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GNOSIS 4/2009
Interferenze e sicurezza

Europa - Russia - Stati Uniti
nuovo triangolo della geopolitica


Roberto MENOTTI

 
L’evoluzione dei rapporti tra Europa e Russia può essere meglio compresa nel contesto di un triangolo che coinvolge anche, a pieno titolo, gli Stati Uniti. Si deve partire, infatti, da un’osservazione di fatto: dei ventisette paesi-membri dell’Unione Europea, ben ventuno sono al contempo membri della NATO, il che crea un legame di sicurezza diretto con Washington anche ove si volesse prendere in considerazione solo il lato “eurasiatico” del triangolo. Inoltre, è evidente che la Russia stessa guarda alle questioni europee in stretta connessione con le politiche americane, dal sistema antimissile alle grandi infrastrutture energetiche. Infine, non è più possibile (se mai lo è stato) isolare il ‘vecchio continente’ da quanto accade al di fuori di esso: si pensi all’impatto della crisi economica sulla redistribuzione mondiale del potere, al programma nucleare iraniano, al legame tra la missione afghana e l’evoluzione dell’intera Asia centrale. Tutto ciò costringe a valutare i rapporti con la Russia in un’ottica pienamente triangolare.


I dilemmi strutturali del rapporto
Europa-Russia


È un dato oggettivo che tra Europa e Federazione Russia sono cresciuti negli ultimi anni i rapporti di interdipendenza. Dopo la prima fase post-sovietica – coincidente con il periodo di Boris Eltsin – in cui l’asse di gran lunga prevalente era quello tra Mosca e Washington, gli anni di Vladimir Putin hanno visto un attivismo molto maggiore sul piano internazionale e la ferma volontà di reinserirsi nei giochi europei. Questo nuovo atteggiamento è stato ben sintetizzato da alcuni analisti come una scelta russa di tipo revisionista sul vecchio continente, mentre invece Mosca sarebbe assai più favorevole allo status quo sul piano globale (1) (riconoscendo i limiti della propria influenza). Se così fosse, saremmo di fronte ad una sfida diretta soprattutto per gli europei, anche se con essa si presentano notevoli opportunità.
Il dilemma di fondo, del resto ben noto, che una vera posizione comune europea non è tuttora emersa. L’interdipendenza è percepita come un vincolo ad alto rischio dai paesi centro-orientali di più recente adesione, e invece come una realtà geopolitica da sfruttare al meglio da paesi come Germania e Italia. Non si può negare che la realizzazione di grandi sistemi infrastrutturali come “Nord Stream” (nel Baltico) e “South Stream” (nel Mar Nero) tende a consolidare i rapporti di interdipendenza energetica, con vasti effetti economici e, in ultima analisi, di sicurezza.
La UE, come tale, tende ovviamente a ragionare nell’ottica della sua Politica di Vicinato, cioè tramite il tipico strumento degli accordi di partenariato, ma non riesce ad applicare appieno questa logica in un settore vitale come quello energetico. A sua volta, l’assenza di un forte coordinamento intra-europeo conferisce alla Russia una straordinaria leva negoziale da utilizzare, partendo dal “fatto compiuto” delle intese strette in particolare da Gazprom.
Il ruolo della Russia come cruciale fornitore energetico – ma ormai anche attore economico che ha una certa penetrazione in Europa – ha in effetti intensificato una delle asimmetrie del rapporto transatlantico: alcuni paesi europei hanno sviluppato legami di interdipendenza così stretta con Mosca da considerare la Federazione Russa come un protagonista della macro-regione “eurasiatica”; diversamente, gli Stati Uniti vedono nella Russia di Putin e Medvedev un possibile partner (peraltro piuttosto problematico) soltanto in particolari settori di azione. In sostanza – per Washington la collaborazione è assai più selettiva – chiunque sieda nello Studio Ovale e qualunque sia il tono dell’ultimo discorso del Presidente Medvedev o del Primo Ministro Putin.
