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GNOSIS 2/2009
Il cibo come fattore strategico

Sicurezza alimentare: sfida del XXI secolo


Gianluca ANSALONE


MADRID (Spagna) 26-27 Gennaio 2009
Intervento del Segr.Gen.ONU, Ban Ki-moon, al Summit sulla Sicurezza Alimentare
(Foto Ansa)
 
In un’economia fortemente globalizzata è l’interdipendenza la cifra del nuovo paradigma dello sviluppo, il moltiplicatore delle ricadute dei processi economici, politici, culturali.
In questo primo scorcio di XXI secolo, assistiamo ad un rovesciamento delle categorie tradizionali dello sviluppo, accompagnato da un rivolgimento epocale negli assetti geopolitici e geoeconomici.
Accanto a minacce più tradizionali, quali eredità della lunga transizione seguita alla caduta del Muro di Berlino e allo scongelamento dei blocchi ideologici contrapposti, si aggiungono oggi pericoli di altra natura, sostanzialmente caratterizzati dalla non prevedibilità, dalla pervasività e dalla difficoltà della dissuasione.
In sostanza, mentre il lungo cinquantennio della Guerra Fredda era stato dominato dal paradigma della “reciproca distruzione” (MAD – Mutual Assured Destruction) e da una simmetria del terrore che ha garantito una stabilità relativa dello scenario geostrategico, oggi fenomeni quali il terrorismo di matrice integralista, la proliferazione della armi di distruzione di massa, ma anche i mutamenti climatici e le pandemie costituiscono minacce difficili da decodificare e da contenere in maniera tradizionale.




Tra le crisi che questo inizio di XXI secolo propone, quella alimentare è senza dubbio la più ardua da contrastare ma anche la più importante da risolvere. Una crisi diversa dalle altre, poiché pone sostanzialmente tre tipi di minacce:
– essa rappresenta un vulnus per la dignità dell’uomo e mette in discussione decenni di campagne e di battaglie per l’affrancamento dai bisogni primari, per lo sviluppo, per la promozione dei diritti;
– essa distorce lo scenario macroeconomico internazionale, nella misura in cui rende superflue le regole del gioco, spesso le esclude, e favorisce l’affermazione di un’arena internazionale anarchica, fondata sulla semplice ragione del più forte;
– infine, la crisi alimentare rappresenta una minaccia alla sicurezza internazionale, nella misura in cui fa scivolare lungo il crinale del fallimento sistemi politico-sociali già fragili, favorendo la proliferazione di “Stati fasulli” e conflitti a matrice etnica o per il controllo del territorio.
La sicurezza alimentare può considerarsi la cartina di tornasole della capacità del sistema internazionale di trovare un assetto duraturo e globalmente vantaggioso.
I numeri sono sotto gli occhi di tutti e le proporzioni della crisi di tutta evidenza: il prezzo delle commodities alimentari è schizzato alle stelle in un arco di tempo ristrettissimo.
Tra il 2008 ed il 2009, in appena 52 settimane, il prezzo del cacao sui mercati è salito del 513%, quello dello zucchero del 103%. In un anno, il prezzo del grano è aumentato del 56%, quello dell’avena del 19% e della soia del 36%. Rialzi generalizzati che hanno conseguenze dirette, quali il prezzo di vendita di pane, pasta, altri cereali, con un impatto sul potere d’acquisto delle famiglie ed indirette, quali i costi maggiorati, ad esempio, per l’allevamento, con un impatto sul prezzo di altri generi alimentari, tra cui carne, uova, latticini.
Oggi assistiamo ad una significativa inversione di tendenza, quanto meno nel valore virtuale dei prodotti alimentari e nelle commodities minerarie; una contrazione dei prezzi di mercato che non risolve i limiti strutturali del mercato, la sua fragilità e, soprattutto, l’impatto che la sicurezza alimentare rischia di avere sulla sovranità delle Nazioni e sullo sviluppo dei popoli.
Il cibo torna ad essere, nel XXI secolo, un fattore di superiorità strategica, come l’energia e gli armamenti. Il prezzo delle commodities, assieme alla dipendenza relativa di alcuni mercati, fanno sì che attorno al cibo i governi rafforzino la loro sovranità esclusiva. È il caso della Russia che per la prima volta dai tempi dell’URSS, torna a nazionalizzare la produzione, lo stoccaggio e l’esportazione dei cereali, attraverso una compagnia di Stato ad hoc.
Al contempo, Paesi che hanno avuto modo nel recente passato di accumulare riserve valutarie nei cosiddetti Fondi Sovrani di Investimento (SWFs) stanno rapidamente riorientando la loro attività da operazioni soft (acquisizione di quote societarie, derivati finanziari, azioni ed obbligazioni) ad investimenti hard, soprattutto in appezzamenti di terreno da sfruttare a coltura in caso di crisi alimentare globale. È il caso, ad esempio, della Cina, che in Africa (con particolare riguardo al Madagascar e al Sudan) sta acquisendo, attraverso il Fondo Sovrano Nazionale, terreni di vaste dimensioni. Così stanno operando, altresì, la Russia e alcuni Emirati del Golfo Persico.
In un recente rapporto curato dalle due Agenzie dell’ONU che si occupano di cibo e agricoltura (IFAD e FAO) (1) , è stato sottolineato il ruolo degli investitori privati e statuali impegnati nella crescente acquisizione di terreni agricoli. Il fenomeno, conosciuto come “land grab” (sottrazione di terra), da alcuni considerato come una opportunità di sviluppo, soffre però di una pesante carenza di regole e rischia di trasformarsi, ove non sottoposta a una governance politico-amministrativa adeguata, in ciò che il Direttore Generale della FAO, Jacques Diouf, ha chiamato “neo-colonialismo” (2) .


