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GNOSIS 2/2009
Gli interventi comunitari di contrasto

I Paradisi fiscali al tempo della crisi


Attilio BEFERA


Foto Ansa
 
Fra le cause di emarginazione e impoverimento di alcuni Stati, vanno collocati i regimi fiscali privilegiati, talvolta facile e comodo rifugio di capitali della criminalità organizzata. Da tempo, e ancora più oggi, con la crisi economica a livello globale, gli Stati a fiscalità avanzata hanno messo in agenda il contrasto delle pratiche elusive, cioè il trasferimento verso Paesi con regime fiscale privilegiato, senza valide ragioni economiche, ma soltanto per conseguire benefici di tipo fiscale.

E' Attilio Befera, Direttore dell’Agenzia delle Entrate, che, con estrema chiarezza e sinteticità, analizza in questo contributo il fenomeno nella sua complessità, anche alla luce dei recenti interventi comunitari di contrasto.


La globalizzazione dei mercati e l’abbattimento delle barriere hanno profondamente inciso sui sistemi economici dei singoli Paesi, favorendo il proliferare di regimi o territori che adottano politiche fiscali di vantaggio per attirare capitali.
Di conseguenza, negli ultimi decenni, tale crescente liberalizzazione ha acuito, sia in ambito comunitario sia internazionale, le divergenze tra regimi impositivi ed aliquote di imposta adottati dai diversi Paesi, territori e giurisdizioni.
È noto, infatti, che tutte le imprese, anche quelle cosiddette virtuose, sono alla continua ricerca di localizzazioni sempre più convenienti per accrescere la propria competitività, anche mediante pianificazioni fiscali internazionali, volte a minimizzare il carico impositivo attraverso l’utilizzo di strutture ed organizzazioni domiciliate in Paesi a fiscalità privilegiata.
Tuttavia, in concreto, sottraendo risorse ai Paesi in via di sviluppo, i territori a fiscalità privilegiata rappresentano una delle principali cause di emarginazione e impoverimento per molti Stati, spossessati dei mezzi economici per progredire, nonché, talvolta un facile e comodo rifugio – magari involontario – per tutelare gli interessi della criminalità organizzata.
È stimato tra i quaranta e gli ottanta il numero dei Paesi offshore, a seconda dei criteri di valutazione seguiti nella classificazione dai singoli Stati e dagli Organismi internazionali e può riguardare anche Paesi membri dell’Unione europea, con un giro d’affari intorno a 1.800 miliardi di dollari all’anno.
Il fenomeno offshore può essere più o meno esteso, a seconda che si considerino i veri e propri Paradisi fiscali, caratterizzati da un regime di tassazione molto basso o inesistente e normalmente costituiti da Stati privi di risorse proprie, e/o i Paesi a fiscalità privilegiata che operano, spesso, all’interno di Stati industrializzati, a fiscalità ordinaria, per sfruttare i vantaggi competitivi derivanti dall’afflusso di capitali e localizzazione di imprese estere e utilizzati al fine di effettuare “triangolazioni”e operazioni “conduit”.
Vi sono, infatti, Paesi che, pur non essendo Paradisi fiscali, per scelta politica stipulano convenzioni per l’eliminazione delle doppie imposizioni per finanziare o favorire lo sviluppo di altri, oppure scelgono di introdurre norme fiscali di favore: ne sono alcuni esempi, il Lussemburgo, l’Irlanda, l’Olanda, gli Usa.
Non bisogna, tuttavia, confondere i Paradisi fiscali con queste strutture di pianificazione fiscale, diffuse nei Paesi di cultura anglosassone, che operano comunque nel rispetto degli interessi dello Stato (le entrate vengono assicurate) e di quelli dei contribuenti-operatori economici, con l’obiettivo di conseguire il maggior risparmio possibile per finanziare lo sviluppo delle imprese.
In ragione di tali premesse appare, dunque, evidente che la lotta alle pratiche elusive consistenti, in ultima istanza, nel trasferimento di base imponibile verso Paesi con regime fiscale privilegiato, attraverso operazioni ad hoc, spesso prive di valide ragioni economiche e finalizzate esclusivamente al conseguimento di benefici di tipo fiscale, costituisce una priorità per gli Stati a fiscalità avanzata.


