GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 1/2010
Il FORUM



Metropoli e dintorni

a cura di Emanuela C. DEL RE



Foto Franz Gustincich
Yamakasi. I samurai dei tempi moderni (Les samourai des temps moderne) è un film francese diretto da Ariel Zeitoun e Julien Seri, prodotto da Luc Besson, uscito nel 2001. Come nella tradizione di Kurosawa, i moderni samurai del film sono sette, ma lo scenario in cui si muovono sono le banlieue parigine, non il Giappone del XVI secolo. Denso di luoghi comuni sulla vita nelle banlieue, il film propone il superamento dei problemi sociali delle tormentate periferie francesi - quando il film è stato girato vi erano stati già molti disordini e violenze a Vauvert nel 1999 e a la Grand Borne a Grigny e a Corbeill-Essonnes nel 2000 - creando dei "supereroi della periferia" molto umani, ma con abilità fisiche di grande effetto, tipiche di chi pratica il Parkour. Essi sono infatti dei traceurs, ovvero creatori di percorsi nelle città. Superando le barriere architettoniche metropolitane - sempre grigie quelle dei sobborghi - con i loro balzi da un tetto all'altro, scavalcando alti muri rocambolescamente, professano una filosofia infarcita di elementi presi qua e là dalle arti marziali orientali. Moderni Robin Hood che rubano negli appartamenti dei ricchi di notte e aiutano i poveri delle banlieue, sentono forte la responsabilità sociale, diventando il simbolo del riscatto per gli emarginati. Praticano "l'art du dèplacement" (l'arte dello spostamento), "la science du franchissement" (la scienza del superamento), il Parkour, una vera metafora dell'evasione dall'oppressione del sobborgo, di cui ridisegnano i confini, riappropriandosene. Un vero e proprio stile di vita, che ha conquistato pian piano anche inglesi e americani, italiani, che cominciano così a "rivisitare" le periferie. Un nuovo modo di ridurre la distanza della periferia dal centro. Nel film infatti, gli Yamasaki ricorrono alle acrobazie metropolitane di cui sono maestri anche per correre in soccorso di chi è in pericolo, laddove i pericoli sono quelli tipici della città nella città, della città "distante", della periferia. Se esiste davvero una logica della separazione, questa sta proprio nelle distanze, che non sono necessariamente geografiche, ma culturali, di tempi, di spazi, di accesso. La questione delle periferie può essere affrontata da molti punti di vista.In Francia si parla dagli anni '80 di "quartiers sensibles " (quartieri sensibili), una consapevolezza che ha portato a nuove politiche sociali per promuovere lo sviluppo in circa 500 quartieri (la cosiddetta Politique de la ville), ma che ha visto anche scoppiare i disordini del novembre 2005 nelle banlieues. Più voci (Sylvie Tissot ad esempio) sostengono che, per essere compresi, quegli eventi debbano essere analizzati a partire dal modo in cui certi problemi sono stati associati alla questione dei "quartiers sensibile", come ad esempio la mancanza di comunicazione o la disgregazione dei legami sociali: in realtà è tutto da ricondurre al modello stesso di "integrazione" francese, fondato su una eguaglianza dei cittadini, che però non ha saputo dare risposte a tutti, creando fenomeni di esclusione sociale. Nel suo volume Quand la ville se défait (Seuil, 2006) Jacques Donzelot sostiene che per "rifare" bisogna prima di tutto riequilibrare il rapporto fra luoghi e flussi, dando alle persone che abitano le periferie maggiore possibilità di azione e gestione delle proprie vite nei loro stessi quartieri. In Italia, se si pensa al sogno dell'edilizia degli anni 1970, quando si cominciavano a costruire case popolari con l'ambizione di risolvere il bisogno, mentre esplodeva il fenomeno dell'abusivismo nelle grandi città, vengono alla mente i casi romani di Corviale, i cui appartamenti sono stati distribuiti dal 1982, e del Laurentino 38, terminato nel 1984. Corviale, un enorme costruzione compatta con appartamenti per 6.000 persone, e il Laurentino 38, agglomerato per 30.000 abitanti, veri e propri mostri dell'edilizia e della concezione sociale. Emblematica l'intestazione del sito di Corviale (corviale.it) che recita: "Gli inquilini di Corviale amano il mostro. Anche se non lo capiscono ne sono affascinati. Hanno quasi un senso di fierezza ad abitare in un palazzo così conosciuto, discusso e fatto oggetto di attenzione continua da parte dei media". Oggi la concezione è mutata e da alcuni anni vengono adottati strumenti come i PRU, ovvero i Programmi di Riqualificazione Urbana, strumenti ordinari per la trasformazione di parti di città che hanno perso la loro originaria funzione o sono entrate in un processo di degrado edilizio ambientale e sociale. Questo è il risultato di un cambiamento epocale delle politiche urbane negli anni'90. L'innovazione sta nel fatto che si sposta l'attenzione sul comune, ente territoriale competente per la politica urbana, proponendosi di avviare, il recupero edilizio e funzionale di ambiti urbani specificatamente identificati attraverso proposte unitarie, anche utilizzando capitali privati. Nelle intenzioni, i PRU vogliono ridurre l'isolamento dalla città. L'Unione europea è sensibile al problema, tanto che promuove azioni strutturali a sostegno delle questioni urbane. La Urban Community Initiative (Iniziativa per le Comunità Urbane) fa parte della EU Cohesion Policy (Politica di Coesione dell'UE) creata allo scopo di "rigenerare" (questo il termine) le aree urbane e i quartieri in crisi. In Italia sono 25 i centri urbani in tutto il paese (tra questi Roma e Milano, ma anche Bari e Misterbianco, Crotone e Trieste) che partecipano ai progetti denominati URBAN I e URBAN II, che interessano in tutta Europa 188 centri urbani, per un totale di circa 5 milioni e mezzo di abitanti (nelle zone interessate). E' stato elaborato anche l'aquis "Using Cities" per delineare le best practises per la politica di coesione europea. Gli investimenti per il periodo 2001-2006 sono stati di 1.6 miliardi di Euro, provenienti dal Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (ERDF) e dai cofinanziamenti locali e nazionali incluso il settore privato. Interessante la creazione di URBACT, una rete tra le città incluse nel programma URBAN II, che si scambieranno così informazioni ed esperienze sullo sviluppo urbano sostenibile nell'UE. Lo "European Urban Day" tenutosi a Praga il 6 febbraio 2009, un evento appoggiato dalla Presidenza Ceca all'Unione Europea, è stato un'occasione per valutare la dimensione urbana delle politiche di coesione dell'UE, che forniscono 30 miliardi di euro affinché le città europee investano nell'innovazione, nella competitività e nello sviluppo sostenibile. C'è da chiedersi se la rigenerazione urbana sia socialmente sostenibile. Cosa fare? Secondo l'Oxford Institute for Sustainable Development (A. Colantonio, T. Dixon et. al., Measuring Socially Sustainable Urban Regeneration in Europe, OISD, Oxford Brookes University, 2009), molto sta nei fondi disponibili, e nei progetti, naturalmente: le politiche di investimento devono essere "socialmente responsabili", ovvero basate su monitoraggi per fornire una solida cornice di valutazione, come l'Igloo's Footprint ™ della Compagnia di San Paolo; misurare elementi della sostenibilità sociale come il livello di felicità o soddisfazione in una determinata area urbana è difficile, per cui si devono sviluppare nuove metodologie e procedure di efficienza dei costi e collegare i progetti locali a quelli della città in senso più ampio. Questione fondamentale oggi è quella migratoria, cui istintivamente - non sempre con razionalità - molti attribuiscono l'origine delle questioni attuali relative alla periferia, sia in senso positivo, sia in se senso negativo. L'Italia è diversa dalla Francia, certo, ma la questione della ricomposizione del panorama sociale a seguito delle migrazioni nelle periferie emerge soprattutto quando si parla di sicurezza. Secondo il rapporto "Processi migratori e integrazione nelle periferie urbane" realizzato dall'Università Cattolica di Milano con il Ministero dell'Interno (www.cestim.org), sarebbe vero che nelle periferie vi è una maggiore percezione di insicurezza da parte della cittadinanza, ma "a proposito delle misure repressive della criminalità, occorre segnalare come, pur non potendo certo essere trascurati i fatti più gravi, questi risultano essere in calo e non specificamente riferiti alla realtà delle periferie. Viceversa, sembrano oggi richiedere una particolare attenzione alcune condotte meno gravi: reati 'lievi', illeciti non penali comunque fonte di disagio sociale". Ancora, come si legge nel rapporto, se "le periferie urbane sono diventate infatti importanti recruitment magnets" della criminalità, lo sono perché "costituiscono dei luoghi di confine e di vulnerabilità ideale", e per questo occorre "una rete integrata di servizi territoriali e condizioni accettabili di sicurezza che emergono come requisiti importanti così come lo sono il sostegno economico o la riqualificazione edilizia e urbanistica per ridurre la marginalità delle periferie”.Le periferie, questione sociale e questione urbana allo stesso tempo. Vi è una diretta correlazione tra la residenza nei quartieri cosiddetti di "relegazione" e le condizioni di vita, le aspirazioni, le opportunità, l'accesso agli studi, all'occupazione? E in questo contesto, è accettabile l'equazione periferia-violenza? Se nelle banlieues francesi l'esplosione di alcune forme di violenza è imputabile al fatto che le periferie hanno assunto la dimensione di enclave caratterizzate da eccessivo decentramento, il fallimento di un modello urbano emblema della modernità, in Italia la situazione è diversa. Diverso il rapporto tra periferia e fenomeno migratorio, diversa la distanza dal centro, che nel tempo ha visto alcune zone storicamente al margine dei grandi centri urbani ritrovarsi in essi inglobate lasciando il posto a "nuove" periferie. Diversi ruolo e politiche delle Istituzioni. Ancora, diversa la mentalità. Necessariamente il tema porta a riflessioni sulle nuove periferie, sugli immigrati, sulla configurazione futura dei centri urbani. Il concetto stesso di cittadinanza deve essere analizzato, così come concetti complessi come società multi-etnica, multi-culturale. L'aspetto relativo alla sicurezza, in particolare, non può essere disgiunto da una più ampia lettura della metropoli oggi, perché il problema della sicurezza si può comprendere solo se si comprendono le nuove dinamiche sociali. Con questo attualissimo e stringente tema, da questo numero il forum acquisisce una nuova veste, ospitando il contributo di esperti di alto profilo dal mondo accademico, che con le loro analisi sviscerano i problemi da vari punti di vista. Questo allo scopo di consentire al lettore di trarre valutazioni personali non solo sul tema in generale ma anche e soprattutto per quanto riguarda le questioni della sicurezza, inestricabilmente legate a quelle sociali, politiche, economiche.In questo forum discutiamo di metropoli e periferie con autorevoli studiosi che hanno affrontato il tema da angolazioni diverse, con numerose pubblicazioni. Maria Immacolata Macioti studia le periferie sul campo dagli anni '60 analizzando i mutamenti, le dinamiche, i problemi; Umberto Melotti, ha studiato la questione in particolare dal punto di vista delle migrazioni internazionali, soffermandosi negli ultimi anni anche sul tema delle banlieues parigine; Massimo Ilardi, affronta la questione dal punto di vista della sociologia urbana.Da questo incontro di voci diverse emerge un quadro analitico profondo e stimolante, critico, ma allo stesso tempo propositivo, a cui le incisive considerazioni di Franco Ferrarotti aprono nuovi orizzonti.



