandola dall’islam, avranno vinto la guerra. [...] La donna, per definizione, è moglie, madre ed educatrice, quindi apparentemente, è il fulcro della famiglia e della società. All’articolo 18 viene ripreso il ruolo della donna: “La donna, nella casa e nella famiglia combattenti, si tratti di una madre o di una sorella, ha il suo ruolo più importante nell’occuparsi della casa e nell’allevare i figli secondo i concetti e i valori islamici, e nell’educare i figli a osservare i precetti religiosi preparandosi al dovere del jihad che li aspetta. Pertanto è necessario prestare attenzione alle scuole e ai programmi per le ragazze musulmane, così che si preparino a diventare buone madri, consapevoli del loro ruolo nella guerra di liberazione. Le donne debbono avere la consapevolezza e le conoscenze necessarie per gestire la loro casa. La frugalità e la capacità di evitare gli sprechi nelle spese domestiche sono requisiti necessari perché sia possibile continuare la lotta nelle difficili circostanze in cui ci troviamo. Le donne dovranno sempre ricordare che il denaro equivale al sangue, che non deve scorrere se non nelle vene per assicurare la continuità della vita sia dei giovani sia dei vecchi”. Anche l’ingresso delle donne in politica tra le fila del movimento dei Fratelli musulmani in Egitto va letto come un modo per mostrare un’apparente apertura e moderazione, ma mai sinora le donne hanno occupato un ruolo dominante. Nello stesso contesto si può situare il cambiamento del direttivo in seno all’italiana UCOII che ha voluto alla vice-presidenza una donna, tra l’altro una convertita, ma comunque sempre affiancata da un altro vicepresidente uomo. Anche in seno ad al-Qaeda di recente è stato riservato alle donne un maggiore spazio d’azione: se prima svolgevano un ruolo marginale oggi, come ha riportato di recente, la televisione satellitare al Arabiya, stanno raggiungendo anche i ranghi più elevati dell’organizzazione.. Le ragazze che provano a vivere integrandosi e magari arrivano allo scontro con la visione “tradizionalista” dei genitori in quale situazione anomica si trovano a vivere? Purtroppo uno studio recente sui delitti d’onore nel mondo ha rivelato che quasi l’80% di questi omicidi vengono commessi in Occidente a dimostrazione del fatto che in territori di emigrazione si acuisce il legame alla tradizione. Il comportamento nei confronti delle donne della famiglia è ancor più rigido e conservatore che nel paese d’origine. I recenti casi di delitti d’onore in Italia, Hina Salem e Sana Dafani, non sono altro che la punta di un iceberg che vede le immigrate vittime della propria tradizione e spesso dell’ingenuità dell’occidente. Non è ammissibile che Christa Datz-Winter, giudice tedesca, vieti un divorzio per direttissima a una donna musulmana tedesca, picchiata dal marito, sostenendo che entrambi i coniugi provenivano “da un ambito culturale marocchino dove non è strano che un uomo eserciti il diritto alla punizione corporale nei confronti della moglie”, adducendo come prova il versetto coranico che consente al marito di picchiare la moglie. Non è concepibile che l’attenuante culturale venga usata per giustificare delitti così gravi. Come ha affermato di recente il rapporto speciale delle Nazioni Unite per la Libertà di religione o credo, Asma Jahangir, bisogna iniziare a parlare di diritti universali della donna a prescindere dal credo di appartenenza. Soltanto diffondendo questa idea tra le immigrate e gli immigrati nel nostro paese potremmo favorire una vera e sana integrazione che andrà a tutto vantaggio delle nuove generazioni. l recupero delle radici dei ragazzi “immigrati di seconda generazione” che non riescono a trovare un’identità nei valori occidentali che ruolo e che spazi esistenziali trovano? Che prospettive hanno? Credo che le seconde generazioni siano vittime sia della schizofrenia dei genitori, che si sentono ancora legati al paese d’origine