La lotta degli Organismi internazionali
ai Paradisi fiscali


Già alla fine degli anni ‘90 i vari Organismi internazionali (1) manifestarono le prime reazioni, al fine di contrastare la concorrenza fiscale dannosa e il riciclaggio.
Tuttavia, i risultati sono stati modesti e non sono riusciti ad evitare l’ulteriore sviluppo dei “Paradisi” come centri finanziari offshore.
Nella seconda metà dello scorso decennio è emersa, sia a livello europeo (rectius: Commissione europea) sia a livello OCSE, una particolare attenzione al concetto di “concorrenza fiscale dannosa”, sebbene con diverse finalità e ambiti applicativi.
A livello OCSE, in particolare, l’impegno contro la concorrenza fiscale dannosa è stato manifestato con la pubblicazione di veri e propri rapporti che riassumono le conclusioni a cui l’Organizzazione perviene a seguito dei continui dibattiti fra gli Stati membri e anche con le stesse legislazioni che ospitano i regimi “di favore”.


Le “pratiche fiscali dannose”:
i regimi fiscali privilegiati dannosi


Con il rapporto OCSE del 1998, meglio conosciuto con il nome di “Harmful Tax Competition” sono stati individuati i principali fattori che caratterizzano i regimi fiscali potenzialmente “dannosi”. A tal proposito, il rapporto suddivide le cosiddette “pratiche fiscali dannose” in due categorie: harmful preferential tax regimes e tax havens.
Sono stati definiti come “regimi fiscali privilegiati dannosi” (2) quei meccanismi che, ancorché coesistenti con sistemi di tassazione ordinaria anche rilevanti, consentono di ottenere aliquote ridotte o addirittura nulle. Inoltre, il rapporto asserisce che tale circostanza deve essere accompagnata da almeno uno degli altri elementi indicati dall’OCSE quali il cosiddetto “ring fencing”, ossia l’isolamento del regime privilegiato dal sistema tributario ordinario (3) , la mancanza di trasparenza del regime fiscale, nonché il rifiuto delle Amministrazioni finanziarie locali allo scambio di informazioni.