Maria Immacolata Macioti




D. … in Europa, nelle periferie urbane,l’abbinamento tra periferie e pericolo torna puntualmente, almeno a partire dal XIX secolo …


L’hanno creduto in molti, che i lavoratori precari siano inclini alla violenza. E poiché di regola essi non vivono nei quartieri alti delle città, ma piuttosto, almeno in Europa, nelle periferie urbane, l’abbinamento tra periferie e pericolo torna puntualmente, almeno a partire dal XIX secolo.
Il processo di industrializzazione che rapidamente ha cambiato il volto dell’Europa (in Italia i ritmi sono stati più lenti, tanto che solo nel 1911 la Olivetti riusciva a produrre il prototipo delle macchine da scrivere), ha comportato fenomeni evidenti di sradicamento, di rapidi, ineluttabili mutamenti rispetto alle reti di protezione sociale in vigore fino a poco tempo prima. Londra e Parigi hanno vissuto una difficile crescita, che ha visto altresì una inedita esplosione di violenza. Di delitti: non più eccezionali ma frequenti, quasi anonimi.
Città allora da intendere come luoghi di criminalità, di violenza incontrollata? La letteratura narra certamente di periferie sordide, luoghi di degrado, prostituzione, malaffare. Di sporcizia e malattie. Basti ricordare il Victor Hugo de I miserabili, in cui protagoniste sono le masse, o I misteri di Parigi, in cui si propone il binomio tra lavoratori e delinquenti. Per non parlare della Comédie Humaine di Honoré de Balzac, dove si parla soprattutto della criminalità potenziale che deriverebbe dai quartieri popolari, dalle masse, da ambiti degradati. Anche storici e sociologi si interrogano in merito, riflettono sulle cause di questi accadimenti abnormi. In Gran Bretagna la sociologia nasce proprio con le prime inchieste sulla povertà. L’urbanizzazione selvaggia, incontrollata viene presto additata tra le cause della devianza. Nascono le prime inchieste sociali. Si tentano le prime statistiche. Si ipotizzano le prime teorizzazioni. In Italia Cesare Lombroso, verso la fine dell’’800, propone un approccio biologico: a suo parere, si nasce con tendenze criminali, si nasce biologicamente degradati o minorati: anche se l’apprendimento sociale può influenzare, magari mitigare certe tendenze, certi comportamenti. Conterebbe l’ereditarietà. Secondo Lombroso, si potrebbero fare diagnosi a partire dalla forma del cranio: un’ipotesi presto screditata. Ma resta una diffusa convinzione circa una qualche influenza dei fattori biologici su certi tipi di criminalità. La psicologia poi ipotizzerà un collegamento stretto tra criminalità e personalità psicopatica. A metà Novecento esce a Parigi un libro di Louis Chevalier, poi tradotto dalla Laterza col titolo Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale (Paris 1958; Roma-Bari 1986), in cui l’autore riprende ampiamente la tematica della città criminale, dei legami tra deterioramento sociale e classi popolari. E parla del costo umano in termini di fatica e fame, di malattia e salute, di tanti anonimi protagonisti dello sviluppo della città di Parigi: che pagano sulla loro pelle gli stenti subiti: anche con disturbi mentali e suicidi. Una storia biologica che diviene storia sociale. Non nati con la propensione alla devianza: ma spinti semmai dalla situazione, dal contesto di appartenenza, dal tentativo di fuoruscire dalla miseria.


D. … le teorizzazioni americane (…) hanno un motivo in comune: interpretano la devianza piuttosto come una reazione che non come un’azione volontaria, intenzionale, laddove altri studiosi vedono invece la devianza come una scelta razionale ...