e al contempo non vogliono fare parte del paese d’accoglienza. Sono anche vittime vincolate da una legge di antica ispirazione sulla cittadinanza che li vede sempre più spesso nati in Italia, più italiani degli italiani, ma cittadini di seconda categoria legati ad un permesso di soggiorno. Sono convinta che anche la scuola debba svolgere un ruolo più incisivo nel processo di integrazione. L’apprendimento della lingua italiana è fondamentale pur mantenendo un legame profondo con le proprie radici e con la propria lingua di origine. Ancora una volta credo che la letteratura in particolare possa svolgere un ruolo chiave. Faccio un esempio. La lettura in aula di un racconto del premio Nobel Nagib Mahfuz può diventare un ponte meraviglioso. Uno strumento per fare conoscere ai ragazzi italiani il mondo arabo e per rendere orgogliosi i ragazzi provenienti dal mondo arabo dato che presenta l’opera di un premio Nobel. È effettivo in Italia il rischio di “terrorismo homegrown”? A volte si sente parlare di “ego islamico ipertrofico” che suggerisce un’interpretazione in chiave fondamentalista del senso di appartenenza all’islam. Sono della convinzione che in Italia il “rischio terrorismo” della seconda generazione sia limitato, a differenza di paesi come la Francia e la Gran Bretagna, anche per l’assenza di un vero passato coloniale del nostro paese. Vedo un maggiore rischio di terrorismo tra le file dei neo-convertiti che sono spesso legati ad ambienti integralisti e sono spinti dalla condivisione dell’ideologia dell’integralismo islamico palesemente anti-occidentale e antisemita, con il furore nel neofita e l’entusiasmo del neo adepto. I figli dei cosiddetti “matrimoni misti” specialmente nelle aree più “avanzate“, in Svizzera, in Inghilterra o nel nord dell’Italia, che prospettive d’integrazione hanno e che posto ha la religione nelle priorità della costruzione della loro identità? Non possiamo generalizzare quando si parla di figli dei “matrimoni misti”. Ogni situazione è diversa e può presentare sfumature differenti: un conto è se la madre è musulmana e il padre italiano, oppure viceversa se è il padre ad essere musulmano. Se il matrimonio viene vissuto in maniera laica da entrambi i coniugi lasciando la libertà di scelta ai figli non sussisteranno problemi. La recente approvazione di una legge da parte del Parlamento italiano che prevede la possibilità per una donna musulmana di sposare un non musulmano senza la conversione di quest’ultimo, rappresenta - a mio parere - un enorme passo avanti nel processo d’integrazione. Sino ad oggi abbiamo assistito a casi in cui, ad esempio, molte donne marocchine hanno dovuto esibire, per contrarre matrimonio, il consenso del padre (che da qualche anno, con il nuovo codice di famiglia approvato sotto il regno di Mohammed VI, non è più necessario) ed il certificato di conversione del futuro marito. Una di queste donne ha detto: «Fu una semplice formalità. Gli chiesero soltanto di pronunciare la shahada (la professione di fede islamica) e di enunciare i cinque pilastri della fede musulmana, il tutto si concluse in pochi minuti. Dopo il matrimonio celebrato in Marocco, l’abbiamo registrato in Italia». Il consolato tunisino richiedeva addirittura la conversione del futuro marito in Tunisia. Tutto questo non poteva non influire sull’educazione dei figli. Credo che comunque per favorire una migliore crescita dei figli di matrimoni misti, fortunati depositari di due culture e due lingue, si dovrebbe diffondere in primo luogo l’idea i nati in Italia sono cittadini italiani a tutti gli effetti e solo in secondo luogo possono scegliere di essere adepti di un credo piuttosto che di un altro. Ancora una volta si evidenzia la assoluta necessità di una nuova legge per la cittadinanza che venga incontro alle nuove generazioni di immigrati nati nel nostro paese, indiscutibilmente cittadini italiani, qualunque sia la loro origine. |