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GNOSIS 4/2009
Una pagina dolorosa della nostra storia recente

Il terrorismo italiano
ieri, oggi e... domani?


Giovanni FASANELLA


Foto Ansa
 
Proponiamo il contributo di un giornalista che da tempo si occupa del fenomeno eversivo in Italia, nello intento di aprire uno spazio ad un dibattito che con-senta, a personalità del giornalismo e della cultura, di analizzarne gli aspetti teorici, politici e criminali che lo hanno contrad-distinto.
Un approfondimento che, nel rispetto delle diverse opinioni, offra al lettore una conoscenza, più ampia possibile, delle varie forme di terrorismo endogeno che così profondamente hanno segnato la storia del nostro Paese.


La storia non si ripete mai due volte, dicono. Lo sostiene, fra i tanti, Ernesto Galli Della Loggia, in polemica con quelle firme del giornalismo come Giampaolo Pansa che, di fronte alla tensione che monta nel Paese, mettono in guardia dai rischi di un ritorno a un passato tragico. Dopo l’aggressione subìta da Silvio Berlusconi il 13 dicembre 2009 a Milano e la bomba “anarchica” trovata tre giorni più tardi all’Università Bocconi, alcuni opinionisti hanno subito evocato il clima degli “anni di piombo”. Un paragone del tutto sbagliato, secondo lo storico dei partiti e dei movimenti politici. Il quale ha così commentato, sul Corriere della Sera del 18 dicembre: «Sarebbe bene che i giornali evitassero di scrivere lo stesso articolo scritto qualche anno o qualche decennio fa», che evitassero «l’attualizzazione degli anni Settanta, la voluttà del già noto e del già detto». E, infine, Galli Della Loggia si è chiesto se «non sarebbe consigliabile fermarsi un attimo e cercare di farsi contagiare da un minimo di ragionevolezza».
Bene. Fermiamoci un attimo e proviamo a ragionare. Anche l’autore di questo articolo pensa che la storia non si ripeta mai due volte. Perché i contesti cambiano, ovviamente. E solo uno sciocco potrebbe non accorgersi delle differenze profonde tra il mondo di oggi e quello degli anni Settanta, tra l’Italia di oggi e quella degli “anni di piombo”. Ma questo che significa? Che il fenomeno del terrorismo, che segnò profondamente quel periodo della nostra storia, non possa riprodursi mai più, neppure in una forma, con modalità e protagonisti in parte diversi? Che il rischio di una nuova ondata di violenza sia del tutto irrealistico nel clima politico-sociale sempre più surriscaldato di questi ultimi mesi?
Al di là di quello che può pensare ognuno di noi, è la stessa storia dell’ultimo trentennio che in parte ha già risposto a questi interrogativi. Purtroppo. Prendiamo il terrorismo rosso (ma analoga attenzione meriterebbe anche l’eversione nera, mutevole nella forma, ma sempre attiva e pericolosa). Dopo l’assassinio di Aldo Moro, lo Stato riuscì a disarticolare Br e Prima Linea attraverso parecchie decine di arresti. Eppure, per quasi tutti gli anni Ottanta, ci fu un lunghissimo colpo di coda che provocò altri morti e feriti. E quando, nella fase di “sonno” che durò per tutta la prima metà dei Novanta, il nemico sembrava ormai definitivamente sconfitto, non ci accorgemmo che le Brigate Rosse si stavano riorganizzando. E così, verso la fine del decennio, caddero i giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e il poliziotto Emanuele Petri. I responsabili di quei delitti vennero catturati e si pensò che fosse davvero finita. Passarono alcuni anni di relativa calma.
Ma nel febbraio del 2007 una notizia ci risvegliò dal torpore: l’arresto di una quindicina di neobrigatisti tra Padova, Vicenza, Milano e Torino.
Questa volta i terroristi furono presi prima che potessero attuare le azioni clamorose che avevano programmato: attacchi a giornali e giornalisti, a sedi di partito e di industrie, l’assassinio di un giuslavorista consulente della Cgil, Pietro Ichino. Attentati progettati, preparati nei minimi particolari e già pronti per essere compiuti: in quale clima avremmo vissuto questi ultimi tre anni, se le nuove BR non fossero state fermate quasi sul filo di lana da forze dell’ordine e apparati di intelligence assai più preparati e vigili che in passato? Eppure, nonostante l’efficienza dello Stato, che aveva portato all’arresto dei membri della rete neobrigatista del Nord e alla loro condanna nel processo di Milano, la sensazione di aver inflitto un colpo mortale al terrorismo rosso sarebbe stata nuovamente smentita di lì a poco. Nel giugno del 2009 (2009!), altri sei neobrigatisti vennero catturati a Roma. Avevano già progettato azioni ancora più clamorose, tra cui addirittura l’assalto all’isola della Maddalena durante un vertice del G8, il summit che in un primo momento era stato annunciato in Sardegna e poi venne trasferito a L’Aquila.