Negli Stati Uniti, le spiegazioni in chiave individuale non convincono i sociologi, che si richiamano piuttosto alle istituzioni sociali, alle disparità e sperequazioni tra strati e classi, tra gruppi sociali con riguardo al potere e alla capacità economica. Il tema viene studiato, negli USA, in primo luogo dalla Scuola di Chicago. In particolare, Edwin H. Sutherland ritiene che nell’ambito della città convivano molte diverse subculture, di cui alcune incoraggerebbero la criminalità, altre no. I comportamenti criminali verrebbero incoraggiati dai gruppi dei pari (v. le bande giovanili devianti). Se tutti tendessero al successo anche sul piano economico, alcuni sono più portati di altri dalle circostanze, dal contesto, a perseguire questo obiettivo attraverso attività illegali.
Il tema della devianza torna con forza nello schema dei principali comportamenti, proposto da Robert K. Merton (che riprende un tema durkheimiano), dove l’anomia deriverebbe dalla caduta di vecchie norme e valori, senza che altri siano però subentrati in modo efficace, lasciando quindi i singoli individui allo sbando, senza riferimenti certi. Nelle società affluenti, scrive il sociologo americano, le mete ambite sono quelle del guadagno, del successo, della realizzazione individuale e sociale. Spesso, però, non bastano i mezzi proposti dalla società per il conseguimento di queste mete: il duro lavoro, l’impegno costante non sono sempre sufficienti, come ben sa chiunque abbia studiato il tema della povertà. Chi parte svantaggiato ha minori possibilità di raggiungere le vette del successo. Eppure gli vengono proposti il consumo, lo sciupio vistoso, per usare un’espressione di T. Veblen, grande critico della società americana. Le pressioni intese al successo sono forti, i mezzi previsti insufficienti: è ovvio quindi che si tenti di raggiungere il successo con mezzi diversi, alternativi. Con la devianza, eventualmente.
Se Merton fornisce un quadro interpretativo generale, saranno poi altri studiosi a calarsi maggiormente nella realtà concreta. Così Richard A. Cloward e Lloyd E. Ohlin, studiosi delle bande giovanili devianti: al cui interno si aspira fortemente al successo, ma dove gioca la subcultura della criminalità organizzata: da cui atti di vandalismo, sovra valutazione della forza fisica ecc.. I loro studi e quelli di Albert Cohen illuminano tratti tipici delle grandi metropoli americane: dove esistono specifici quartieri, particolari zone dove imperversano le bande giovanili, dove la loro cultura diviene modo di vita. Devastare, rubare, dar prova di forza vuol dire opporsi alla società benestante, rispettabile. Lo scarto tra aspirazioni e realtà, tra aspirazioni e possibilità concrete di realizzazione di queste aspirazioni, ci dicono questi autori, è determinante per comprendere le motivazioni della devianza. Esiste anche un’altra interessante teorizzazione, secondo cui la società etichetterebbe qualcuno come deviante: e in seguito questi si adatterebbe al modo in cui è stato definito, va avanti lungo la via della devianza (Edwin Lemert). Da una minima infrazione di scarso peso si giunge così a comportamenti sempre più devianti, fino alla sanzione finale di una condanna pubblica, magari del carcere o del riformatorio. L’“etichettamento” (labelling theory) rafforzerebbe cioè la cultura deviante. Le teorizzazioni americane qui accennate hanno un motivo in comune: interpretano la devianza piuttosto come una reazione che non come un’azione volontaria, intenzionale, laddove altri studiosi vedono invece la devianza come una scelta razionale.
Oggi chi studia questi fenomeni parte in genere dall’idea che esista una sorta di continuità tra devianza e rispettabilità, dalla consapevolezza che conta molto il contesto ai fini della definizione della devianza (basti pensare al delitto d’onore in Italia, a certi atti delittuosi contro le donne in alcuni paesi, ancora ai nostri giorni). Che l’additare qualcuno come criminale può influire in modo negativo sul suo comportamento, ma che in molti casi si sceglie consapevolmente di compiere un certo atto criminale.


D. … le periferie di un tempo sono oggi zone urbane come le altre, collegate al centro e alle altre parti della città, con dei loro autonomi centri …


La devianza riguarda le grandi metropoli delle Americhe e dell’Asia, ma anche le città africane (basti pensare alle città del Sudafrica, dove la violenza è all’ordine del giorno, dovuta alla grande sperequazione tra ricchi e poverissimi, nelle cui fila si trovano oggi anche immigrati giunti dai paesi limitrofi, come lo Zimbabwe, segnato dalla povertà, dalla spaventosa inflazione) e le meno estese città europee. Se in queste grandi metropoli le zone disagiate, quelle in cui convenzionalmente si reputa esista maggiore devianza, sono individuabili in zone particolari, non necessariamente periferiche, anzi, possono riguardare vie poco più in là considerate eleganti, ricche, frequentabili (ma il tutto può mutare rapidamente), in Europa sembra sopravvivere per ora il vecchio modello che vuole le zone più abbienti intorno al centro storico, le periferie, più lontane dal centro, più povere e in difficoltà, polo di attrazione per migranti indigenti, per gente espulsa dal centro, per la devianza. Un modello diffuso, si diceva. Condiviso. Non per questo realistico. Così come i dati ci dicono che non è vero che negli USA i neri compiano più omicidi dei bianchi, laddove questo è uno stereotipo condiviso, consolidato, così analisi settoriali europee ci dicono che la criminalità è un fenomeno diffuso, non da addebitare a singole zone urbane, a specifici strati sociali: solo che in certi casi la devianza non emerge con forza, in altri viene sovra rappresentata. Un delitto commesso da un immigrato in una periferia urbana viene notato, sottolineato, proposto all’esecrazione generale, magari con una particolare etichettatura: diviene, ad esempio, un «efferato delitto» che grida dalle pagine dei giornali, dai media tutti la sua riprovazione. Altri casi, ugualmente riprovevoli, passano invece più rapidamente, in modo più indolore sotto gli occhi di fruitori distratti. Reati di altro tipo, ad esempio finanziari, più legati semmai a ceti medi e alti, ai cosiddetti colletti bianchi (quindi, in genere, al ceto medio) solo raramente finiscono in prima pagina.
Le periferie di oggi, nelle città europee in genere, in quelle italiane in particolare, sono aree in cui si trovano immigrati di vecchia data (per lo più degli anni ’60 del ’900) che hanno saputo adattarsi, convivere faticosamente con ceti medi e medio-bassi, che hanno potuto, col loro lavoro, assicurare una vita dignitosa alle proprie famiglie, far studiare i figli. In molte periferie romane, sono diventati proprietari delle case popolari già assegnate loro in affitto. Le periferie di un tempo sono oggi zone urbane come le altre, collegate al centro e alle altre parti della città, con dei loro autonomi centri. La raffigurazione centro/periferia non regge: bisognerebbe parlare di molteplici centri, di più lontane periferie.