Geopolitica della crisi alimentare


Viviamo in un’epoca di grandi rivolgimenti geopolitici. Sotto il profilo della sicurezza alimentare (intesa nell’accezione di food security, ovvero di sicurezza della produzione e dell’approvvigionamento di beni essenziali al sostentamento), riscontriamo una sostanziale convergenza rispetto ai più ampi mutamenti di scenario. Lo spostamento della periferia al centro si traduce, anche in questo caso, nella rivendicazione da parte delle potenze emergenti – India, Cina, Brasile, Russia, Arabia Saudita, Nigeria, Sud Africa, Corea del Sud – di un ruolo geo-strategico più ampio e forte. Una rivendicazione difficile da contrastare, poiché basata sulla forza dei numeri, della demografia e del PIL. Tali nuovi poli di potenza sono innanzitutto mercati di consumo, nei quali si assiste all’affermazione di una classe media con diete e abitudini alimentari in forte evoluzione. Si calcola che di qui al 2020 la popolazione di queste aree del pianeta crescerà del 40%. Ed una buona parte delle nuove bocche da sfamare vorrà mangiare carne, latte e pane piuttosto che riso. Di contro, tali Paesi hanno ancora un tessuto agricolo polverizzato, caratterizzato da piccole aziende orientate alla produzione locale.
Sotto il profilo economico, questa evoluzione socio-demografica si traduce nel tentativo dei Governi di rafforzare la produzione interna, per sostenere l’economia e, magari, raggiungere l’utopica chimera dell’autosufficienza alimentare. Tale obiettivo è perseguito attraverso l’innalzamento di dazi e barriere non-tariffarie alle importazioni, così come di ingenti sussidi al settore agricolo nazionale. Oggi, l’82% dell’agricoltura del globo beneficia di forme dirette o indirette di sussidi alla produzione e non solo nei Paesi emergenti: Giappone, USA, Canada per non parlare dell’Unione Europea, sostengono finanziariamente la produzione, ammettendo deroghe solo per quelle colture impossibili da sostenere in loco, benché la ricerca scientifica e tecnologica stia portando novità significative anche in questo senso.
Il paradosso del rivolgimento centro-periferia sta nel fatto che fino a pochi anni fa i Paesi in via di sviluppo invocavano una liberalizzazione totale del commercio internazionale, per orientare ancor di più la produzione all’export, mentre l’Occidente rifiutava una tale prospettiva, per non minacciare la sussistenza del proprio comparto agricolo.
A Ginevra, nel luglio del 2008, i negoziati in seno al WTO (Organizzazione mondiale del Commercio) sono falliti per posizioni di uguale intransigenza, ma di colore opposto. L’implementazione degli accordi di Ginevra avrebbe portato con se’ un incremento della ricchezza mondiale pari a 50-70 miliardi $, appena lo 0,1% del PIL del globo.
Troppo poco per poter parlare di “rivoluzione commerciale”. Di fronte a 800 milioni di piccoli contadini solo in Cina, le nuove potenze hanno preferito l’ostracismo, pur di tutelare le economie nazionali, forti già di una serie cospicua di accordi di integrazione regionale o di scambio bilaterale. Di fatto, Cina, India, Brasile, Russia stanno adottando le politiche già perseguite dagli Stati Uniti e dall’UE, che attraverso un’integrazione solo regionale si sono garantiti per decenni vantaggi commerciali improntati alla autosufficienza e alla esclusività, a volte in odore di protezionismo. Basti pensare che la Cina ha di recente aumentato del 160% i dazi sulla esportazione di grano e di fertilizzanti per l’agricoltura, con l’obiettivo di scongiurare la fuga massiccia di derrate alimentari verso l’estero e la successiva, necessaria politica di sussidi al mezzo miliardo di piccoli agricoltori del Paese.
Il terzo elemento di impatto sulla sicurezza alimentare è legato ai cambiamenti climatici in corso, o quanto meno alla accresciuta imprevedibilità meteorologica, che rende evanescente la pianificazione dei raccolti e delle quote di esportazione. Basti pensare che, solo lo scorso anno, l’Australia ha dovuto rinunciare al 50% della produzione agricola nazionale a causa della persistente siccità. I cambiamenti climatici non sono una minaccia alla sicurezza alimentare tout court, posto che la loro consistenza non ha ancora una base di scientificità. Ma essi produrranno indiscutibilmente uno spostamento degli equilibri geo-economici nella mappa della produzione e del consumo alimentare. Lo scioglimento dei ghiacci attorno alle calotte polari, le siccità ricorrenti nei Paesi MENA (Middle East – North Africa) e, in generale, nel bacino del Mediterraneo, il ripiegamento biologico progressivo delle zone pluviali ed equatoriali in Sud America, altereranno nel prossimo ventennio la geografia della produzione e della varietà agricola mondiale. Ne beneficeranno i Paesi più prosperi, che potranno disporre di aree coltivabili più vaste, così come le petrol-economie del Golfo Persico, in grado di investire capitali nelle tecnologie più avanzate per la produzione agricola, facendo addirittura “fiorire il deserto”.
La quarta criticità legata alla crisi alimentare coinvolge il prezzo del barile di petrolio e, più in generale, le grandi sfide energetiche globali. Le fluttuazioni del greggio creano un doppio vulnus al mercato agricolo mondiale. Il primo riguarda l’aumento esponenziale dei costi di trasporto e della logistica per lo scambio delle derrate, così come l’aumento del prezzo di vendita dei fertilizzanti, in buona parte derivati del petrolio o di altri greggi. Nel 1999, una tonnellata di fertilizzanti veniva pagata 100 $ circa sul mercato; oggi il costo è salito a 320 $ per ogni tonnellata. Contestualmente, l’aumento dei costi di freight and shipping è stato pari a dieci volte.
Il secondo vulnus nasce dalla constatazione che i Paesi importatori di derrate alimentari sono, per la maggior parte, anche importatori di petrolio. Quei governi pagheranno, quindi, il doppio costo di una bolletta energetica mai così elevata.
Ultimo – ma ancora controverso – punto di impatto sulla sicurezza alimentare è legato allo sviluppo del mercato dei biocarburanti (bioetanolo, biodiesel, coltza, olio di palma ed altri combustibili). Si tratta di un comparto emergente, che vede attivi ancora pochi ma agguerriti protagonisti, a cominciare da Brasile, Malaysia e Stati Uniti. Un comparto fortemente sussidiato dai Governi, che intendono in tal modo strutturare un mercato emergente e dalle grandi potenzialità, avviando al contempo la riconversione di settori agricoli tradizionali ed in crisi. La prospettiva di un’energia pulita, che possa sostituire petrolio e carbon fossile, è senza dubbio di grande appeal. Ma, assieme alla non comprovata utilità dei biocarburanti, non risulta ancora del tutto chiaro il fattore di sostituzione delle colture per fini diversi da quelli alimentari. Paesi fragili e dalle economie deboli stanno tentando la strada impervia e rischiosa della coltivazione di commodities per biocarburanti, un investimento stimolato in buona parte dall’azione di Fondi Sovrani di Investimento, che acquisiscono terreni coltivabili per abbassare la soglia della vulnerabilità alimentare.


La sicurezza alimentare
e la tutela della salute pubblica


La complessità e la crescente interconnessione dello scenario economico globale rendono particolarmente urgente anche il tema della sicurezza alimentare legata alla tutela dei consumatori e della salute pubblica.
Nella lingua inglese, tale rilevante aspetto è definito come “food safety”. Un tema salito alla ribalta delle cronache alla fine degli anni ‘90, quando il mondo già globalizzato si confrontò con gli scandali della cosiddetta “mucca pazza” e del “pollo alla diossina”, ultimi esempi di una lunga catena di minacce alla salute dei consumatori.
I processi produttivi della filiera zootecnica ed agroalimentare sono divenuti estremamente complessi e le nuove regole del commercio globale, discusse in ambito WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), rendono particolarmente difficoltosa la tracciabilità dei prodotti, la ricostruzione della catena e, quindi, la certificazione dell’assoluta qualità. Sono, inoltre, aumentati esponenzialmente, nell’ultimo decennio, i reati connessi alla sofisticazione alimentare, mentre la rete globale del commercio rende immediatamente trasmissibile il contagio da organismi batteriologici e virali di origine animale o da infezioni parassitarie vegetali.
Tutt’oggi, lo stallo nei negoziati sui punti più rilevanti del cosiddetto “Doha Round”, teso ad uniformare le regole e la trasparenza del commercio, provoca un vulnus pesante alla capacità dei governi di gestire le implicazioni della sfida rappresentata dalla sicurezza alimentare.
Le politiche di tutela della salute pubblica, principio garantito da tutte le Carte internazionali dei diritti, nonché dalle principali leggi costituzionali, si scontrano con una frammentazione delle competenze e con il lasco coordinamento finora intrapreso. Una politica di food safety dovrebbe prevedere meccanismi efficaci di allerta precoce rispetto al rischio (early warning), di risposta immediata alla crisi (rapid reaction) e, infine, di trasparente comunicazione al cittadino-consumatore.
In tal senso, si può considerare come un meccanismo di eccellenza la politica messa in campo dall’Unione Europea proprio in materia di sicurezza alimentare, legata alla tutela della salute e al controllo della qualità dei cibi. Parimenti, negli Stati Uniti d’America, la Food and Drug Administration ha rafforzato di recente i suoi poteri di controllo e di verifica sulla qualità dei cibi ed ha allargato il perimetro dell’azione di prevenzione contro la sofisticazione di alimenti e medicinali.
Con la pubblicazione del Libro Bianco sulla sicurezza alimentare (3) , la Commissione europea ha voluto individuare le linee guida di una efficace politica di tutela della sicurezza alimentare e della salute dei cittadini, così come di piena trasparenza nella comunicazione. Il Libro Bianco sottolinea alcune strategie di rafforzamento del coordinamento delle politiche governative e, per la prima, propone l’istituzione di un’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare, organo scientifico consultivo con compiti di monitoraggio delle emergenze, di analisi e ricerca tecnica, di coordinamento delle risposte in caso di crisi.
Il documento ha reso evidenti le priorità dell’Unione Europea in materia di sicurezza alimentare, volte nella fattispecie a:
1. garantire un elevato livello di protezione della salute;
2. favorire il corretto funzionamento del mercato dei prodotti alimentari;
3. stimolare definizioni chiare per facilitare l’accordo circa la definizione di “alimento”;
4. rafforzare la qualità ed il controllo scientifico indipendente;
5. garantire la rintracciabilità dei prodotti alimentari;
6. implementare le politiche di garanzia dei diritti dei consumatori;
7. ottemperare al pieno rispetto degli accordi internazionali sul commercio;
8. garantire il libero accesso alle informazioni e alla legislazione alimentare, soprattutto da parte dei cittadini.
Il Libro Bianco ha segnato una svolta nel coordinamento delle politiche legate alla sicurezza alimentare, aprendo la strada a forme innovative di collaborazione tra governi, anche sotto il profilo della prevenzione delle frodi e delle sofisticazioni, attraverso azioni di intelligence e un coordinamento delle strategie investigative.
Ma, soprattutto, il Libro Bianco della Commissione ha aperto definitivamente la strada alla creazione di un’Agenzia Europea in materia di sicurezza alimentare (EFSA - European Food Safety Agency), costituita nel gennaio 2002 e la cui sede operativa è stata successivamente stabilita a Parma. L’Autorità si pone come organismo indipendente e sovranazionale di consulenza e di comunicazione sui rischi associati alla catena alimentare; essa produce pareri scientifici e consulenze specialistiche per fornire un solido fondamento al processo legislativo e di definizione delle politiche alimentari e della salute in Europa.
L’obiettivo dichiarato dell’EFSA (4) è quello di essere riconosciuta a livello internazionale come l’Organismo europeo di riferimento in materia di valutazione dei rischi per la sicurezza di alimenti e mangimi, benessere e salute degli animali, nutrizione, protezione e salute delle piante. Un capitolo particolarmente sensibile per l’operato dell’EFSA è rappresentato dalla ricerca sugli organismi biologici e geneticamente modificati.
Non sfuggono le implicazioni alla base di una tale, opportuna scelta di rafforzamento della cooperazione intra-europea su un dossier così delicato: l’industria degli alimenti e delle bevande è uno dei principali settori produttivi nell’UE, con un fatturato annuale pari a quasi 600 miliardi di euro (il 15% dell’output manifatturiero complessivo). Il comparto impiega 2,6 milioni di persone e l’esportazione di prodotti agricoli ammonta a 50 miliardi di euro ogni anno. Oltre alle ricadute in termini occupazioni e produttivi, vi sono almeno altre due implicazioni strategiche: la prima, del tutto coerente, coinvolge la tutela della salute pubblica e il diritto dei consumatori ad una informazione commerciale e nutrizionale trasparente; la seconda si collega strettamente al piano di azione per il futuro dell’UE, in buona parte concentrato nel documento conosciuto come “Agenda di Lisbona”. Quest’ultima ha per obiettivo quello di rendere l’UE lo spazio più dinamico e rilevante in tema di ricerca scientifica ed innovazione tecnologica. In tal senso, la ricerca sugli OGM e l’attività di laboratorio sulla zooprofilassi, sulle nuove tecniche di coltura, sulle sperimentazioni biologiche, rappresenta una indubbia e prolifica esplorazione di frontiera.


Le sfide e le possibili risposte:
alcune raccomandazioni


Se la comunità internazionale non interverrà con strumenti nuovi rispetto al passato, rischiamo di andare incontro ad una delle più gravi crisi Malthusiane della storia. Gli attuali trend demografici ed il ritmo di cambiamento del clima ci conducono vicini ad una cesura epocale per le nostre economie. Come noto, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha fissato i cosiddetti Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG - Millennium Development Goals), tra i quali spicca per rilevanza quello della riduzione del 50% del numero di persone costrette a vivere sotto la soglia di povertà e comunque in una condizione di pesante malnutrizione. L’obiettivo sembrava a portata di mano fino a qualche tempo fa, ma la crisi economica e finanziaria in atto sta ridimensionando fortemente l’ottimismo. La contrazione degli aiuti allo sviluppo, l’innalzamento di barriere tariffarie e la contrazione dei consumi stanno nuovamente ostacolando i flussi commerciali globali. Ma, soprattutto, stanno conducendo i Governi a smentire le precedenti dichiarazioni di impegno politico e finanziario, con la conseguenza diretta di una progressiva divaricazione tra aree geografiche del pianeta.
La principale sfida per la politica risiede nel trovare il punto di equilibrio nel trade-off tra sviluppo economico, tutela dell’ambiente e sicurezza alimentare. Il recente vertice dei Ministri dell’Agricoltura del G8 (5) ha ribadito la centralità di un’economia basata sulla produzione agricola per i Paesi in via di sviluppo, fissando nuovi obiettivi per la lotta alla fame mondiale, che vanno dalla prevenzione delle frodi al controllo sulle speculazioni finanziarie sulle commodities. Il documento finale ribadisce, altresì, la centralità dei piccoli agricoltori, quali protagonisti dello sviluppo e afferma il principio della piena rispondenza dell’agricoltura ai principi di sicurezza e salubrità alimentare.
Su alcuni punti è possibile formulare delle raccomandazioni per rafforzare una governance globale legata alla sicurezza alimentare:
– favorire un impegno concreto, realistico e percorribile per combattere i cambiamenti climatici. Un modello che renda conveniente l’inserimento, nella catena del valore, delle tecnologie per la produzione di energie alternative e che consenta di raggiungere un medium virtuoso tra ambizioni legittime di sviluppo e tutela dell’ambiente;
– promuovere una politica di educazione alimentare in grado di favorire, nelle economie emergenti, passaggi graduali nelle diete e nelle abitudini di consumo, così come, in Occidente, al contenimento di abitudini alimentari a forte impatto sull’ambiente;
– favorire gli investimenti in tecnologia, per massimizzare le prospettive della produzione agricola, garantire il risparmio d’acqua, combattere sprechi e prevenire l’inquinamento delle falde idriche. Se possibile, riconvertire la missione della FAO verso questo strategico obiettivo;
– rivedere il sistema dei sussidi e delle barriere commerciali, in modo da superare la miope prospettiva di breve termine che vede nel sostegno ad un comparto economico un pericolo per la sussistenza di milioni di persone;
– estendere la capacità di coltivazione ai terreni che rimangono incolti per mancanza di obiettivi economici di breve termine. In Cameroun, ad esempio, il 40% dei terreni è incolto, nonostante buone condizioni di base ed una disoccupazione elevatissima;
– promuovere l’utilizzo delle nuove tecnologie in agricoltura, per risparmiare acqua e per razionalizzare il coefficiente “goccia per prodotto”;
– favorire la cooperazione tecnica transfrontaliera, per evitare che le prossime guerre si scatenino per il controllo dei corsi d’acqua.
Un riferimento a parte, in questa strategia per il futuro, meritano i biocarburanti e gli Organismi geneticamente modificati (OGM).
Per quanto concerne i biocarburanti, la visione e la conseguente strategia risultano ancora troppo frammentate. Alcuni governi sembrano finanziare il comparto per scopi di supremazia strategica o di convergenza geopolitica: è il caso della speciale relazione tra USA e Brasile; altri vedono nei biocarburanti solo un canale di conversione di un’economia agricola in crisi strutturale, pur senza possedere valutazioni certe sulle prospettive di mercato. Altri, infine, puntano su un investimento in bio-energie come misura per abbattere le emissioni in CO2 e contrastare l’inquinamento globale.
Ma soltanto se la strada dei biocarburanti sarà intrapresa con convinzione dai Governi, solo se di comune accordo le coltivazioni per la produzione di energia diverranno un elemento strutturale di una più ampia strategia energetica ed alimentare, allora se ne potranno valutare e governare le implicazioni. In tal modo, molte economie nei Paesi in via di sviluppo potranno essere orientate o convertite alla coltivazione di derrate per biocarburanti, lasciando alle economie più evolute la capacità di raffinazione, distribuzione e innovazione tecnologica. In caso contrario, tale pelago di iniziative serve solo a creare false aspettative ed un’ulteriore distorsione delle regole del mercato. La prudenza, in questi casi, non paga. Quella stessa prudenza che ha voluto adottare, invece, l’Europa, la quale ha fissato l’obiettivo di produzione del 10% del proprio fabbisogno energetico da biocarburanti entro il 2015. Una soglia inutile, poiché non decide un investimento massiccio in questa risorsa, ne’ la esclude completamente, spingendo alcuni operatori a trascurare le coltivazioni tradizionali, ancora ampiamente sussidiate.
Con riferimento agli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), le polemiche riguardano innanzitutto gli aspetti etici dell’inserimento nella catena alimentare di tali organismi. Ad oggi, sono 200 le coltivazioni OGM nel mondo, in buona parte sperimentali. La FAO non ha escluso l’utilizzo delle tecnologie per far fronte alla crisi alimentare in atto, con l’avvertenza di un codice internazionale di condotta stringente ed una ricerca scientifica che non travalichi i limiti dell’etica condivisa. Un dibattito aperto che sarebbe ipocrita non affrontare o marginalizzare in nome di un’inutile pregiudiziale ideologica, che non servirà a sfamare più bocche e a salvare più vite.



(1) "Land Grab or development opportunity?", L. Cutula et al., IFAD-FAO-IIED, 2009, http://www.reliefweb.int/
rw/rwb.nsf/db900sid/KHII-7SE4R4/$File/full_report.pdf.
(2) Cfr. Intervista a J. Diouf, Financial Times, 24 maggio 2009.
(3) COM (1999) 719 def. - Commissione delle comunità europee, 12.1.2000.
(4) L’attribuzione della prestigiosa sede dell’EFSA alla città di Parma è arrivata ufficialmente il 12 dicembre 2003, a seguito di un lungo negoziato in sede europea. La decisione è stata ratificata dal Vertice europeo di Bruxelles dei Capi di governo, il quale ha anche assegnato alla città concorrente (Helsinki) il quartier generale della authority europea sul controllo delle sostanze chimiche. Il Governo italiano, in quella circostanza, ha fatto valere le credenziali della città italiana, forte di una tradizione eno-gastronomica qualificata, di un prolifico ambiente per la ricerca, di un ranking internazionale legato alla qualità della vita stabilmente tra i più elevati in Europa.
(5) Dichiarazione finale dei Ministri dell’Agricoltura dei Paesi G8, Cison di Valmarino (TV), 20 aprile 2009.

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