Naturalmente si può discutere sulla capacità militare dei nuovi brigatisti, sul loro spessore politico-culturale e sul grado di consenso che hanno nelle fabbriche, nel mondo giovanile e negli strati intellettuali. E si può anche giungere alla conclusione che, da questo punto di vista, le BR che abbiamo conosciuto negli ultimi tre anni non fossero neppure lontanamente paragonabili a quelle che nel 1978 raggiunsero la «geometrica potenza» dell’operazione Moro. Ma non esiste una controprova. Perché questa volta, come abbiamo appena ricordato, lo Stato si è rivelato di gran lunga più preparato rispetto agli “anni di piombo”, ed è aumentata in modo particolare la sua capacità di prevenzione. Questo è un dato che tende ad essere sottovalutato, perché nessuno si domanda in quale atmosfera saremmo sprofondati se, nel 2007, i terroristi avessero avuto il tempo di colpire, oltre a Ichino, i quotidiani il Foglio di Giuliano Ferrara e Libero allora diretto da Vittorio Feltri, la sede milanese dell’Eni e quelle di industrie, partiti politici e organizzazioni sindacali. E quale devastante effetto propagandistico avrebbe avuto un eventuale successo di un attacco spettacolare come quello contro il G8. Forse non tutti ricordano che negli anni Settanta i terroristi di sinistra avevano un seguito, un’area di simpatia – e pure di una certa consistenza – in cui reclutavano a mani basse; e che il loro “successo” era in gran parte dovuto proprio alla spettacolarità delle loro azioni e al mito dell’imbattibilità che si era creato intorno a loro. Per un lungo periodo, anche a causa dell’impreparazione dello Stato di fronte al dilagare della violenza, in diversi ambienti si radicò l’idea che le BR fossero di fatto padrone del campo, se non addirittura a un passo dalla vittoria finale. E molti giovani border-line furono indotti a compiere il salto nella lotta armata.
Ma c’è un altro dato che tende ad essere sottovalutato, anche se è sotto gli occhi di tutti: al di là di ogni discorso, il fatto certo è che, nonostante i colpi subìti, nel tempo le Brigate Rosse si sono continuamente riprodotte. Questo dovrebbe preoccupare e indurre a una riflessione seria. Perché, a quarant’anni dalla loro nascita (convegno di Pecorile, colline reggiane, settembre 1970), le BR, ben lungi dall’essere archiviate definitivamente come il capitolo di un passato ormai morto e sepolto, sono invece ancora fenomeno di attualità? Da che cosa dipende questa loro longevità, che ha pochi precedenti nella storia del terrorismo europeo? Forse sarebbe troppo pretendere una risposta dal mondo della politica, così preso dalle beghe quotidiane e così poco attento alla storia di questo Paese. Ma la domanda è ineludibile. E le risposte che la politica non vuole o non è in grado di dare, possiamo chiederle almeno agli intellettuali, agli storici e ai giornalisti. Anche se il tema, lo si intuisce, può sembrare piuttosto ansiogeno.
La verità è che il fenomeno si riproduce perché le sue radici sono talmente profonde che non si è mai riusciti a estirparle del tutto. E alcune sono ancora più che mai vive. Guardiamo ai fatti. Che cosa ci dicono gli arresti del 2007, del 2009 e quelli recentissimi del gennaio 2010? Innanzitutto, che tra vecchie e nuove BR c’è una continuità ideologica. Ma non solo. Sono anche le persone a costituire una sorta di filo rosso che collega le varie ere del terrorismo. I leader quarantenni e cinquantenni arrestati di recente nel Nord e a Roma (Alfredo Davanzo e Claudio Latino, per citare qualche nome) erano i giovani apprendisti della lotta armata negli anni Settanta e Ottanta. C’è stato quindi un continuo passaggio di testimone da una generazione all’altra che ha sempre mantenuto in vita la rete organizzativa anche nei momenti di più dura repressione da parte dello Stato: sotto traccia, silente, mimetizzata, ma sempre attiva.
Illuminanti in tal senso proprio gli arresti dei giorni scorsi di due presunti appartenenti alle Nuove BR: Manolo Morlacchi, figlio dell’ex brigatista Pierino Morlacchi e di Costantino Virgilio.