Ferme restando queste considerazioni di fondo, è indubbio che gli scontri armati tra forze russe e georgiane nell’estate 2008 hanno lasciato un segno, nonostante gli sforzi europei per superare rapidamente la fase più critica senza mai interrompere i contatti: la Federazione Russa ha usato la forza militare contro un paese sovrano senza alcun avallo internazionale. Mosca ha sistematicamente accostato il suo intervento in Georgia a quello della NATO in Kosovo-Serbia, descrivendo entrambi come ingerenze a tutela di minoranze che si ritenevano gravemente minacciate. L’obiettivo principale di questo parallelo per la Russia sembra essere, oltre ovviamente a giustificare la propria iniziativa, quello di spingere l’Occidente (leggasi la NATO) a fare una sorta di mea culpa storico. Accettare questa equivalenza significherebbe in pratica ripartire da un nuovo equilibrio, meno vantaggioso per l’Occidente.
Del resto, che un certo revisionismo stia facendo breccia anche tra gli europei più tradizionalmente “atlantisti” sembra innegabile, se si pensa che perfino Javier Solana – un ex-Segretario Generale della NATO oltre che primo Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza della UE – ha recentemente dichiarato che alcune possibilità di migliori rapporti con la Russia non sono state colte per responsabilità occidentali (2) .
In sostanza, il ricorso russo alla forza contro la Georgia – anche a prescindere dalle corresponsabilità georgiane, che la UE ha espressamente riconosciuto – ha trasformato uno dei “conflitti congelati” in uno scontro militare aperto, e ciò non poteva che avere un impatto massiccio sulla percezione europea dei rapporti con Mosca. Di fatto, l’enorme rischio per gli europei è quello di dover “militarizzare” in qualche misura l’intero impianto della Politica di Vicinato, mentre è chiaro che il vantaggio comparato dell’Unione risiede nella prosperità economica e nella capacità di attrazione del proprio modello liberal-democratico.
Le peggiori preoccupazioni dell’estate 2008 sembrano essere rientrate, nella speranza che Mosca consideri in realtà l’intervento georgiano un’eccezione o un incidente di percorso da cui apprendere una lezione di prudenza. E si può affermare che l’effetto a medio termine di quella crisi sia stato sostanzialmente di cristallizzare le posizioni preesistenti, più che di cambiarle radicalmente: la Russia rimane fortemente “sovranista” nella sua visione delle questioni di sicurezza ai propri confini, gli Stati Uniti guardano con diffidenza alla politica estera russa ma sono disposti a collaborare pragmaticamente, e infine tra gli europei persistono tutte le sfumature in termini di percezione dei rischi e delle opportunità.
La situazione è notevolmente complicata dal fatto che l’intera lettura della storia post 1989 (o post 1991) non è affatto condivisa in Europa: manca una “narrativa” comune, e dunque un assetto diplomatico, economico e di sicurezza che tutti considerino stabile e soddisfacente (3) . O almeno, questa è l’immagine che spesso si vuole dare a Mosca, visto che si è creato un circolo vizioso per cui la contestazione degli equilibri post 1991 sembra rafforzare la popolarità interna del governo russo. Su questa dimensione interna torneremo nella sezione conclusiva; intanto si deve sottolineare come l’allargamento ad Est dell’Unione Europea abbia inglobato, per così dire, anche tutte le differenti percezioni della frattura che chiamiamo “1989”. I paesi baltici e almeno alcuni membri dell’ex Patto di Varsavia non condividono la visione piuttosto “rilassata” delle questioni di sicurezza lungo la vasta zona di contatto con la Federazione Russa che invece prevale tra i vecchi membri della UE. Da parte sua, la leadership dell’era Putin-Medvedev ha in effetti una “vocazione europea”, ma non certo in termini di accettazione passiva del modus operandi tipico della UE, bensì in termini di partecipazione come grande potenza alla creazione di nuove regole nel vecchio continente “allargato”.
Una conferma che il problema delle regole del gioco sia tuttora irrisolto viene dalle persistenti difficoltà nel siglare la ormai famigerata “Carta energetica” che la UE ha approntato, ma anche nel raggiungere l’obiettivo di far entrare la Russia nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Si tratta di limiti molto gravi dal punto di vista europeo, perché è proprio in questo sistema di accordi e scambi regolati che la UE gode di un profilo internazionale più alto e dunque di maggiore influenza. In assenza di un pieno inserimento russo nel quadro di governance preferito dall’Europa, Bruxelles ha intanto completato il ventaglio di paesi “vicini” coperti da politiche formalizzate, con il varo della “Partnership orientale” nel maggio 2009. Con questo pacchetto di proposte di cooperazione piuttosto flessibile – per ora tutte da verificare sul piano pratico – l’intreccio fra le aree di diretto interesse russo e la proiezione esterna della UE si è fatta del tutto evidente (4) .