D. …va rivisto il rapporto centro-periferie, il processo di urbanizzazione va portato avanti...


Certamente l’architettura non sempre aiuta: intorno a Roma ad esempio vi è una cintura di ipermercati. Mancano invece luoghi di aggregazione, tanto più necessari in quanto stanno scomparendo i vecchi, piccoli esercizi, dove un tempo gli anziani clienti, le donne potevano scambiare saluti, notizie. Dove si era conosciuti e si aveva accesso al credito. Non è un caso che si parli di più, oggi, di indebitamento, di strozzinaggio: tanto più che le banche con difficoltà vengono incontro a utenti che non diano molteplici garanzie. Non tutto è risolto, nelle periferie di un tempo: mancano, si diceva, spazi di incontro.
Mancano anche luoghi intesi ai giovani, che si riversano quindi, inevitabilmente, verso l’antico centro storico. Mancano, spesso, strutture adeguate: poste, ospedali, cinema, teatri che diano la possibilità di esprimersi ai tanti giovani talenti che pure la periferia racchiude in sé. Per un Ascanio Celestini che ha saputo imporsi all’attenzione generale, che ha calcato le scene di importanti teatri nella capitale e altrove, molti altri non trovano la via per emergere. Non hanno occasioni, aiuti stabili, continuativi nel tempo: non bastano certo le iniziative di un’estate. La crisi economica inoltre mette a rischio fragili equilibri, i giovani non trovano che lavori saltuari, precari. C’è, per i più maturi, il rischio della cassa integrazione, del licenziamento. E ci sono i nuovi immigrati, quelli che sono giunti non più dal Sud d’Italia ma da ben più lontani paesi. Alcuni, con un lavoro regolare: i più fortunati. Altri, più a rischio, da quando la situazione di irregolarità è divenuta un reato penale passibile di espulsione. Si verificano lotte tra poveri, episodi di sfruttamento. Di respingimento. I borgatari di ieri, piccoli proprietari di oggi, cercano di difendere il minimo benessere raggiunto, già così a rischio. La politica, i sindacati sembrano spesso assenti: i sociologi, gli architetti, i più seri urbanisti lo hanno scritto, lo hanno detto da tempo. Va rivisto il rapporto centro-periferie, il processo di urbanizzazione va portato avanti. Ancora oggi il centro è per più versi privilegiato: per densità di istituti scolastici, di risorse culturali, per istituti bancari ecc. mentre le periferie hanno, oggettivamente, minori risorse. Eppure si tratta di aree ad alta densità, che accolgono ogni anno nuove presenze: persone che giungono da lontano ma anche altre che sono espulse dalle zone più centrali, non reggendo più all’aumento dei canoni di locazione, alla pressione dei proprietari, alla contrazione della domanda di prodotti artigianali, di manodopera.
A Roma le periferie odierne sono quelle di nuovo insediamento, al di là del Grande Raccordo Anulare. Periferie più lontane, da cui è più difficile giungere in città dove si potrebbe cercare lavoro. Troppo spesso queste nuove periferie delle grandi città italiane sono segnate dalla povertà, dalla ricerca di sopravvivenza: è risorto il caporalato, che ha come protagonisti oggi da un lato imprenditori senza scrupoli, dall’altro persone disperatamente in cerca di mezzi di sopravvivenza. Vi è un fiorente mercato della prostituzione. Colpa degli immigrati, dei più poveri, delle persone più a rischio? Sarebbe difficile non riconoscere oggi che esistono responsabilità pubbliche, norme sbagliate, mancanza di politiche sociali adeguate.


D.…le periferie italiane potrebbero essere, già per più versi sono luoghi di grandi risorse, di riserve di forza lavoro, di energie, di capacità, di arte…


Periferie violente? Semmai, violenza della città su chi è costretto ai suoi margini, violenza dovuta a impersonali e per gli abitanti incomprensibili meccanismi economici e politici che da un lato fanno intravedere una società ricca, del benessere, e dall’altra allontanano sempre più queste mete.
Oscar Lewis a suo tempo ha studiato a lungo la situazione dei messicani poveri emigrati negli Stati Uniti: esemplare il suo libro La famiglia di Sanchez, in cui un padre e i suoi vari figli si arrabattano in tutti i modi per uscire da una situazione di miseria, di ghettizzazione. Non ci riusciranno, dovrà soccombere persino la determinata, la lavoratrice Consuelo, che ha cercato in tutti i modi di emergere, tenendo al decoro e alle apparenze, curando il vestiario, studiando, lavorando moltissimo. Eppure, anche lei dovrà arrendersi. Entrerà a far parte dello stuolo dei messicani poveri, indigenti. Vinti. Cultura della povertà, come ipotizzava l’autore, secondo cui chi nasce in una certa situazione è spinto inevitabilmente nella direzione della subcultura, dell’inedia, della marginalità? Oppure processi di emarginazione da parte della società, cui si reagisce in più modi, anche con la devianza?
Le periferie italiane potrebbero essere, già per più versi sono luoghi di grandi risorse, di riserve di forza lavoro, di energie, di capacità, di arte. Di incontro tra diverse provenienze e culture (v. Franco Ferrarotti, Maria I. Macioti, Periferie da problema a risorsa, Sandro Teti Editore, Roma 2009). Ma perché ciò si realizzi più pienamente bisognerebbe che le tante iniziative, i tanti fermenti trovassero orecchie più pronte, più sensibili e attente. Con continuità. Se questo potesse darsi, probabilmente si potrebbe avere anche meno violenza nelle città.



Massimo Ilardi



D.… periferia (…): spazio incontrastato del mercato che ha espulso da questi bordi estremi della città l’agire politico …


Dopo la crescita della città continua e della metropoli diffusa che ha colonizzato ogni angolo di territorio e di paesaggio, che cos’é che definisce oggi un luogo come periferia? Una possibile risposta può essere questa: spazio incontrastato del mercato che ha espulso da questi bordi estremi della città l’agire politico e, insieme, valori, ideologie, organizzazioni di riferimento.
Dunque, dominio del mercato + assenza di politica. Ma ad una analisi più attenta questa spiegazione non é sufficiente perché non reca traccia di quell’elemento che avvolge e aggredisce quando si attraversano queste zone di confine: il territorio desolato, duro, disordinato, minaccioso. Non ci sono viali, piazze, architetture, né spazi pubblici ma strade che escludono, separano, enclavizzano, privatizzano tutto. Qui é il territorio ad assumere, più che in altre parti della città, quella terribile centralità, in termini di rilevanza sociale, che é emersa violentemente dentro la società del consumo e che definisce le soggettività, individua le differenze, nomina i conflitti, esclude il diverso, riconosce la ‘parte’. Dunque, dominio del mercato + assenza di politica + centralità del territorio: questa sembra essere oggi la periferia.
Sul piano urbanistico, il ritiro della politica dal governo del territorio ha portato alla crescita smisurata e senza più controlli della periferia. Una città legale ma spontanea, in regola comunque con le leggi del mercato, sta sorgendo, ad esempio, sul Grande Raccordo Anulare di Roma che si é trasformato in un unico megacentro commerciale che circonda la città senza soluzioni di continuità.
Le “nuove centralità” che avrebbero dovuto dare qualità, spazi pubblici e servizi alle zone periferiche diventano semplicemente grandi centri commerciali intorno ai quali si addossano quartieri residenziali sonnacchiosi, icone di una vita monotona e senza tempo e che per risvegliarsi in un mondo più carico di passioni, sognano solo la violenza. D’altra parte, che altro può fare il mercato sul territorio se non costruire outlet, centri commerciali ed enclave residenziali?
E che altro può usare per governarli, non avendo a disposizione valori, ideologie o utopie per risolvere i conflitti, se non il controllo, sempre più intensificato dalla sorveglianza di guardie armate, dall’istallazione di telecamere? Se non si stabilisce un ordine non c’è potere che tenga: ma il potere solo come ordine diventa amministrazione, burocrazia che si organizza in macchina autoritaria che percorre il territorio e pretende di strutturarlo.


D.… soggetti non sociali ma socialmente forti …


Sono proprio le conseguenze di questa liberazione del territorio dalla politica a portare a quella incultura, a quel senso comune intollerante, a quel narcisismo estremo che con insofferenza scopriamo quando questi comportamenti fanno irruzione nei salotti della TV. Ma che succede quando gli stessi comportamenti proiettano sulla strada, invece che alla TV, quel non-sapere istintivo e spontaneo? Si coagulano in culture di strada e in gruppi sociali di diversa natura che sulla strada trovano il loro modo di organizzarsi e le ragioni della loro azione che é, comunque e sempre come accade in Italia, irrorata da una rabbia sociale e anti-istituzionale.
Per questo il ‘fare società’ diventa per queste figure sociali una pura astrazione, una proposta di vita astratta lontana dai loro obiettivi non fosse altro perché non permetterebbe, da una parte, quella libertà di movimento che costituisce la posta in gioco di ogni cultura metropolitana e, dall’altra, di salire a quel ruolo di soggetti non sociali ma socialmente forti al quale aspirano. E se non c’é alcuna categoria dell’agire politico, allora c’é l’odio a produrre società, a innescare le rivolte sociali, a scatenare la violenza, a determinare una visione del mondo, a disegnare gli spazi pubblici della metropoli contemporanea.


