GNOSIS 2/2009
Arresto di un capo in terra spagnola |
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“Ciruzzo o milionario”, il boss Paolo Di Lauro, non amava solo il poker. Era portato per le strategie mafiose, inventando un ruolo di diaframma nel contesto bipolare partenopeo, ponendosi tra l’Alleanza di Secondigliano e l’agguerrito asse Misso-Sarno-Mazzarella. Riforniva entrambi di droga, controllando le fiorenti piazze di spaccio che aveva trasformato in supermercati all’aperto. Aveva creato un’organizzazione moderna, una filiera di fedeli che controllavano i quartieri a Nord di Napoli e i comuni limitrofi, da Melito a Mugnano, a Casavatore, spingendosi ai limiti delle geografie delle potenze camorristiche del centro storico ed extraprovinciali, stabilendo rapporti di mutuo soccorso con i Casalesi. Il suo, era una sorta di cartello fondato sul carisma del capo - che la mitologia consacrava per una straordinaria fortuna - sulle capacità operative di un direttorio connotato da esperienza e fidelizzazione e su diffusi network deputati a gestire i punti vendita del narcotico. La latitanza, si sa, comporta a lungo andare gravi disagi e Ciruzzo sentiva l’urgenza di dare un futuro ai figli, prima di un possibile arresto, forse prima di un pensionamento volontario in qualche isola lontana dove poter spendere i cospicui proventi delle attività illecite. Escluso il più capace Vincenzo, perché prima latitante e poi arrestato, il crisma del potere toccò a Cosimo, il figlio più nervoso e desideroso di passare alla storia della camorra. C’è un cancro subdolo nel cesaropapismo mafioso, nella vocazione dei capi a trasferire lo scettro ai figli, come per perpetuare nel lignaggio, il senso del potere e i privilegi acquisiti sul campo. Si dimentica la folla di gregari che hanno combattuto, rischiato e condiviso le stagioni non sempre facili della vita del clan. Si esclude, in nome di un forzoso jus sanguinis, la naturale selezione della leadership sulla base del valore che contraddistingue le mafie e che attiene alla dote ancestrale di navigare tra le tempeste di fuoco e di sopravvivere. I Di Lauro, invece, avevano urgenza, presi da una febbre del cambiamento che nella loro intenzione avrebbe mutato il clan, lo avrebbe reso più competitivo e moderno. Soprattutto, cedettero all’egocentrismo sfrenato e alla voglia di “contare sopra tutti”, rinnegando quel modello partecipato e carismatico che aveva costituito l’embrione e l’anima dell’organizzazione. La filiera fu colonizzata da nuovi rampanti fedeli al capo più che al progetto da condividere, i vecchi ed esperti gregari furono emarginati e costretti in una rabbiosa paura e in un frustrato rancore. Rancore per le posizioni di privilegio compromesse e per “malafigura” che ne condizionava la legittimazione stessa sul territorio, paura perché -come noto tra i camorristi - ogni epurazione è, prima o poi, consacrata con il sangue. Alla frustrazione, quindi, si aggiunge il senso intuitivo di ribellione per salvare la pelle e la porzione di potere che allontana le iene assetate della giovane camorra. Raffaele Amato è tra i vecchi traditi. Cavalca l’ansia dei suoi e offre un progetto alternativo, una scissione che inaugura una guerra interna aspra e illimitata. Nello scontro tra gli Amato e i Di Lauro non sono risparmiati amici e parenti degli avversari, le azioni di fuoco assumono traiettorie trasversali e non si fermano davanti a madri o fidanzate. L’Amato sa di essere un nodo nevralgico nella trama fitta degli affari dilauriani, di poterli gestire da solo, di convertire lo strumento operativo e le relazioni trasnazionali del narcotraffico a favore del fronte degli “scissionisti”. Dalla Spagna, ormai centrale dei ribelli che si chiameranno per tale motivo “gli spagnoli”, parte nell’ottobre 2004 un’offensiva che insanguina l’intero scenario partenopeo e segna la fine dei Di Lauro, i cui vertici sono arrestati nell’ambito della dura reazione del contrasto investigativo. Soprattutto l’arresto del boss “Ciruzzo Di Lauro” ha un profondo effetto destabilizzante, eliminando la guida e il riferimento ai giovani rampolli e dando ulteriore fiducia al contrasto, in una fase omicidiaria particolarmente eclatante per feroce e ipertrofica modalità di esecuzione. Tra gli sconfitti serpeggia il tradimento, nel naufragio molti affiliati ai Di Lauro - i rivoltati - accettano di vestire la bandiera piratesca del nemico. Raffaele Amato, con il cognato Cesare Pagano, li invita, li accoglie e, convinto che il tradimento diventa vizio e coazione a ripetere, li seleziona e, in parte, li elimina. L’avventura scissionista sembra aver avuto la fortuna di un contesto favorevole, con la camorra cittadina in crisi, i potentati mafiosi decapitati, i clan legati ormai agli interessi spiccioli della sopravvivenza, una lunga stagione di arresti e di collaborazioni alla giustizia. In questo vuoto, che sembra chiedesse di essere colmato, l’Amato ha imposto il suo primato nel traffico di droga, diventando il primo broker nel rifornimento delle piazze di spaccio, non solo di quelle numerose di proprio appannaggio ma anche quelle delle remote aree regionali. La Spagna diventa la sua culla. Un vizio di forma vanifica il suo arresto prima della sua estradizione. Si mette in penombra, confondendosi nel tessuto iberico e affidandosi a una filiera di società attraverso cui dare spazio alle sue ricchezze mafiose, riciclando i proventi e offrendo alla sua organizzazione il volto pulito di relazioni e poteri economici. Il suo arresto sembra inscriversi in una manovra anticrimine più ampia mirata a colpire gli scissionisti ormai egemoni tanto da intervenire a supporto di gran parte dei clan in ascesa nel capoluogo campano. Sono arrestati centinaia di affiliati e i reggenti che hanno sostituito il capo dopo il suo arresto. Rimane fermo nello scranno del potere il suo socio Cesare Pagano, il fratello del boss Elio Amato, ancora latitanti, ancora forti di un esercito caratterizzato da ricambi inesauribili, tratti da un contesto dove germinano aspiranti affiliati e dove la camorra rappresenta ancora lo spirito mitologico cui dedicarsi. In questa aurea di potere, tuttavia, l’arresto di Amato ha una portata ulteriore sia simbolica, limitando il delirio di onnipotenza della leadership scissionista, sia operativa, perché Amato avrebbe potuto guidare con maggiore esperienza e senso strategico l’affermazione del clan nell’attuale critica temperie partenopea. Non sono finiti gli scissionisti. Eppure l’arresto dei capi potrebbe innestare nel demone camorristico del clan il veleno dell’ambizione e le prime spinte autonomiste dei gregari, ancora limitati dalla residuale leadership ma pronti a prender forza appena nuovi arresti depaupereranno la dirigenza. |