Non a caso, in una situazione che rimane piuttosto fluida lungo i confini euro-russi (anche per la linea ufficiale della NATO, che rimane quella della “porta aperta” nonostante il congelamento delle candidature ucraina e georgiana), da alcuni mesi è cresciuta l’insistenza con cui il governo russo chiede di ridiscutere il quadro complessivo degli equilibri pan-europei.
A fine novembre, il governo russo ha pubblicato la prima bozza di un testo per un nuovo “Trattato di sicurezza europea” (5) , che rende più concrete le proposte assai vaghe avanzate già prima della guerra georgiana del 2008 e successivamente riprese in una serie di interventi soprattutto dal Presidente Medvedev. In sostanza, il documento punta a sollevare un problema cruciale: la mancanza di co-decisione (un pessimista direbbe “di un potere di veto russo”) su eventuali situazioni di crisi nell’area pan-europea (definita nel modo più largo possibile, come nei primi anni ‘90, cioè da Vancouver a Vladivostok). L’accordo proposto vuole espressamente abbracciare tutte le organizzazioni esistenti, cioè naturalmente la NATO ma anche la stessa OSCE, che ad oggi è l’unica organizzazione di sicurezza pan-europea. È noto però che l’OSCE è stata svuotata di quasi tutte le sue dimensioni di sicurezza “hard”, e che la NATO ha effettivamente adottato una specie di auto-legittimazione politica – sebbene non pienamente giuridica – in occasione delle operazioni in Kosovo e Serbia del 1999. È proprio questo ultimo passaggio a costituire il nodo più contestato dalla parte russa.
Su tale sfondo, la proposta sembra voler ribadire in sostanza i principi della Carta di Parigi che nel 1990 aprì la strada alla creazione dell’OSCE (trasformando nel 1995 la vecchia CSCE ereditata dagli anni ‘70), ma questa volta da una posizione di maggiore forza contrattuale per la Russia. Un nuovo Trattato potrebbe di fatto “fotografare” la situazione geopolitica attuale, sancendo così anche una diretta presenza militare russa nelle enclavi georgiane (Abkazia e Ossezia del Sud), come pure la mancata soluzione dell’altro “conflitto congelato” in Moldova (con la presenza di forze russe nella regione separatista della Transnistria).
Ancora più chiaro è il tentativo di bloccare ogni ulteriore allargamento sia della NATO che della UE, visto che fatalmente Mosca porrebbe all’ordine del giorno di una discussione “di principio” qualsiasi ipotesi di nuova adesione, sostenendo che questa altererebbe il quadro geopolitico continentale: si tratterebbe dunque, per la Russia, di una sorta di diritto di voto (se non addirittura di veto) sulle decisioni fondamentali delle due storiche organizzazioni da cui è esclusa.
D’altra parte, non è facile per i paesi occidentali ignorare del tutto l’ipotesi di ridiscutere i princìpi generali della sicurezza pan-europea. Molto probabilmente, siamo dunque alle battute iniziali di una discussione che tenderà comunque a non interrompersi del tutto; il Presidente francese Sarkozy è stato il primo ad esprimere apertamente un certo generico interesse per l’ipotesi, senza peraltro prendere alcun impegno sostanziale. Ma è chiaro fin da ora che il problema di fondo è fino a che punto accettare un diritto russo di interferenza formale nelle decisioni di una vera alleanza di tipo classico come la NATO. A onor del vero, chi osserva che la NATO si è trasformata in uno strano ibrido non ha torto: essa ha effettivamente svolto alcune funzioni che vanno ben oltre quelle tipiche di una pura alleanza difensiva, come è senza dubbio il caso della missione afgana, a dispetto del suo radicamento nell’art. 5 del Trattato nordatlantico. D’altra parte, guardando appena oltre le dichiarazioni ufficiali, la Russia obietta all’espansione delle funzioni della NATO non certo per tutelare il diritto internazionale, e neppure per delimitare il ruolo della vecchia alleanza al continente europeo. Ha scopi più specifici: bloccare ulteriori allargamenti e limitare il peso militare e politico di qualunque possibile coalizione a guida americana incentrata sulla NATO.