D.… culture del grande vuoto: vuoto di storia, di memoria, di solidarietà, di giustizia, di democrazia, di politica, di umanità …


Queste culture non sono in contraddizione con l’interesse generale, non sono in un rapporto di negazione-relazione con esso: semplicemente l’interesse generale, la sua rappresentazione e la sua rappresentanza, é il loro nemico. Culture che non costruiscono identità ma appartenenze effimere e transitorie che tendono però a porsi come indisponibili e non negoziabili: perché nascono dai desideri e non dalla politica o, meglio, dai desideri che si politicizzano, e perché nessuna appartenenza nuda vive a lungo se non è cementata da un nemico. Culture del grande vuoto: vuoto di storia, di memoria, di solidarietà, di giustizia, di democrazia, di politica, di umanità. Nel massimo del suo dispiegamento la domanda di libertà, non quella astratta dei diritti ma quella individuale e materiale che si dispiega sul territorio e che non vuole nella sua azione alcun ostacolo o rimando al futuro e che proprio per questo si contrappone all’agire politico, non é sollecitata da alcuna passione perché deve saper guardare in faccia questo vuoto. Non può che farlo se non vuole impedimenti.
Se é così, cosa possono ancora svelarci il borghese di Thomas Mann o l’operaio di Marx? Come possono aiutarci? Per capire quello che ci sta accadendo bisogna volgere lo sguardo altrove. A Conrad, ad esempio, a McCarty, a Céline. Ai personaggi delle loro storie, sacerdoti di una libertà assoluta. A chi sa guardare l’orrore degli spazi vuoti: alla darkness della giungla che é nel cuore della civiltà, ai deserti della frontiera americana, fino alle nostre periferie urbane dove solo una visione conflittuale, lucida, estrema, da portare a ogni costo allo scontro, assegna appartenenze e unisce gli uomini. A Kurtz (Cuore di tenebra) allora, al giudice Holden (Meridiano di sangue), a Bardemu (Viaggio al termine della notte). “Solo l’uomo [...] che sia sceso in fondo al pozzo – dice il giudice – e abbia visto l’orrore tutt’intorno a sé e abbia infine imparato che esso parla all’intimo del suo cuore, solo quest’uomo può danzare.”
Culture, infine, che si raggrumano sul territorio in ‘minoranze sociali’ e che si costituiscono come soggettività che rifiutano di integrarsi dentro universali politici o statuali. Sono il contrario del multiculturalismo, del pluralismo, del meticciato. Né si possono definire delle vere e proprie comunità, non solo perché si svincolano da qualsiasi forma di radicamento identitario ma perché lo stesso senso di appartenenza é comunque restio a pagare un prezzo troppo elevato in termini di libertà di movimento e di controllo sociale.
Né, infine, si possono accostare alla categoria della ‘moltitudine’ perché troppo legata, nella sua definizione, ai lavori postfordisti e perché cancella il desiderio che in una società dell’iperconsumo sembra definire ormai ogni forma di azione. La macchina dei desideri, innescata dal consumo, non é mai sincronizzata con la macchina del lavoro e non conosce scambi.



Umberto Melotti



D.… la minore conflittualità urbana (in rapporto con l’immigrazione) sinora registrata in Italia si deve a un insieme di ragioni …


In Italia non vi sono stati ancora dei conflitti urbani in rapporto con l’immigrazione di gravità paragonabile a quella di altri Paesi. Non sono mancati però conflitti anche aspri dovuti all’impatto migratorio. Peraltro, specialmente dopo gli scontri del 2005 nelle banlieues francesi, non pochi si sono domandati se eventi simili potessero ripetersi in Italia.
La minore conflittualità sinora registrata in Italia si deve a un insieme di ragioni diverse. Segnalo in particolare:
1) il tardivo inizio del processo migratorio;
2) la conseguente minor presenza d’immigrati di seconda generazione;
3) la minor percentuale d’immigrati (arrivata solo di recente all’8% circa della popolazione);
4) la frantumazione degli immigrati in molte etnie, mentre in altri Paesi vi sono fortissime concentrazioni d’immigrati provenienti da determinate aree (i maghrebini in Francia, gli indo-pachistani nel Regno Unito, i turchi in Germania);
5) l’alta percentuale di donne fra gli immigrati sin dalle prime fasi del processo migratorio (circa il 50%, sia pur molto inegualmente distribuite fra i diversi gruppi etnici);
6) l’alta percentuale d’immigrati per motivi politici, benché solo in piccola parte con i requisiti previsti dalla Convenzione di Ginevra per il riconoscimento dello status di rifugiati;
7) la configurazione del nostro tessuto urbano, che solo raramente presenta agglomerati simili alle banlieues francesi o alle inner cities britanniche;
8) la maggior dispersione degli immigrati nel contesto del Paese e nell’ambito stesso delle varie città (una caratteristica che abbassa il livello della conflittualità nelle grandi città, ma ne diffonde il rischio in molte città medie e piccole e in molti quartieri dalle caratteristiche anche assai diverse dalle banlieues o dalle inner cities);
9) l’esperienza acquisita dalle amministrazioni di molte città, prevalentemente del Nord e del Centro, nella gestione delle precedenti migrazioni interne;
10) last but not least una cultura politica meno portata all’emarginazione e all’esclusione sociale, in parte per motivi storici che risalgono allo stesso processo formativo del Paese, in parte per il lavoro svolto sin dall’inizio dell’immigrazione da molte organizzazioni educative, religiose, sindacali e politiche.


D.… fattori che hanno favorito l’emergere della conflittualità …


Fra i principali fattori che hanno favorito l’emergere della conflittualità si possono invece ricordare:
1) l’inizio del processo migratorio in un periodo di grave crisi economica (la metà degli anni ’70) e il suo sviluppo in assenza di un quadro normativo stabile e coerente (la prima legge sull’immigrazione è stata approvata solo nel 1986 e in un quindicennio si sono susseguite quattro leggi diverse, svariati decreti non sempre convertiti, dubbie interpretazioni giurisprudenziali e numerose sanatorie e regolarizzazioni;
2) un’immigrazione più subìta che scelta, dovuta al prevalere dei fattori di espulsione nei Paesi di esodo sui fattori di attrazione nel Paese di approdo;
3) una larga componente (a lungo maggioritaria) d’immigrazione irregolare e clandestina;
4) la straordinaria rapidità del processo migratorio;
5) le non poche difficoltà di controllo del territorio da parte delle Forze dell’ordine e la diffusa pratica dell’illegalità, lavoro nero incluso, con la presenza di piccole e grandi organizzazioni malavitose, ormai radicate anche fuori delle regioni di tradizionale insediamento;
6) la vigente normativa in merito alla cittadinanza (ancora prevalentemente basata sullo jus sanguinis), che rischia di creare pericolose divisioni e contrapposizioni;
7) l’esistenza di forze politiche che agiscono a volte come imprenditrici della xenofobia e del razzismo;
8) l’azione di minoranze estremistiche (fra cui i militanti dei “centri sociali”) che a volte soffiano sul fuoco col pretesto dell’“antirazzismo”;
9) il processo di disfacimento delle città e di abbandono di molti quartieri, che produce spesso situazioni che alimentano le tensioni e innescano i conflitti;
10) una cultura talvolta politicamente segnata da una concezione della “solidarietà” che sottovaluta l’importanza della legalità e della sicurezza.