Le “pratiche fiscali dannose”:
i Paradisi fiscali


Come accennato in premessa, molti territori sovrani e molti Paesi usano la leva fiscale e altre misure di politica economica per attrarre capitali e investimenti nel settore finanziario e dei servizi.
Questi Stati offrono agli investitori esteri un ambiente di non tassazione o di imposizione puramente nominale, di solito in combinazione con regole giuridico-amministrative particolarmente blande (4) .
Le attività svolte non sono, in generale, oggetto di scambio di informazioni con altri Paesi e presentano un segreto bancario particolarmente rigoroso.
Tali giurisdizioni sono, a ragione, designate come “Paradisi fiscali”: si appoggiano al sistema finanziario internazionale, facilitando i flussi di capitali e, approfittando delle forze della globalizzazione e della crescente liberalizzazione nei movimenti finanziari, finiscono per sottrarre risorse agli altri Paesi, danneggiandoli ovviamente sul fronte delle entrate tributarie.
A causa della loro capacità di minimizzare l’imposizione fiscale e di consentire l’anonimato, tali Stati attraggono sia le società, sia le persone fisiche.
In generale, essi vengono utilizzati con tre principali finalità:
– come “money boxes(5) , ossia come localizzazione per detenere capitali utilizzati per investimenti “passivi”, tipicamente finanziari, che generalmente producono interessi, royalties e dividendi;
– come localizzazione per imputare contabilmente profitti realizzati altrove (cd. paper profits);
– per occultare alle Autorità fiscali del Paese di residenza, in tutto o in parte, i capitali.
Tali caratteristiche sono suscettibili di danneggiare il sistema fiscale degli altri Paesi, in particolare con riferimento al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e all’imposta sul reddito delle società, nonché di agevolare l’elusione e l’evasione fiscale internazionale da parte dei contribuenti.
Il rapporto definisce quindi i tax havens, come giurisdizioni in cui:
– vi è una tassazione nulla o puramente nominale, ma non effettiva;
– non vi è uno scambio effettivo di informazioni con altri Paesi;
– vi è mancanza di trasparenza nelle disposizioni legislative ed amministrative;
– non è richiesto, quale requisito per la concessione dei benefici fiscali, che l’attività svolta nel Paese abbia carattere sostanziale.
A seguito del rapporto Harmful Tax Competition, l’OCSE ha predisposto una black list che comprendeva 41 giurisdizioni definibili come “Paradisi fiscali”.
Le linee guida del ‘98 contro le pratiche fiscali dannose prevedevano, inoltre, l’obbligo alla rimozione dei benefici ottenibili nei Paradisi fiscali entro, al più tardi, il 31 dicembre 2005, a pena di sanzioni.
Entro il 28 febbraio 2002 (6) , i Paesi considerati tax havens potevano, comunque, al fine di superare le pratiche fiscali dannose, inviare “lettere di impegno anticipato” (7) , considerate impegni ufficiali e che hanno consentito, in breve, il sostanziale svuotamento della black list.
In particolare, tra il 1999 e 2002, ben 34 dei 41 Paesi inseriti nella black list inviarono le advance commitment letters (8) ed ottennero di esserne cancellati.
Rimanevano, comunque, non cooperativi Andorra, Isole Marshall, Liberia, Liechtenstein, Nauru, Principato di Monaco, Vanuatu.
Successivamente, nella black list del 2005 rimasero solo Andorra, Liechtenstein e il Principato di Monaco.
Al di là degli “intenti” manifestati, in concreto, molti Paesi inseriti nella lista originaria e altri allora non inclusi hanno continuato ad alimentare pratiche e regimi privilegiati, a vario titolo e sotto diversi aspetti.
Da qui l’attuale revisione in corso presso l’OCSE, su richiesta, soprattutto, di alcuni Paesi dell’Unione europea, quali Francia e Germania, anche in occasione del G20 svoltosi a Londra ad aprile di quest’anno.


La lotta comune dei Paesi
dell’Unione Europea ai Paradisi fiscali


Sin dall’inizio della crisi economica mondiale, tuttora in atto, la lotta contro i Paradisi fiscali è stata considerata tra i principali obiettivi delle nuove politiche economiche dei Paesi più evoluti, europei ed extraeuropei.
Il recente summit dei leader dei Paesi più industrializzati del mondo (G20) che si è tenuto a Londra il 2 aprile 2009 è stata una importante occasione di incontro internazionale per discutere fattivamente sulle azioni da intraprendere per arginare le perdite di entrate fiscali derivanti dall’esistenza di tali territori a fiscalità altamente privilegiata.
Con la crisi economica che stiamo attraversando, infatti, e al di là dell’ostilità crescente dell’opinione pubblica, i Governi europei attualmente costretti a prelevare centinaia di milioni di euro dalle casse pubbliche per rilanciare la loro economia, non possono più tollerare la presenza di “buchi neri fiscali” che alimentano la fuga di capitali consentendo a grandi fortune, banche e multinazionali di pagare meno tasse. Se per gli Stati Uniti il mancato guadagno ammonterebbe a circa 100 miliardi di dollari, l’evasione fiscale costerebbe alla Germania 30 miliardi di euro e 20 miliardi a testa a Francia e Regno Unito.
A livello europeo, il summit è stato preceduto da un incontro a Berlino il 22 febbraio 2009 tra i leader delle nazioni europee appartenenti al G20 (9) , con lo scopo di portare una posizione comune al citato consesso dei 20.
E proprio in tale occasione, tra l’altro, è stata invocata la necessità di efficaci sanzioni contro i Paradisi fiscali e, più in generale, contro le nazioni che, in qualunque modo, ostacolassero le iniziative europee volte al risanamento economico.
Nella circostanza, l’OCSE ha redatto un nuovo elenco di Paesi non collaborativi, che si è progressivamente ridotto a seguito dell’impegno formale da parte di molti di quegli Stati – che inizialmente figuravano in detto elenco – per uno scambio di informazioni sulla base degli standard internazionali fissati dall’OCSE.
In ambito europeo la situazione è piuttosto contrastata. Infatti, a fianco di nazioni, quali la Germania e la Francia, che si sono pronunciate con forza per la lotta ai Paradisi fiscali, ve ne sono altre che tuttora figurano nella lista dei Paesi che non possono ancora definirsi del tutto collaborativi (10) .