Il legame diretto con l’esperienza degli “anni di piombo” è provato anche da molti altri elementi. Gli arsenali militari scoperti nei covi dei neo-terroristi, per esempio: armi utilizzate già in passato o, comunque, ereditate dai compagni di un tempo. La rete logistica di supporto, per fare un altro esempio: è la stessa del vecchio Soccorso Rosso ed è molto attiva non solo in Italia (fra il Triveneto e Milano), ma anche all’estero (tra la Svizzera e Parigi). È una sorta di network che, proprio come il Soccorso Rosso storico, fornisce assistenza legale ai compagni detenuti e alle loro famiglie. Promuove vere e proprie campagne di appoggio politico ai neobrigatisti incarcerati. Ed ha il suo ancoraggio in una serie di centri sociali tra i più estremisti dell’antagonismo di sinistra, discendenza diretta dei circoli del proletariato giovanile e dell’Autonomia degli anni Settanta.
Questi centri sociali – si pensi al Gramigna di Padova, dove diversi neobrigatisti hanno svolto negli ultimi anni il loro apprendistato – costituiscono l’acqua in cui nuotano i pesci, l’area di stretta contiguità dove i terroristi spesso si mimetizzano per proteggersi, per svolgere un lavoro di inseminazione ideologica e per reclutare nuovi adepti. Proprio come accadeva nella fase più acuta degli “anni di piombo”.
Abbiamo citato solo alcuni dei dati emersi dalle ultime inchieste, frammenti di una realtà assai più eloquenti di mille discorsi. Ma il legame non è solo con un passato recente, come quello degli anni Settanta. C’è una radice ideologica che va molto più in profondità, affonda nella storia di una parte della sinistra comunista, sempre più minoritaria per fortuna, ma ancora attiva. Dove resistono frammenti di una cultura che demonizza l’avversario trasformandolo in un nemico da abbattere, che alimenta l’idea secondo cui i conflitti politici e sociali si possono risolvere anche attraverso la violenza. Del resto, basti pensare che questo principio è sopravvissuto fino a qualche anno fa addirittura nello statuto di Rifondazione. E che in tempi recenti, in una conversazione con il giornalista Antonio Galdo – che ne ha tratto una biografia, Pietro Ingrao, il compagno disarmato, con l’eloquente sottotitolo: Ho sete e speranza di non violenza – l’anziano leader comunista ammette: «Ho speso un’esistenza battendomi per cose essenziali: il diritto di mangiare, crescere, istruirsi, curarsi, essere creativi nel proprio lavoro. Ma la mia biografia, come quella di tanti compagni, dimostra che non abbiamo avuto una vera distanza critica dalla violenza. È venuto il momento di affermarla...».
Era il 2004, appena cinque anni fa, quando Ingrao invitava la sinistra ancora comunista a prendere finalmente una «vera distanza critica» dalla violenza! Fa una certa impressione rileggere quelle sue parole sui conti mai fatti sino in fondo con una tradizione che ha visto crescere dentro di sé il “mostro”. Quel morbo la cui origine lo stesso Ingrao individua nel comunismo leninista e stalinista. E che, si potrebbe aggiungere, si è sviluppato sotto l’ala del Pci (ma in conflitto con la sua dirigenza più illuminata) già durante la Resistenza e per l’intero dopoguerra, fino ad esplodere con drammatica virulenza negli anni Settanta. Era l’idea di un’ora X, l’attesa quasi messianica del momento di rottura violenta e di sovvertimento dell’ordine sociale, che alcune frange del movimento partigiano comunista credevano fosse arrivata con la lotta di liberazione dal nazi-fascismo. Non tutti i partigiani comunisti combattevano per lo stesso obiettivo: se per alcuni era lotta di liberazione da un regime totalitario e da un occupante straniero, per altri era anche lotta di classe contro la borghesia per la conquista del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato. E quando il Pci di Palmiro Togliatti imboccò la strada dell’amnistia, della pacificazione nazionale e della Costituzione democratica, gli irriducibili gridarono al tradimento delle idee rivoluzionarie. La “Resistenza tradita”: il mito che ha nutrito per decenni prima l’ideologia del filone insurrezionalista “secchiano” e “feltrinelliano”; poi quella del terrorismo rosso; e infine, sopravvissuto anche al crollo del Muro e alla fine della guerra fredda, è giunto sino ad epoche più recenti per alimentare anche il filone del neo-brigatismo e della sua area di contiguità.
Bisogna leggere, per rendersene conto, le ultime parole di Mario Toffanin, il comandante Giacca dei partigiani comunisti friulani che nel febbraio 1945 massacrarono nella malga di Porzus, a pochi chilometri da Udine, partigiani anticomunisti della Brigata Osoppo, accusati di intelligenza con il nemico «fascista e borghese». Le pronunciò nel 1996, poco prima di morire, quasi che volesse consegnare alle generazioni future il suo testamento politico-morale, in un’intervista concessa a Rivoluzione, un foglio dell’area antagonista legato al centro sociale “Gramigna”. Un brano in particolare, tra i più illuminanti di quell’intervista, merita di essere citato integralmente:

Rivoluzione
Per molti partigiani comunisti la lotta di liberazione doveva arrivare a trasformare l’Italia in una repubblica socialista. Questo non è successo, però la Resistenza ha concesso alla classe operaia di ottenere le conquiste del dopoguerra. Che ne pensi?

Giacca
La Resistenza ha sicuramente contribuito al miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia dopo la guerra. Proprio perché c’è stata la Resistenza, perché c’erano i comunisti a guidarla, è stato possibile ottenere quei miglioramenti (…). Ma la borghesia continua a sfruttare gli operai. Io sono per la rivoluzione, partirei subito, anche domani per Udine che la conosco bene. Quando ci fu l’attentato a Togliatti aspettavamo un segnale dal partito e la lotta parigina sarebbe ripartita. Eravamo tutti pronti a combattere la borghesia. Purtroppo il via non è mai arrivato. Abbiamo perso una grande occasione. Senza rivoluzione non si impedisce lo sfruttamento dei lavoratori. Vorrei che si iniziasse domani una lotta decisa per buttar giù la borghesia che sfrutta gli operai (…). Bisogna fare la rivoluzione, è la sola alternativa per cambiare le cose.

Rivoluzione
Hai detto prima che anche domani inizieresti la rivoluzione, ma non pensi che sia importante organizzarsi e soprattutto ricostruire il Partito comunista?