D.… in Italia si sono già avuti numerosi conflitti più o meno direttamente connessi con l’immigrazione …


In ogni caso in Italia si sono già avuti numerosi conflitti urbani più o meno direttamente connessi con l’immigrazione. A grandi linee, se ne possono distinguere diversi tipi. Senza pretesa di esaustività si possono elencare:
1) le reazioni dei cittadini all’insicurezza e al degrado sociale e ambientale causati dagli immigrati o loro attribuiti. In certi quartieri delle grandi città si sono addirittura costituiti dei comitati ad hoc per preparare e gestire le mobilitazioni. Ciò è avvenuto sin dagli inizi degli anni ’90 a Milano, in alcuni quartieri ben noti per la consistente presenza di microcriminalità, spaccio e prostituzione extracomunitaria. Più recentemente altre reazioni si sono avute, sempre a Milano, nel vecchio quartiere di via Canonica e via Sarpi, nel nuovo quartiere “etnico” attorno a via Padova, in alcuni quartieri semi-centrali, come l’Isola e il Garibaldi, e in molti insediamenti della vecchia e della nuova periferia.
Anche molte altre città hanno conosciuto simili mobilitazioni. Ciò è avvenuto a Torino, a Porta Palazzo, a San Salvario e in alcuni quartieri periferici o semi-periferici, come Barriera Milano, ove sono scoppiate anche maxirisse, con uso di armi da taglio, fra gruppi di residenti esasperati dal degrado e gruppi d’immigrati dediti allo spaccio; a Genova, nella zona di via Prè e in altre vie del vecchio centro nei dintorni del porto; a Firenze, all’Osmannoro, a Roma, nell’area di piazza Vittorio, all’Esquilino, e anche in certe aree periferiche o semi-periferiche.
Una grande mobilitazione per la sicurezza è avvenuta al Quartiere Africano di Roma, per un’escalation di crimini compiuti da romeni culminata in una sparatoria tra bande rivali che ha lasciato sul terreno un morto e due feriti (26 settembre 2007). A Roma, dopo l’efferata uccisione di una donna da parte di un romeno a Tor di Quinto (31 ottobre 2007), vi è stata anche un’aggressione ritorsiva a quattro romeni a Tor Bella Monaca, con un morto e tre feriti. Più recentemente, a Roma, le aggressioni a immigrati romeni o scambiati per tali si sono moltiplicate all’indomani dello stupro di una quindicenne perpetrato da due romeni nel parco della Caffarella (14 febbraio 2009);
2) le reazioni, recenti e meno recenti, contro i ghetti etnici presenti in alcuni distretti agricoli del Centro e del Sud, come l’Agro Pontino (in provincia di Latina), Villa Literno (in provincia di Caserta) e Cerignola (in provincia di Foggia). Va sottolineato che quei distretti sono almeno in parte funzionalmente integrati nel contesto delle aree metropolitane vicine e i loro conflitti assomigliano molto a quelli urbani, essendo dovuti (più che alla competizione per l’accesso ai lavori agricoli) all’anomala concentrazione delle persone, al degrado ambientale, alla carenza dei servizi e alla diffusa sensazione d’insicurezza. Simile è stata la recente reazione a Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria, che ha innescato la rivolta di molti immigrati (gennaio 2010), con scene di guerriglia urbana (centinaia di auto distrutte, cassonetti divelti e svuotati sull’asfalto, ringhiere di abitazioni danneggiate ecc.);
3) le reazioni, molto numerose, dei cittadini agli insediamenti abusivi degli immigrati (campi nomadi, baraccopoli, ghetti etnici di ogni tipo). Nel caso dei nomadi vi sono stati incendi dolosi di alcuni loro campi (a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Biella, Opera, Casoria) e attentati con bombe incendiarie (a Roma e a Genova). Particolarmente dure sono state le reazioni contro il campo di via Triboniano a Milano e poi quelle contro il campo di Opera, appositamente costruito per ospitare quelli sgomberati da un campo milanese (2007). A Roma vi è stato invece un vero e proprio assalto, da parte di una quarantina di abitanti della zona armati di bastoni, sassi e catene, al campo nomadi di Ponte Mammolo (18 settembre 2007).
Questi conflitti si sono moltiplicati dopo l’ingresso della Romania nell’Unione Europea (1° gennaio 2007), che ha comportato un rapidissimo incremento dei nomadi provenienti da quel Paese;
4) le reazioni, a volte anche molto violente, degli immigrati allo sgombero di certe aree o di certi stabili illegalmente occupati. Uno dei casi più clamorosi si è avuto a Roma, agli inizi degli anni ’90, alla Pantanella, un ex pastificio sulla Casilina Vecchia occupato da 2500 immigrati di varia provenienza. Altri casi da ricordare si sono avuti a Milano, nel 1990, alla Cascina Rosa, tra Lambrate e l’Ortica, e più tardi in via Adda, vicino alla Stazione Centrale, in via Lecco, a Porta Venezia e in via Cavezzali, nella zona di Turro, dove uno stabile di nove piani e 194 appartamenti era caduto nelle mani di spacciatori e di clandestini. Reazioni simili si sono avute anche in occasione dello sgombero, o del tentato sgombero, di alcuni campi nomadi abusivi (a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Pavia ecc.).
Queste reazioni hanno trovato a volte il sostegno di organizzazioni “antagoniste” che non hanno perduto l’occasione per muovere dei duri attacchi ai sindaci, anche di sinistra, accusati di posporre la solidarietà alla legalità;
5) le reazioni degli immigrati a interventi delle pubbliche autorità percepiti come vessatori o discriminatori. A Milano, ad esempio, vi è stata la rivolta dei giovani della chinatown: il primo aperto conflitto in una grande città italiana con una comunità straniera. Successivamente i conflitti di questo tipo si sono moltiplicati. Vanno ricordate, in particolare, le ricorrenti aggressioni (circa un centinaio l’anno dal 2007) contro i vigili urbani incaricati di sequestrare i prodotti irregolarmente venduti da alcuni gruppi d’immigrati;
6) le reazioni degli immigrati alle prepotenze delle organizzazioni malavitose italiane. Cito in particolare la ribellione dei negozianti cinesi del quartiere Forcella di Napoli alla pretesa della Camorra d’imporre anche a loro il pagamento del “pizzo”.
Va ricordata anche la forte reazione alla strage di immigrati di Castelvolturno (18 settembre 2008), probabilmente compiuta da un gruppo di fuoco del clan dei casalesi;
7) gli scontri etnici fra diversi gruppi d’immigrati. Conflitti di questo tipo sono avvenuti a Roma, all’interno della Pantanella occupata e, più recentemente, a Padova, nel quartiere di via Anelli. Qui, dopo una notte di guerriglia fra marocchini e nigeriani dediti a spaccio e altre attività malavitose (26 luglio 2006), il sindaco (di centro-sinistra) ha fatto erigere una barriera di acciaio di 4 mm, lunga 84 metri e alta 3 per isolare dal resto della città l’area più problematica. Sgomberato il quartiere, col trasferimento altrove dei suoi abitanti di cittadinanza italiana o con permesso di soggiorno, il “Bronx di Padova” si è rapidamente ricostituito nei dintorni della stazione ferroviaria.
Di minor dimensione, ma da segnalare, sono gli scontri avvenuti a Genova fra srilankesi di etnie già ostili in patria (21 agosto e 11 ottobre 2007), con mazze e spranghe di ferro, e fra albanesi e romeni, con bottiglie e coltelli (14 ottobre 2007). Da ricordare sono anche gli scontri fra diversi gruppi di nomadi come quelli, particolarmente gravi, avvenuti a Milano (21 giugno 2007), dove dei clandestini da poco arrivati hanno attaccato dei regolari e ne hanno bruciato le roulottes per protestare contro il fatto che il Comune non le avesse assegnate anche a loro;
8) gli scontri tra le bande dei giovani immigrati o figli d’immigrati. I primi casi significativi si sono avuti a Genova e a Milano fra ecuadoriani e peruviani, che hanno aggredito anche dei giovani italiani (il 12 gennaio 2008 a Genova un giovane ecuadoriano è stato ucciso con una coltellata da un giovane peruviano in una rissa in una discoteca fra appartenenti a tali bande). Il problema si è però già esteso ad altre città, fra cui Roma, Torino, Venezia, Firenze e Napoli, e ad altri gruppi etnici, fra cui i salvadoregni, i messicani, i romeni, i marocchini, gli egiziani, i senegalesi, ecc..
Particolare, ma non meno grave, è il caso delle bande dei giovani nomadi presenti in diverse città, fra cui Milano e Roma.
A Milano, nell’area di piazza Prealpi, nel quartiere della Bovisa, tra il 2007 e il 2008 si sono avuti anche diversi attacchi a immigrati filippini con catene, spranghe, bastoni e coltelli, da parte di giovani italiani: un fatto molto preoccupante dato che nella città, da molto tempo, non si registravano aggressioni di stampo razzista. Più recentemente a Genova si è avuta un’aggressione di stampo chiaramente razzista a un giovane angolano;
9) le lotte degli immigrati a sostegno di determinate rivendicazioni. A Roma degli immigrati hanno occupato l’edificio delle Poste di piazza San Silvestro per protestare contro i costi e i tempi per il rilascio dei permessi di soggiorno (26 settembre 2007). Più recentemente (29 luglio 2008) a Napoli vi è stata anche l’occupazione del Duomo da parte di un gruppo d’immigrati, seguita da violenti scontri con la Polizia, dopo lo sgombero nel quartiere periferico di Pianura di una palazzina abitata da un’ottantina d’immigrati. All’occupazione e agli scontri hanno partecipato elementi dei “centri sociali” di Napoli;
10) i conflitti “culturali” contro l’apertura di luoghi di culto e di scuole confessionali per gli islamici. Di particolare rilievo, negli ultimi anni, sono state le reazioni alla costruzione di grandi moschee a Genova, Bologna, Milano e a Colle Val d’Elsa (in provincia di Siena); all’istituzione di una scuola islamica a Milano, su cui si sono aspramente divise anche le forze politiche locali e all’apertura di un corso di formazione per imam a Brescia. Da ricordare è l’azione intrapresa a Lodi (15 gennaio 2001) contro la costruzione di una moschea, il cui terreno è stato cosparso con urina di maiale, in segno di spregio per le convinzioni degli islamici (un’iniziativa provocatoria che ha fatto rapidamente scuola: nel 2006 a Colle Val d’Elsa è stata deposta una testa di maiale nel cantiere della moschea; nel 2007 a Bologna è stata proposta l’organizzazione di una “fiera del maiale” nell’area in cui era prevista la moschea; nello stesso anno a Padova è stata effettuata una “passeggiata con maiale” sul terreno destinato ad un’altra moschea).
In numerose città sono state presidiate le aree utilizzate dagli islamici per i loro culti e a Brescia (16 agosto 2007) e in due cittadine in provincia di Milano, Segrate (6 agosto 2007) e Abbiategrasso (23 ottobre 2007), sono state gettate delle bombe incendiarie contro le moschee. A Bagnoli, in provincia di Padova, sono stati invece i musulmani a organizzare delle ronde per prevenire gli attacchi alla loro moschea da parte di quegli elementi estremisti che avevano proclamato di voler impedire in ogni modo “il dilagare dell’islam in terra veneta”.
Resistenze alle moschee si sono avute anche a Venezia, Pavia, Varese, Como e Bergamo. Per risolvere l’annosa questione dei conflitti suscitati dal centro islamico di via Jenner a Milano (i cui fedeli ogni venerdì occupavano per centinaia di metri il marciapiede), è dovuto intervenire lo stesso Ministro dell’Interno Roberto Maroni, che ha chiesto al Comune di concedere temporaneamente agli islamici, per le loro preghiere, l’uso del velodromo Vigorelli (luglio 2008).
Ma conflitti per le moschee si profilano già anche tra gruppi islamici di diversa affiliazione. Va sottolineato che le reazioni all’“islamizzazione dell’Europa” s’inseriscono, in parte, in un quadro internazionale preciso: a Colonia, in Germania, recentemente (20 settembre 2008) è stata organizzata da gruppi neonazisti locali una manifestazione di questo tipo (poi vietata dalla Polizia).