Le contromisure adottate in alcuni Paesi:
il caso di Germania e Francia


Nel contesto sopra delineato di contrasto comune all’utilizzo di Paesi a fiscalità privilegiata e ad istanze, anche a livello comunitario, di modifiche dell’attuale normativa, attraverso la revisione della Direttiva sul risparmio e l’estensione della Direttiva 77/799/CEE sullo scambio di informazioni tra Stati dell’Unione europea, occorre poi segnalare quanto fatto da singole nazioni in piena autonomia.
Si fa riferimento, in particolare, alla Germania ed alla Francia.
In Germania, da sempre in prima linea nella “stretta” contro i Paradisi fiscali, è recente una proposta normativa volta a colpire i contribuenti, persone fisiche o imprese, nei casi di comprovata assenza di trasparenza nelle attività economiche e finanziarie poste in essere a livello internazionale.
In particolare, la Germania, fortemente critica nei confronti del segreto bancario e del sistema fiscale svizzero, ha approvato, ad aprile scorso, un disegno di legge che prevede più mezzi nella lotta contro l’evasione verso i Paradisi fiscali.
Il provvedimento consentirebbe, ad esempio, all’Amministrazione finanziaria tedesca di esigere, dai contribuenti o imprese che investono in Paesi o territori che non rispettano le norme dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico o dell’Unione europea in materia di segreto bancario e fiscale, maggiori informazioni in merito alla natura e alle finalità delle operazioni economiche internazionali poste in essere.
Le persone o società che investono in Paesi non collaborativi, tra cui Svizzera, Belgio, Austria o Lussemburgo, perderebbero, inoltre, alcuni vantaggi fiscali, subendo:
– una limitazione nelle spese deducibili;
– l’applicazione di ritenute alla fonte in caso di pagamenti a percipienti esteri residenti in Stati non collaborativi;
– il diniego di agevolazioni fiscali sui redditi societari per dividendi e plusvalenze da partecipazioni in società che hanno sede o dirigenza esecutiva in Paesi non collaborativi.
Anche il Governo transalpino sta cercando di affrontare il problema della presenza di capitali all’estero attraverso misure appositamente studiate per togliere linfa ai Paradisi fiscali e per recuperare entrate per il fisco e, soprattutto, per l’economia francese.
In particolare, quello francese è un approccio molto pratico, che prevede un trattamento di favore verso i contribuenti “pentiti” che palesano al fisco i beni non dichiarati all’estero.
Un trattamento caso per caso, dunque, e non un condono generalizzato.
Sullo sfondo di questa scelta vi è la convinzione che i contribuenti francesi possano essere spinti a dichiarare volontariamente i propri capitali esteri nel timore dell’avvento di un nuova etica bancaria e della possibile stipula, da parte della Francia, di nuove convenzioni di assistenza fiscale che metteranno nero su bianco l’impegno dei Paesi stipulanti a rispondere alle richieste di informazione dell’Amministrazione fiscale francese.


Conclusioni

L’abolizione del segreto bancario e la collaborazione nell’ottica di potenziare lo scambio di informazioni possono senz’altro essere individuati quali elementi fondamentali per un adeguato contrasto all’utilizzo distorto dei cosiddetti Paradisi fiscali.
Non è un caso che proprio su questo tema continuino a confrontarsi i Paesi impegnati nella lotta all’evasione fiscale presenti all’ultimo vertice del G20.
Il comunicato ufficiale di chiusura del summit, infatti, condivide gli appelli dell’Organizzazione per lo sviluppo economico e conferma la consapevolezza che la costituzione di un sistema antielusivo a valenza transnazionale non possa essere elaborato da un unico Stato, ma necessita del contributo di una volontà armonizzatrice che, attraverso lo scambio di informazioni e una minore rigidità del sistema bancario, superi i vincoli posti dalle misure normative dei singoli ordinamenti.
Vi è poi da segnalare la revisione delle “liste” da parte dell’OCSE con l’individuazione dei:
a) Paesi collaborativi, inseriti dunque nella white list;
b) Paesi che si sono impegnati ad accettare gli standard internazionali sullo scambio di informazioni, anche se tali standard non sono stati ancora introdotti nelle legislazioni nazionali, inseriti nella grey list;
c) Paesi non collaborativi, inseriti nella black list.
Questa revisione rappresenta un evento di rilievo nell’impegno profuso dall’OCSE da oltre un decennio nella lotta ai Paradisi fiscali.
Da evidenziare, infatti, che esordisce quest’anno, in aggiunta alla white list (11) , una grey list (12) comprendente quei Paesi che stanno lavorando per modificare il proprio sistema fiscale per adeguarlo a quello internazionale, fondato su regole chiare e adeguati strumenti di controllo.
Tale impegno si dovrebbe tradurre nella progressiva cancellazione della black list, attraverso misure di depenalizzazione in favore del rientro dei capitali e, nel contempo, di inasprimento delle sanzioni a carico di banche o imprese che intrattengono relazioni con gli Stati (13) in essa presenti.
Nel 2009, i Paesi ”irriducibili” sono, infatti, solamente Costarica, Filippine, Malesia e Uruguay.
Il successo raggiunto, pur costituendo solo una tappa intermedia per il traguardo finale, segna una svolta importante che richiederà un’attività impegnativa di studio delle strategie per favorire il rimpatrio dei capitali occultati e il perseguimento della vigilanza, affinché i sistemi di internazionalizzazione finanziaria si traducano in processi di pianificazione fiscale legittima, onde scongiurare l’occultamento ovvero l’artificiosa diminuzione del reddito imputato nel bilancio consolidato dell’azienda attraverso costruzioni tecnico-giuridiche prive di motivazione economica effettiva.


(1) Organizzazione delle Nazioni Unite (i.e. ONU), Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (i.e. OCSE), Unione Europea, Gruppo di azione finanziaria internazionale (i.e. GAFI).
(2) I.e. Harmful preferential tax regimes.
(3) Le agevolazioni, ad esempio, concesse esclusivamente nei confronti di non residenti.
(4) La previsione, ad esempio, di pochi adempimenti, di sistemi societari con poche limitazioni, ecc..
(5) Letteralmente, scatole per il denaro.
(6) Scadenza poi prorogata alla metà di aprile 2002.
(7) Advance commitment letters.
(8) Vere e proprie lettere di intenti.
(9) Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Spagna ed Olanda.
(10) Si tratta, in particolare, di Austria e Lussemburgo.
(11) Comprendente, per l’appunto, gli Stati impegnati nella costruzione e rafforzamento degli accordi fiscali bilaterali o multilaterali.
(12) Letteralmente, "lista grigia".
(13) Dai trentotto presenti nel 2000, ridotti, ad oggi, ad appena quattro.

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