Giacca
Beh, sì, io inizierei subito, non domani. È sicuramente necessario cominciare a organizzarsi, avere un Partito comunista e anche un esercito, dei combattenti proletari.

Rivoluzione
Hai più rivisto i tuoi vecchi compagni?

Giacca
Mah, oramai sono quasi tutti morti. Poco tempo fa sono venuti a trovarmi in sei. Mi hanno detto: “Giacca, quand’è che ricominciamo?”

Quell’intervista è stata ripubblicata nel 2005 per celebrare i 70 anni della Resistenza ed è diventata una sorta di Vangelo a cui oggi si ispira gran parte dell’area dei centri sociali e della sinistra antagonista. E non è un caso.
Nello scontro politico che infiamma l’Italia, riaccendendo passioni, sentimenti e stati d’animo forti, si è radicata in settori della sinistra, anche quella più lontana dal terrorismo e dall’antagonismo sociale, l’idea del tutto irrealistica che il Paese stia precipitando verso un regime autoritario. Intellettuali autorevoli la alimentano soffiando sul fuoco. È come se non ci si rendesse conto che le parole pesano, producono effetti, non restano quasi mai senza conseguenze. Contribuiscono a creare un clima, un humus politico, culturale e psicologico in cui il tumore della violenza e del terrorismo può riprodursi ancora una volta. Chi scrive, negli ultimi tre - quattro anni ha girato in lungo e in largo per parlare degli anni di piombo. È stato nelle università e nei licei, nelle fabbriche e in centri culturali. Ha partecipato a dibattiti affollati, durante i quali ha visto con raccapriccio reduci imbolsiti prendere la parola per rivendicare con orgoglio la propria esperienza degli anni Settanta, e ventenni arzilli ma privi della memoria applaudire entusiasticamente. Se l’idea che passa è quella di un Paese senza più speranza, ormai in balìa di una tirannìa corrotta, è chiaro che a qualcuno può venire la tentazione di dissotterrare le armi e prepararsi a una nuova Resistenza.
Nonostante i lutti provocati e la sconfitta subìta, l’esperienza degli anni Settanta, per la generazione di ventenni che ruota intorno ai centri sociali della sinistra antagonista, è tutt’altro che un modello da respingere. È una storia a cui guardare, e intorno alla quale si è riacceso un interesse. Sempre più frequenti sono gli incontri a cui vengono invitati non solo “maestri” e “ideologi” di quel periodo, ma anche “capi militari”. Le loro “lezioni”, le loro testimonianze, i loro racconti – ascoltati dal vivo o attraverso interventi videoregistrati e immessi nei circuiti underground – sono il verbo che forma le nuove leve della “ribellione sociale”. La linfa culturale e ideologica che continua ad alimentare il sacro fuoco della rivoluzione.
Eppure, nonostante tutto, sono ancora in molti, in troppi, a non accorgersi del pericolo. E chi lo evoca, in presenza anche di segnali inequivocabili, viene accusato di volerlo enfatizzare, gonfiarlo a dismisura perché mosso da antichi riflessi condizionati o da chissà quale calcolo politico. Ma basta frequentare il web per rendersi conto del fascino che esercitano ancora oggi antiche parole d’ordine: si moltiplicano i forum in cui si semina odio, si inneggia alla violenza e si invoca l’annientamento del nemico; e sempre più numerose sono anche le pagine in cui si inneggia ormai apertamente alle Brigate Rosse.
Certo, non è detto che succeda di nuovo, che la tragedia degli “anni di piombo” sia inevitabilmente destinata a ripetersi. Ma negare che il terreno culturale, politico e ideologico sia ancora fertile, sarebbe da irresponsabili. E confidare esclusivamente nella capacità di prevenzione da parte dello Stato, non sarebbe un buon antidoto. Soprattutto se l’efficienza degli apparati non sarà sorretta da una generale presa di coscienza del pericolo e della necessità di combatterlo alla radice.



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