D.… il “rischio banlieue (…) situazione in piena evoluzione …


Ma la vicenda più simile per la sua dinamica agli eventi delle banlieues francesi è stata forse la reazione all’uccisione di un diciannovenne, originario del Burkina Faso, che aveva compiuto un piccolo furto. A Milano il 14 settembre 2008, all’alba, in una via vicina alla Stazione Centrale, il giovane, un frequentatore del Centro Sociale Leoncavallo, già condannato per furto, è stato colpito alla testa con l’asta metallica del furgone dai gestori di un bar mobile cui aveva sottratto solo qualche pacchetto di dolciumi, ma che pensavano di essere stati derubati di tutto l’incasso. Lo scontro è avvenuto nel corso di una rissa cui avevano partecipato anche due altri giovani di colore, armati di bottiglie e di una mazza da golf, coi quali l’ucciso aveva trascorso la notte in discoteca.
Il fatto ha suscitato violente manifestazioni di protesta (anche perché nel corso di quella rissa erano volati insulti razzisti), con atti di vandalismo e scontri con le Forze dell’ordine (20 settembre 2008). Proprio in relazione a tali scontri è stato evocato esplicitamente il “rischio banlieue”, dovuto a una saldatura fra immigrati africani di seconda generazione e militanti dei “centri sociali” più radicali.
Più recentemente a Milano dei gravi scontri sono scoppiati dopo l’uccisione a coltellate di un giovane egiziano da parte di tre dominicani in via Padova: una piccola guerriglia urbana, cui hanno partecipato anche altri nordafricani, che, dando la caccia ai latino-americani, hanno incendiato cassonetti, rovesciato automobili e infranto vetrine (13 febbraio 2010).
La situazione è dunque in piena evoluzione, con una marcata tendenza all’aumento di alcuni tipi di conflitto, che stanno diventando anche più diffusi e più aspri. Occorre dunque seguirne con attenzione i possibili sviluppi. La campana della basilica di Saint-Denis (la banlieue dove sono cominciati gli scontri parigini del 2005) è infatti suonata anche per noi.



Franco Ferrarotti



D.… il contrasto centro-periferia ha ancora una sua corposa consistenza, ma si va attenuando …


Il mondo si va urbanizzando. La popolazione mondiale è sempre più urbanizzata. Ma è una urbanizzazione, spesso, spuria: urbanizzazione senza industrializzazione. Di fatto, la contrapposizione città-campagna non regge più. La sequenza elaborata, profeticamente, da Lewis Mumford città-metropoli-megalopoli-necropoli resta come una pura proiezione di preoccupazioni personali, rispettabili, ma scientificamente irrilevanti. L'effetto di padronanza della città – lo stile di vita urbano – si è esteso e sta per dominare la campagna. Una nozione come quella di W. Helpbach, su "l'uomo della metropoli", e neppure il tipo metropolitano blasé di G. Simmel appartengono al passato.
Del resto, gran parte delle categorie descrittive ed esplicative della sociologia urbana corrente appaiono ormai liquefatte, hanno perso il loro valore cognitivo effettivo, restano come residui storici ad uno sguardo retrospettivo critico. Il rapporto città-campagna, oggi, è sempre più un continuum. Il contrasto centro-periferia ha ancora una sua corposa consistenza, ma si va attenuando. La periferia è sempre meno periferica. Sta emergendo una nuova realtà urbana.
È l'aggregato policentrico. Non è naturalmente un processo automatico, né indolore come dimostrano ampiamente i contributi di M. I. Macioti, M. Ilardi, U. Melotti. Né d'altro canto non si può ragionevolmente sperare in un miracolo della Rete. Confidare che grazie al Web sia possibile, in tempi brevi, creare anche tra gli abitanti delle periferie estreme, tuttora statiche, una effettiva "unicità", come di recente sostenuto da Saskia Sassen, vuol dire analizzare a igienica distanza e studiare i borgatari dalla terrazza di superattici di lusso.