La proposta di un nuovo Trattato pan-europeo forza dunque gli europei a mostrare le carte, cioè anzitutto la propria visione del rapporto transatlantico, in un momento in cui francamente tale visione è piuttosto offuscata o almeno incerta. E, per nulla accidentalmente, nei mesi decisivi per la redazione del Concetto di Sicurezza aggiornato da formalizzare a fine 2010.
L’ipotesi di Trattato pone però in evidenza anche un altro problema di fondo, questa volta tra la visione russa e quella della UE: mentre Mosca insiste sul principio della non-interferenza basato sul tradizionale concetto di sovranità, la UE adotta una concezione “mista” della sicurezza che passa anche per un’interferenza sistematica negli affari interni (quantomeno rispetto a eventuali violazioni dei diritti fondamentali). Mentre cioè la proposta russa punta a una riedizione della vecchia sicurezza collettiva (con grande enfasi sulle questioni territoriali), la maggioranza degli europei è decisamente più interessata a sviluppare un coordinamento delle politiche di sicurezza in settori come l’antiterrorismo, o la lotta alla pirateria e al crimine organizzato. E, inevitabilmente, una tale attività di coordinamento presuppone un alto grado di fiducia reciproca, con fitti scambi di informazioni e stretti collegamenti tra autorità giudiziarie e di polizia.
Nella misura in cui si pianifica in Europa un impiego più massiccio della forza militare, lo si fa comunque in riferimento a missioni di pacificazione/stabilizzazione, ma in quel caso si tende a guardare agli Stati Uniti come a un partner cruciale – se non necessariamente – in ogni situazione. Come noto, le forze americane forniscono di fatto un vero “sistema operativo” comune per le maggiori operazioni multinazionali, dalla logistica alle comunicazioni fino alle dottrine di impiego delle forze – il che non significa un perfetto coordinamento né l’assenza di frizioni, come dimostra ogni giorno l’Afghanistan, ma certo implica una radicata abitudine a cooperare.
Se tutto ciò viene tenuto in considerazione, la NATO resta comunque una scelta migliore rispetto a una serie di accordi ad hoc per ogni singola missione. Senza con ciò negare i suoi limiti e difetti: soprattutto il sistema di finanziamento e i meccanismi decisionali, oltre al mandato subordinato ad una legittimazione ulteriore – quella ONU – quando l’alleanza agisce “fuori area”.
In conclusione, della proposta russa di un nuovo Trattato resta soltanto una possibile utilità come quadro di riferimento generale, ma allora non si vede in che cosa esso sia preferibile alla già collaudata OSCE.
In estrema sintesi, l’iniziativa russa appare ad oggi come una mossa scaltra in termini tattici (anche perché a basso costo per chi l’ha lanciata), ma con poche probabilità di successo.


Il fattore America
l’amministrazione Obama e i dossier (ri)aperti


L’amministrazione Obama ha varato una politica basata sul concetto di un “reset]” dei rapporti con Mosca: una sorta di apertura di credito intesa, in primo luogo, a rimarginare le ferite alla fiducia reciproca inferte dalla crisi georgiana dell’estate 2008. I primi passi concreti su questa strada si sono configurati come un possibile scambio: la sospensione del progetto di difesa antimissile in Repubblica ceca e Polonia in cambio di una più attiva collaborazione russa sul dossier nucleare iraniano. L’esistenza di una proposta di scambio così diretto è stata, comprensibilmente, negata a livello ufficiale (soprattutto da Washington), ma si tratta comunque di un importante test della reale volontà di Mosca di identificare e perseguire interessi condivisi. È forse ancora presto per trarre conclusioni, ma intanto Washington ha avuto un parziale ripensamento nella gestione del programma anti-missile, inviando in autunno il vice-presidente Biden a rassicurare i governi ceco e polacco con la promessa di coinvolgerli comunque in un più ridotto sistema di difesa antimissile.
Queste pressioni contrastanti sull’amministrazione Obama riflettono in pratica un limite strutturale agli sforzi di “reset”: il miglioramento del clima con Mosca non potrà realizzarsi a discapito dei legami con vecchi e nuovi alleati in Europa, perché ciò rischia di indebolire seriamente la posizione americana sul Continente.
Anche in coincidenza con la questione missilistica, si è così riaperto un dibattito sulle garanzie alleate – cioè in primo luogo americane – incarnate dall’art. 5 del Trattato Nordatlantico: un dibattito occasionato anche dalla revisione del Concetto Strategico, come ricordato. Alcune delle audizioni tenutesi presso il Senato americano negli ultimi mesi con l’ex-Segretario di Stato, signora Albright (che attualmente presiede la commissione di esperti per una prima ricognizione di un nuovo documento) evidenziano che le preoccupazioni principali nel Congresso americano si concentrano proprio sulla garanzia fondamentale all’integrità territoriale come vecchio “cuore” del rapporto di alleanza (6) . Ciò soprattutto alla luce della sensibilità verso i membri europei centro-orientali: un atteggiamento che ricorda la prima fase dell’allargamento post-guerra fredda, con l’adesione di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, quando la discussione fu soprattutto sull’art. 5 piuttosto che su un generico ruolo globale della NATO. È chiaro insomma che gli eventi dell’estate 2008, e più complessivamente la nuova assertività russa, hanno spostato nuovamente l’asse dell’attenzione politica di Washington su fondamentali questioni di sicurezza in Europa. Ma si deve riconoscere che c’è una certa incoerenza tra queste spinte verso un maggiore attivismo americano sul continente, da un lato, e la fase di riduzione degli impegni internazionali che l’amministrazione Obama sta perseguendo in molti teatri strategici, dall’altro.
Come ha ben sintetizzato Ivan Krastev (che ha studiato in profondità l’attuale leadership russa), Washington e Mosca non hanno probabilmente obiettivi e sogni comuni (cioè non condividono una visione del mondo), ma hanno alcune importanti preoccupazioni comuni, a partire dal ruolo della Cina e dalla penetrazione dell’islamismo radicale (7) . Si può probabilmente aggiungere l’obiettivo della non-proliferazione delle armi di distruzione di massa, in cui non a caso qualche progresso si sta registrando con la conclusione di un Trattato bilaterale sulle armi nucleari strategiche che sostituisca lo “START”. A ciò ovviamente si collega indirettamente anche lo sforzo americano di coinvolgere attivamente Mosca nel mettere sotto controllo il programma nucleare iraniano e, con modalità diverse, quello nord-coreano.
Questa non sarà forse una base saldissima per una partnership a tutto campo – il che conferma l’ipotesi avanzata sopra di un rapporto “selettivo” su singole questioni – ma quantomeno consente di tenere sotto controllo eventuali incidenti di percorso e questioni controverse.


Opzioni e limiti
scelte europee, realtà russe e trend mondiali


Il sistema politico russo determina in larga parte il modo in cui prende corpo la proiezione internazionale del paese. Quel sistema politico rimane tuttora lontano dalla democrazia liberale e dai modelli europei, continuando a risentire di problemi “identitari” o psicologici, oltre che di interessi concreti solo in parte coincidenti con quelli europei. Anzi, si nutre di una specie di frustrazione nazionalista che continua a consentire la gestione populista del consenso da parte dell’élite al potere.
Non è necessario credere in una correlazione diretta e automatica tra regime interno e politica estera, per vedere molte ombre nel modo in cui la leadership russa gestisce gli affari internazionali. Sembra esservi una costante tentazione – sebbene non una scelta definitiva e univoca – di giocare il ruolo di potenza “revisionista”, il che si scarica soprattutto, come detto in precedenza, proprio sull’Europa.
È vero che una dialettica interna esiste, anche se entro argini piuttosto stretti: si è comunque creata una dinamica tra posizioni in parte diverse rappresentate dal Presidente Medvedev e al Primo Ministro Putin. I due si rivolgono probabilmente a settori diversi dell’opinione pubblica, ma per ora non in modo antagonistico bensì quasi parallelo (8) . Sono, a tutti gli effetti, i leader incontrastati, eppure la loro interazione produce una politica estera con qualche oscillazione: talvolta orientata ai rapporti di interdipendenza e alla modernizzazione, talvolta sbilanciata sulla contrapposizione ad una sorta di “accerchiamento” occidentale e su un nazionalismo molto tradizionale.
Alla luce di questa situazione interna alla Federazione Russa, una possibile linea d’azione per gli europei – che può in parte prescindere da una forte coesione intra-UE – sta nello sfruttare al meglio il livello di interdipendenza economica già esistente. Un caso sintomatico è il delicato rapporto con l’Ucraina come snodo infrastrutturale tuttora indispensabile: il problema ucraino – con la persistente instabilità politica del paese e soprattutto la sua doppia identità linguistico-culturale – può danneggiare gli stessi interessi russi. L’arma di ricatto del blocco quasi periodico delle forniture russe è, a lungo andare, autolesionistica. In particolare alla luce degli sviluppi tecnologici in atto nel settore del gas naturale – che ha reso economicamente vantaggioso lo sfruttamento di grandi nuove riserve – è ancor più interesse comune stabilizzare il rapporto tra fornitore russo e clienti europei. Ad oggi, il gas di provenienza russa è comunque una scelta logica per molti paesi europei, ma le condizioni devono essere buone.
Va probabilmente in questa direzione pragmatica l’accordo raggiunto nel novembre scorso per un sistema di “early warning” relativo agli approvvigionamenti.
In ultima analisi, nell’interazione tra dinamiche interne, risorse energetiche e politica estera, molto dipenderà dalla tenuta economica della Federazione Russa, sulla quale nuovi dubbi si sono addensati a seguito della recessione globale del 2008-2009. Fintanto che la crescita rimane a livelli da “paese emergente” e ci sono prospettive realistiche di modernizzazione, il sistema politico russo sembra infatti reggere senza scossoni. Ma la diversificazione dell’apparato produttivo – e con essa il rafforzamento di un’ampia classe media – non è dilazionabile all’infinito, se non altro perché altrimenti finisce troppo per dipendere dai prezzi internazionali dei prodotti energetici. È esattamente questa esigenza a medio periodo che il Presidente Medvedev ha riconosciuto apertamente in alcuni dei suoi interventi pubblici più recenti, che infatti hanno ricevuto molta attenzione nei media occidentali (9) : Medvedev ha fatto esplicito riferimento al legame diretto tra modernizzazione del tessuto socio-economico del paese e integrazione nel sistema internazionale – il che implica senza dubbio accettarne i molti condizionamenti, uscendo invece dalla pura logica della “democrazia sovrana” su cui ha spesso insistito soprattutto Vladimir Putin. È evidente come una simile scelta complessiva avrebbe delle ripercussioni sul grado di pragmatismo della politica estera e di sicurezza. Ma ci vorrà pazienza, e l’esito non è affatto scontato.
Nel frattempo, gli europei – e la UE come tale – dovranno comunque lavorare assieme alla Russia su molti dossier complicati, cercando di non perdere l’occasione offerta da Obama con la fase del “reset”. Il momento della verità sta arrivando: gli Stati Uniti chiederanno a Mosca di farsi parte più attiva nelle politiche verso l’Iran – con crescente insistenza – e forse nella gestione di alcuni problemi in Asia centrale, visto il grave rischio di “effetti contagio” tra questione afgana e instabilità cronica delle ex-Repubbliche sovietiche.
Coltivare l’interdipendenza con la Russia (e alcuni dei paesi del Caucaso e dell’Asia centrale) è certamente un importante obiettivo europeo. Si tratta di farlo mantenendo un saldo ancoraggio agli Stati Uniti, per ragioni politico-culturali oltre che economiche e di sicurezza. Non è infatti interesse europeo chiudersi in una sorta di “blocco eurasiatico” che taglierebbe fuori la UE e i suoi membri proprio dalle aree più dinamiche dell’economia mondiale, cioè l’asse del Pacifico che collega per ora strettamente Nord America e Asia.
Le scelte tattiche e di stile sono rilevanti, come mostra l’opportunità giunta con la presidenza Obama e l’ascesa i Medvedev. Ma probabilmente il quesito centrale si pone a un livello “macro”: riguarda infatti i trend generali sul piano globale tra status quo, crescita di peso e ambizioni delle maggiori potenze emergenti, e declino relativo di alcune potenze tradizionali. In base a vari criteri, la Russia non possiede semplicemente quelle caratteristiche essenziali (demografia, clima imprenditoriale, atteggiamento delle autorità politiche verso l’economia, ottimismo verso il futuro nella società in senso ampio) che invece identificano le potenze emergenti. Ciò significa che le fondamenta di qualunque progetto euro-russo condiviso potrebbero comunque essere fragili.
D’altra parte, il primo anno dell’amministrazione Obama non ha restituito l’immagine di una superpotenza sicura di sé e in fase “espansiva”, ma semmai quella di un grande paese che sa di doversi – faticosamente – rinnovare all’interno, mentre ridimensiona alcuni costosi impegni all’estero (10) . Certo, si tratta pur sempre di una potenza “centrale” nel sistema internazionale, tanto per gli europei che per la Russia; ma non un punto di riferimento assoluto su tutti i dossier regionali.
Vista in questi termini assai sintetici, la situazione che l’Europa ha di fronte nel valutare il triangolo euro-russo-atlantico (o, se si vuole, il grande spazio che va da Vancouver a Vladivostok) riguarda soprattutto la gestione di un duplice declino relativo: quello russo, a dispetto del temporaneo recupero di influenza dovuto quasi esclusivamente ai prezzi delle materie prime energetiche; e il declino europeo, dalle quote di mercato al peso nelle organizzazioni per la governance mondiale.
Se questa analisi è corretta, allora la sfida principale che Europa e Russia condividono davvero è quella dell’adattamento e del rinnovamento: in tal senso, è bene ricordare che l’Europa è comunque assai meglio attrezzata della controparte russa, e qualsiasi negoziato di partnership dovrebbe tenerne conto.


(1) Si veda il capitolo introduttivo di Ivan Krastev, Mark Leonard, Andrew Wilson (eds.), What does Russia think?, European Council on Foreign Relations, London, 2009.
(2)Quentin Peel, “Interview with Javier Solana”, Financial Times, December 1, 2009. Sulla stessa linea, ad esempio, si veda: Aspen European Strategy Forum, Russia and the West. How to Restart a Constructive Relationship, November 2009.
http://www.aspeninstitute.de/uploads/assets/pdfs/general/AESF/Russia_and_the_West_fin.pdf.
(3) Si tratta di una considerazione che passa per le percezioni collettive e la storia delle idee, prima ancora che per la storiografia ufficiale. Si veda in proposito Aspenia, n. 46, settembre 2009 (“Il fine della storia: 89-09”), e Roberto Gualtieri e José Luis Rhi-Sausi (a cura di), L’Europa e la Russia a vent’anni dall’89 (Rapporto 2009 sull’integrazione europea), il Mulino, Bologna, 2009.
(4) L’elenco dei paesi cui si rivolge la Partnership parla da sé, visto che si tratta senza eccezioni di partner quantomeno “problematici”: Ucraina, Moldova, Bielorussia, Armenia, Azerbaijan, Georgia. Alcuni osservatori hanno notato che, se non altro, questa nuova iniziativa elimina un’ambiguità di fondo, chiarendo che la UE intende seguire una sua linea autonoma anche verso le regioni più sensibili per la Russia. Si veda ad esempio Cornelius Ochmann, “EU Eastern Partnership: Fine, but what about Russia?”, Spotlight Europe, n. 2009/06 – May 2009, Bertelsmann Stiftung.
(5) Http://eng.kremlin.ru/text/themes/2009/11/291600_223080.shtml
(6) Http://foreign.senate.gov/hearings/hearing/20091022
(7) Ivan Krastev, “Strong enough for a ‘reset’ with Russia?”, The Washington Post, December 1, 2009.
(8) Maxim Trudolyubov, “Who Runs Russia, Anyway’“, The New York Times, Novembre 20, 2009.
(9) Si veda ad esempio: President of Russia – Official Web Portal, “Speech at Helsinki University”, april 20, 2009, www.kremlin.ru.
(10)Sulle possibili valutazioni del primo anno di presidenza Obama, Aspenia, n. 47, dicembre 2009 (“Il metodo Obama e i suoi limiti”); e Aspenia online, www.aspeninstitute.it.

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