D.… occorre un concetto di cittadinanza più ampio …


La situazione urbana è in movimento. Questo movimento evolutivo sembra puntare verso un certo tipo di integrazione, se non altro per motivi di sopravvivenza, ma l'incontro non esclude lo scontro, l'integrazione non vuol dire assimilazione, e neppure, come usava dire un poeta antropologo ad orecchio, "omologazione". La tendenza isomorfica c'è, ma non è un idillio. Può dar luogo, e di fatto ha già dato luogo, a deflagrazioni violente. È un abbraccio mal calcolato. Anche se pre-politica, o im-politica o anti-politica, questa violenza non è patologica. È forse l'unico modo, pur deprecabile, di farsi visibili. È un sanguinoso atto di presenza, che paradossalmente richiama i riti cruenti che presiedono storicamente alla fondazione della città. È noto che la violenza ha una vocazione fondatrice. Machiavelli lo ha imparato dal racconto biblico: dietro ogni legittimità formale c'è un atto di illegittimità violenta, sanato in un secondo momento dal "ricamo" giuridico.
La violenza non può essere solo repressa, non pone solo un problema di polizia. Occorre un concetto di cittadinanza più ampio di quello classico, dal polites greco al civis romano al membro certificato delle corporazioni medievali al citoyen della Rivoluzione francese che, a dispetto dei "diritti immortali dell'uomo", viene riconosciuto solo in quanto proprietario di un lembo di territorio francese. Al di là del Blut und Boden (sangue e terra), occorre un concetto di cittadinanza inclusivo, non esclusivo. Ma forse non basta. Fin da oggi, bisogna elaborare un concetto di cittadinanza transculturale, legato a quelle che chiamo le "co-tradizioni" culturali. Traguardo importante. Mèta collettiva che dovrebbe mobilitare gruppi politici e intellettuali, ossia la classe dirigente in senso lato, vale a dire governante e influenzante. Per ora, questa classe non è all'orizzonte. Si ragiona in termini di mercato, legittimo come foro di negoziazioni, inetto come produttore di valori in sé, cioè non utilitari. Di qui, il prevalere di criteri valutativi mercantili, che portano dall'economia di mercato alla società di mercato, vale a dire alla negazione della società come compagine umana di per sé significativa. I valori strumentali vengono spacciati per valori finali. I rapporti umani interpersonali cessano di aver valore in sé e per sé; si pervertono i rapporti di mera utilità e di reciproco sfruttamento.


D.… invece del ‘melting pot‘ si va affermando la ‘salad bowl’ …


Nell'ormai lontano 1992, in un colloquio al "Centre Culturel Français", Alain Touraine esaltava, in cortese polemica con me, la raison illuministica come unico vero valore universale, contro il quale inutilmente cercano di farci cospargere il capo di cenere e di coprirci di inesistenti colpevolezze i campioni – sempre secondo Touraine – di un terzomondismo volgare che sputa su ciò che non ha neppure compreso e che, ad ogni buon conto, non ha altra via che quella di rifarsi alla tanto criticata "raison" quando intende seriamente uscire dal circolo vizioso della miseria e del sottosviluppo cronico.
Fa girar la testa pensare che Touraine – un sociologo europeo fra i più progressisti – si limiti, duecento anni dopo, a ricalcare le posizioni espresse peraltro in maniera meno grave di Voltaire nell'opera Le siècle de Louis XIV (si veda in proposito l'ultimo capitolo del mio Oltre il razzismo, Armando, Roma, 1988).
La critica, e anzi, la lotta politica contro il multi-culturalismo non si nutre solo del "pregiudizio euro-centrico" e del supposto primato dell'Occidente, sia morale-politico che tecnico. Esso sfrutta, nei paesi di fatto multi-razziali e tendenzialmente multi-culturali, la evidente crisi odierna della teoria del "melting pot"(il crogiuolo).
Il "melting pot" era un'ipotesi tutto sommato formulata alla leggera, soprattutto dai sociologi e antropologi nordamericani.
Invece del "melting pot", si va affermando la "salad bowl" (l'insalatiera), che:
1) mette in pericolo – così dicono – il carattere unitario dello Stato nazionale (ciò che non ritengo un male, ma che è invece vissuto e presentato dalle scienze sociali accreditate come un delitto di lesa maestà;
2) rovescia o comunque mette in pericolo i "valori nobili"; è un insopportabile attacco alla civiltà euro-occidentale, alla sua cultura.
Di che cultura si tratta?
a) cultura di élite – individualistica – contro oi pollòi (i più), fondata su una paidéia, o processo formativo, elitario; mentre sembra oggi necessario;
b) passare dalla cultura come termine normativo esclusivistico alla cultura come concetto antropologico, vale a dire la cultura come modo di vita, come insieme di esperienze e di valori condivisi e convissuti.
Infatti: la cultura normativa di élite, per cui il grand individu si afferma contro la massa dei comuni mortali, vieta di capire gli altri in quanto altri.
Ma, in un mondo sempre più interdipendente su scala planetaria, il contatto con gli altri è inevitabile. Quale tipo di contatto? La cultura normativa euro-centrica può concepire solo un contatto in termini di proiezione di sé sugli altri, vale a dire come cooptazione, più o meno forzosa, degli altri in sé, avendo come unica alternativa questo "assorbimento" assimilatore, la distruzione e il genocidio, più o meno "perfetto". Rispetto alla cultura euro-centrica, infatti, ogni altra cultura è pre-cultura, in-cultura, cultura "abusiva", da superare, "redimere" o semplicemente cancellare.


D.…il bisogno di significato (…) è ciò che rende possibile l'accettazione e il rispetto delle culture differenziate e la loro presenza storica…


È curioso che anche studiosi "progressisti" denuncino il multi-culturalismo come un insopportabile peso o impossibilità, di fatto o di principio, e così via. Ma il loro "universalismo" è solo l'espressione, in termini pseudo-universali, della loro particolare appartenenza al mondo della "raison" illuministica.
L'equivoco mi sembra consistere nella confusione tra razza e cultura – un equivoco mortale che, per quanto concerne la cultura europea può esser fatto risalir all'Essai sur l'inégalité des races humanines di Arthur de Gobineau. Le razze possono ben essere differenziate, ma tutti i gruppi umani, indipendentemente dal loro grado di sviluppo tecnico, hanno in comune la capacità di produrre sistemi di significato – ed è in questa capacità che va ricercata e valorizzata la loro fondamentale convergenza.
Indubbiamente, le culture sono "no shopping wholes", ossia costruzioni dotate di coerenza interna o congruità tendenziale che non si possono "vendere" o "prendere a prestito" al dettaglio, per così dire. Ma al di là dei contenuti – e a parte la considerazione delle grandi co-tradizioni culturali storiche o "culture meticciate" – ciò che è da sottolineare è la loro comune tendenza a porre in essere determinati significati. Il bisogno di significato – e non i significati specifici dal punto di vista contenutistico – è ciò che rende possibile l'accettazione e il rispetto delle culture differenziate e la loro presenza storica.


D.… la vera sfida, oggi, è come tradurre o, meglio, completare la società multietnica con la società multi-culturale…


Si chiarisce in questa prospettiva come non solo sia possibile una società multi-etnica ma come, anzi, oggi, questa società di fatto già esista in tutti i paesi tecnicamente progrediti, nonostante la riluttanza, comprensibile ma non giustificabile, ad aprire le porte agli immigrati extra-comunitari, per quanto riguarda l'Europa, e malgrado l'egoistica illusione che, chiamando dall'estero braccia, non arrivino poi delle persone e, insieme con le persone, le famiglie, le mogli, i bambini.
La vera sfida, oggi, è come tradurre o, meglio, completare la società multietnica con la società multi-culturale. Qui il compito è più arduo poiché presuppone l'accettazione dell'alterità dell'altro e l'uscita dalla concezione della cultura come strumento di dominio e capitale privato.



© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA