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GNOSIS 1/2009
Crisi della fiducia e tolleranza zero

Stati di paura e richiesta di sicurezza


Pio MARCONI


Foto Ansa

Nel saggio il Prof. Pio Marconi affronta il dibattito, sulla sicurezza e le nuove paure, sviluppatosi in Italia e in Occidente, introducendo in esso alcuni elementi nuovi di valutazione. L'insicurezza, per l'autore, non deriva dall'esplosione smisurata di patologie né è riducibile alla costruzione o alla manipolazione mediatica.
L'insicurezza, seguendo il sociologo Beck, deriva anche dalla preoccupazione per il tipo di risposta pubblica all'emergere di nuove minacce. Di fronte alla difficoltà di rapportare le strategie di prevenzione ai bisogni sociali, emerge in Europa e in Italia una pluralità di proposte di autodifesa dal basso. Il rischio di spinte spontaneistiche non sta nella rottura di una concezione centralizzata della prevenzione, ma potrebbe annidarsi nella parzialità, nell'occasionalità dei rimedi.
Alle domande che vengono dal basso si deve rispondere modificando le strategie della sicurezza e chiamando a definirle anche le Istituzioni che rappresentano direttamente la cittadinanza.
La percezione di una operosità istituzionale e di un'attenzione istituzionale per i bisogni sociali contribuisce, per l'autore, a diffondere certezze.
Con una definizione comunitaria delle scelte per la sicurezza, l'allarme sociale si riduce, perde tumultuosità, appare in forme contenute. Il senso di sicurezza torna a manifestarsi: con la percezione dell'efficacia di una risposta pubblica al delitto, con l'osservazione di un impegno degli apparati, con l'immagine di Istituzioni che operano a contatto con le persone.


Lo Stato moderno e la paura

Il bisogno di sicurezza è spesso dipinto come fenomeno istintivo, sintomo di un atteggiamento premoderno, rifiuto della complessità delle relazioni societarie, negazione di un agire prevedibile/calcolabile.
La paura del delitto, individuale e collettiva, sarebbe un sentimento da disciplinare, riprovare, rimuovere. I tanti che sostengono queste tesi trascurano il fatto che la modernità e le grandi istituzioni di essa sono nate non dalla rimozione degli allarmi sociali ma come risposta a radicate paure presenti nella collettività (1) . Lo Stato moderno, ci ricorda Hobbes, trova nella paura dell’altro la propria legittimazione. Il cittadino rinuncia ad alcune libertà per attribuire ad una superiore autorità il compito di proteggerlo.
La paura dell’altro uomo, nel Leviatano, porta alla nascita dello Stato moderno, che cancella il pluralismo gerarchico feudale e favorisce la responsabilità individuale.
Le successive trasformazioni delle istituzioni politiche moderne nascono come risposte ad altre paure che si aggiungono a quella dell’altro uomo: la paura dello Stato, la paura della società, la paura generata dall’agire di grandi organizzazioni (figure giuridiche) che operano nel mercato. Le istituzioni liberali sono un veicolo di difesa dalle minacce che possono venire dall’operare incontrollato di un potere assoluto. Lo Stato hobbesiano tutela l’individuo dalla violenza di altri individui ma non contiene in sé antidoti contro la violenza o la prevaricazione pubblica. Di qui la teoria della rappresentanza politica e, soprattutto, la filosofia del costituzionalismo che sottopone l’agire pubblico a norme generali intangibili cioè capaci di resistere alle mutevoli volontà di un legislatore ordinario. Lo Stato democratico e lo Stato sociale si affermano come difesa dalle minacce che possono venire da alcune caratteristiche della moderna società civile. Lo Stato democratico vuole correggere le distorsioni prodotte da una distribuzione ineguale della ricchezza attribuendo ad ogni cittadino, col suffragio universale, uguale capacità di decidere. Lo Stato sociale si propone di tutelare grandi gruppi sociali da possibili effetti negativi dell’economia di mercato e dall’introduzione delle macchine nella produzione. All’insicurezza e agli incerti, prodotti dalla fabbrica e dalla produzione industriale, lo Stato sociale risponde cercando di costruire per il lavoro dipendente un sistema di certezze.


Foto Ansa
 


Concezioni cospirative

A una concezione del bisogno di sicurezza, considerato come espressione di un istintivo primitivo, si affianca anche quella che lo fa derivare da una strategia. Le paure presenti nella società, secondo questa ipotesi, sarebbero il risultato di una manipolazione dell’opinione pubblica messa in opera dalle classi dirigenti, dai detentori dell’autorità politica, da poteri formali o informali. A partire dagli anni ‘90 si è assistito ad una ripresa negli USA ed in Europa di una letteratura (che ripropone il pensiero di Michel Foucault (2) ) orientata alla definizione dello Stato moderno come struttura votata al disciplinamento delle classi subalterne.
Tali orientamenti considerano la paura del delitto come il frutto di una strategia manipolativa messa in atto dai pubblici poteri per spostare l’attenzione della collettività da temi concreti come la crisi economica e la crisi fiscale dello Stato a questioni simboliche come la criminalità o la presenza negli spazi urbani di nuove classi pericolose, identificabili con i segni evidenti dell’estraneità etnica, linguistica, culturale. La diffusione di forti allarmi sulla criminalità, l’enfatizzazione del tema della punizione e della responsabilità avrebbe lo scopo di condizionare l’opinione pubblica. Essa sarebbe indotta a rinunciare all’idea di una responsabilità collettiva nella soluzione di gravi problemi sociali (principio che ha guidato le politiche di Welfare State che ha ispirato le élites occidentali in buona parte del XX secolo) per tornare all’idea di responsabilità individuale (tipica della cultura liberale).
In base a tali teorie la nuova attenzione verso il tema della punizione e del controllo della devianza, oltre a svolgere una funzione di tipo culturale (riaccreditare la responsabilità individuale) contribuirebbe al controllo di una parte di popolazione collocata in condizione di marginalità. Il carcere sarebbe un dispositivo “che si traduce, per coloro che abitano gli strati inferiori della società, in un controllo sociale severo e puntiglioso” (3) . La crescita del tasso di carcerizzazione, amplissimo negli USA e in rapida lievitazione in Europa, avrebbe lo scopo di disciplinare una quota di popolazione costretta da un nuovo sistema delle relazioni economiche all’emarginazione, alla precarietà, all’impoverimento. Il controllo avverrebbe sia attraverso misure di tipo detentivo sia attraverso tecniche di servizio sociale coercitivo tese a coniugare la sanzione penale con la risocializzazione (4) .


L’oggettività dei fenomeni

Le riflessioni sull’insicurezza non si limitano a considerarla come il frutto di una costruzione sociale o come una cospirazione tesa a manipolare l’opinione pubblica. In materia di criminalità sono cresciute negli ultimi decenni ricerche orientate a fornire eloquenti dati quantitativi e utili ipotesi interpretative. Marzio Barbagli in un’opera sul furto (5) ha, ad esempio, messo in risalto l’entità della cifra oscura dei delitti contro il patrimonio (stimandoli al triplo di quelli denunciati) ed ha cercato di spiegarne la crescita nelle società sviluppate. L’Autore ha ulteriormente elaborato l’ipotesi classica secondo la quale il delitto contro il patrimonio sarebbe favorito dai differenziali di risorse che dividono l’area della ricchezza da quella del disagio (sia a livello internazionale sia nelle comunità nazionali) e ne ha introdotto una nuova: quella della mobilità della popolazione come terreno di cultura di una moltiplicazione delle attività predatorie. “Un numero crescente di persone si sposta da un luogo all’altro (…).
Si è allargata la popolazione dei city users, dei ‘consumatori metropolitani’ (…). Così avvicinando le vittime potenziali a coloro che sono disposti a compiere un reato, creando affollamenti e ingorghi di traffico, la mobilità spaziale favorisce borseggi e scippi, rapine e furti di auto (…). Infine la produzione e il consumo di massa hanno agevolato lo sviluppo di un mercato dei beni rubati” (6) . Barbagli ha anche affrontato la questione della criminalità degli stranieri. L’Autore non attribuisce alla sola immigrazione la causa della esplosione della criminalità ma sottolinea che “nell’ultimo decennio, la quota degli stranieri sul totale dei condannati è continuamente cresciuta” (7) .
Barbagli mette anche indirettamente in risalto l’origine di alcuni allarmi sociali segnalando che “la quota degli stranieri sui condannati ha raggiunto valori più alti in certi luoghi e in certi strati della popolazione che in altri” e che “questi valori sono eccezionalmente elevati nelle grandi città dell’Italia centro-settentrionale, dove ci si è avvicinati ai livelli dei Paesi europei che hanno una percentuale di stranieri sulla popolazione molto maggiore della nostra” (8) . Barbagli, ha infine, evidenziato il ruolo che gli immigrati irregolari svolgono nella crescita della criminalità. “Sul totale dei cittadini extracomunitari denunciati per i vari delitti, quelli senza permesso di soggiorno sono quasi il 70% per le lesioni volontarie, il 75% per gli omicidi, l’85% per i furti e le rapine. Così se gli immigrati regolari commettono oggi più spesso reati degli autoctoni (…) gli irregolari superano di molte volte, per tassi di criminalità, sia i primi sia i secondi” (9) .


Inefficacia di controlli

La crescita del delitto sarebbe favorita/alimentata dalla presenza di reti informali a supporto della devianza e dall’assenza di efficaci misure di punizione/prevenzione. Nello studiare le cause della criminalità degli immigrati, Barbagli segnala l’importanza di reti attrattive, di tessuti di cultura/tradizione comunitaria che favoriscono l’ingresso di sempre nuove leve. L’Autore mette in risalto come di tali reti si conosca solo la parte virtuosa, quella orientata all’inserimento nel mercato del lavoro. “Poco o nulla sappiamo invece delle reti viziose di coloro che si spostano per altre finalità. Eppure anche esse svolgono un ruolo cruciale. È attraverso tali reti che i parenti e gli amici restati a casa ricevono dagli immigrati nelle città italiane informazioni preziose sulle attività illecite, su quanto rendono, sui rischi che comportano. Ed è grazie a tali reti che essi ottengono aiuto per superare i confini del nostro Paese, trovare alloggio, iniziare piccoli o grandi traffici” (10) .
Barbagli mette anche in risalto come la mancata applicazione di alcune norme di tipo amministrativo abbia avuto un effetto criminogeno ed abbia contribuito alla moltiplicazione del crimine. “La crescita della criminalità degli irregolari è stata (…) favorita anche dall’inefficienza del sistema dei controlli interno al nostro Paese. La legge Martelli restata in vigore fino al febbraio del 1998 e la mancanza di collaborazione da parte dei Paesi di origine, hanno di fatto reso impossibile (…) l’espulsione dall’Italia degli stranieri privi di permesso di soggiorno. Questa situazione ha avuto due diverse conseguenze. La prima è che, paradossalmente, gli irregolari hanno goduto di una impunità maggiore dei regolari, perché questi ultimi hanno un documento di identità autentico e dunque, se commettono un reato grave, oltre a perdere il permesso di soggiorno, possono essere facilmente rimpatriati. La seconda conseguenza è che si è formato un esercito numeroso di persone che, non riuscendo a rientrare nel mercato del lavoro lecito, si è dedicata a tempo pieno alle attività illecite” (11) .


La sfiducia

L’insicurezza non può essere ridotta a costruzione culturale (irrazionale, ideologica, indotta) ma non può neppure essere considerata come risposta automatica ad un crimine in crescita (quantitativa o qualitativa). L’esistenza di una minaccia sta sicuramente alle origini dell’insicurezza. Ma la dimensione dell’insicurezza non deriva soltanto dalla esistenza di un rischio. La società moderna ha trovato la propria configurazione tipica nella capacità di controllare i fenomeni naturali e, quindi, di gestire grandi rischi. L’industria e il macchinismo industriale sono il frutto della capacità umana (di un uomo nato in un contesto sociale determinato) di controllare forze della natura. La paura dell’uomo moderno non riguarda i fenomeni minacciosi ma, piuttosto, la possibilità e la capacità di contrastarli. Ulrich Beck, sociologo del rischio, ha messo in luce il nesso strettissimo esistente tra allarme sociale e disponibilità di rimedi necessari/utili per fronteggiare la minaccia. La moderna società del rischio, scrive Beck, non è il prodotto di eventi quantificabili: “questa esplosività politica non può essere descritta o misurata (…) in termini di numero di morti o di feriti, né con formule scientifiche” (12) . La società del rischio si configura nel momento in cui “le conseguenze e i pericoli globali frutto delle decisioni della nostra civiltà sono in netto contrasto con il linguaggio del controllo istituzionalizzato e con la promessa di controllare la situazione” (13) . La paura, alla luce della analisi di Beck, si forma e si diffonde quando in presenza di una minaccia sembrano non esistere, tardare, essere negati i rimedi.


La sicurezza nella società industriale

Il senso di insicurezza è oggi in parte alimentato dal venir meno di alcune certezze in materia di protezione della società dal delitto. La società industriale aveva prodotto grandi modificazioni nella distribuzione della popolazione sui territori, nella stratificazione e nella mobilità sociale, nella dimensione di osservanza e devianza. L’avvento della società industriale era stato il teatro di un grande spostamento di popolazioni dalle campagne alle città. La prima industrializzazione aveva visto trasferimenti di massa dall’agricoltura all’industria, la seconda industrializzazione era stata caratterizzata dalla migrazione di forza lavoro dai paesi meno industrializzati a quelli più sviluppati. I grandi spostamenti di popolazione prodotti dall’avvento della società industriale si erano accompagnati alla moltiplicazione di fenomeni di criminalità. La letteratura economica (ma anche quella di semplice descrizione sociale, si pensi al romanzo inglese del ‘700 o a quello francese dell’800) nel descrivere quella fase, definita come accumulazione primitiva, non ha mai mancato di segnalare in essa la crescita del delitto. Una parte delle popolazioni spostate dalla campagna alla città, in conseguenza della insicurezza del mercato del lavoro, era portata ad attività/azioni predatorie. La società industriale risponde alle nuove insicurezze con una serie di misure dirette (norme penali, attività di prevenzione e di polizia) ed indirette (organizzazione sociale prime forme di protezione della marginalità sociale).


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Una strategia omogenea

Una risposta diretta al disordine prodotto dallo spostamento della popolazione che accompagna la nascita dell’industria è la formazione di un sistema repressivo statale, unitario e non più frammentato. L’avvento della società industriale moderna si accompagna alla diffusione di sistemi penali omogenei negli Stati nazionali e di un sistema di prevenzione/giurisdizione tendenzialmente unitario. Al pluralismo normativo dell’Ancien régime (nel quale gli illeciti sono definiti in modo estremamente mutevole) e al pluralismo organizzativo (pluralità di giurisdizioni, disomogeneità delle sanzioni, sistema delle immunità) si sostituisce il principio della universalità della norma penale (14) . Essa deve colpire l’illecito ovunque sia stato compiuto e senza prevedere trattamenti privilegiati derivanti dallo status (le esenzioni del clero e dell’aristocrazia, gli statuti processuali diversi del contadino feudale e del borghese).
Un’ulteriore risposta diretta al disordine prodotto dall’industrializzazione è la finalizzazione della punizione al recupero sociale. La filosofia dell’utilitarismo orienta la pena al beneficio della società. La punizione che segue il delitto non deve aggiungere ulteriori ferite al corpo sociale. L’utilitarismo contrasta le pene corporali o le mutilazioni perché sono misure produttrici di oneri assistenziali che aggravano le conseguenze del delitto. La teoria dello scopo nel Diritto penale e poi la Scuola Positiva finalizzano la pena al reinserimento sociale. La prassi penale del XX secolo è prevalentemente ispirata al principio della prevenzione.


L’ordine e il tessuto sociale

L’ordine nella società industriale è garantito, però, anche dall’organizzazione spontanea della repressivo/disciplinare che intervengono sul tessuto sociale. Uno strumento capace di garantire ordine nella società industriale è l’organizzazione della produzione. I padri della scienza sociale ottocentesca sono unanimi nel considerare la fabbrica come il principale veicolo di ordine sociale. Auguste Comte considera il mercato del lavoro come il fattore fondamentale dell’osservanza nella società moderna (15) . Marx parla di una silenziosa coazione dei rapporti economici (16) . Spencer vede la società industriale come teatro di relazioni pacificate, luogo di estinzione della violenza (17) . Con il passaggio dallo Stato liberale elitario allo Stato democratico e con la diffusione delle politiche di Welfare, la redistribuzione di risorse pubbliche diventa nelle società sviluppate un grande strumento di contenimento della devianza. Merton, con la sua analisi dell’anomia (18) , aveva descritto la genesi del comportamento deviante nelle società dell’opulenza diseguale. L’agire anomico è il risultato del tentativo di raggiungere mete socialmente apprezzate con strumenti diversi da quelli convenzionalmente approvati.
La devianza, quindi, è il prodotto della carenza di mezzi leciti o dell’assenza di una conoscenza dei mezzi istituzionali necessari/sufficienti al raggiungimento di fini socialmente apprezzati. Le politiche di Welfare si configurano come tentativo di offrire a tutti coloro che godono della cittadinanza politica di strumenti necessari al raggiungimento delle mete sociali, valorizzate dalla società. Nella società industriale la diffusione della grande manifattura, unita alla crescita delle politiche di ridistribuzione sociale, riduce le occasioni di devianza. Chi osserva le statistiche criminali dei Paesi sviluppati nel secondo dopoguerra (fase nella quale l’Occidente sceglie le politiche di inclusione disegnate nel 1942 da Lord Beveridge) nota un costante calo sia della criminalità sia della carcerizzazione. Il fenomeno è imputabile alle misure di pacificazione/inclusione sociale introdotte dai paesi sviluppati alla conclusione del secondo conflitto mondiale (19) e a una crescita della produzione che coinvolge in misura omogenea i Paesi occidentali sino alla crisi petrolifera del 1973.


La società post-industriale

Anche la società post-industriale si caratterizza per i grandi spostamenti della popolazione. Oggi le megalopoli fioriscono, oltre che nel Primo (20) , nel Terzo Mondo. I processi di globalizzazione della economia e del lavoro inducono prepotenti fenomeni di inurbamento. Essi sono generati, innanzitutto, dalle nuove opportunità di una produzione e di una distribuzione senza frontiere delle merci e, in secondo luogo, da una distribuzione delle risorse fortemente disuguale. Alcuni dati (come quello sull’alfabetizzazione e sui tassi di mortalità infantile) lasciano ipotizzare una riduzione dell’impoverimento assoluto della parte più debole della popolazione mondiale. Altri dati (quelli relativi al reddito pro capite nel gruppo dei Paesi più ricchi e in quello dei più poveri) segnalano una crescita dell’impoverimento relativo. I differenziali di reddito, in presenza di una rapida innovazione delle scienze e dei modelli di produzione, condizionano pesantemente non solo la disponibilità di alcuni beni di consumo ma aspetti profondi dell’esistenza. Il mondo si va dividendo tra Paesi con un’aspettativa di vita che si avvicina agli 80 anni e Paesi con un’aspettativa di vita ancorata ai 40 anni! La grande migrazione post-industriale è dovuta tanto al processo di globalizzazione quanto alle difficoltà di ridistribuire equamente le risorse ad alto contenuto tecnologico (costo crescente della innovazione sanitaria, costo del collegamento alle reti, dell’energia, della tecnologia evoluta). La struttura stessa del lavoro post-industriale incentiva nuove forme di devianza. Rifkin ipotizza nel mondo post-industriale una criminalità non congiunturale ma strutturale (21) . Alle porte del “nuovo villaggio supertecnologico globale” si accampa, secondo questo studioso, una popolazione povera e disperata che alimenta una diffusa subcultura criminale (22) .


La crisi degli strumenti di controllo

Nella società post-industriale vengono a mancare alcuni degli strumenti che consentivano alla società industriale un efficace controllo della devianza. Viene meno, nelle società più sviluppate, la fabbrica fordiana, l’organizzazione centrale/gerarchica del lavoro, la grande struttura capace di disciplinare e di contenere in spazi e tempi determinati quote significative di popolazione. Viene meno il controllo sociale del tempo e dello spazio: fenomeno tipico della società industriale. La produzione post-industriale si frammenta, si delocalizza e si diffonde sia nello spazio sia nel tempo. Lo spazio e il tempo della produzione della ricchezza nella dimensione post-industriale diventano indeterminati. La natura della produzione (spesso post-materiale, simbolica, informatica) consente una localizzazione casuale ed occasionale. I caratteri della produzione impongono tempi di produzione frammentati: intermittenti oppure seriali. Nell’ambiente post-industriale è sempre più difficile controllare il territorio e il tempo, dal punto di vista della vocazione.
Nelle città globali lo spazio della residenza coincide con quello della produzione della ricchezza e della distribuzione delle merci. Nell’economia post-fordiana si fa evanescente la distinzione tra tempo di lavoro, tempo libero, tempo di riposo. Nella società post-industriale si riduce soprattutto la possibilità di favorire l’inclusione con la ridistribuzione di risorse pubbliche. L’economia post-industriale si affaccia nei Paesi sviluppati in concomitanza con la crisi fiscale dello Stato (l’impossibilità di una alimentazione crescente della spesa pubblica attraverso la leva fiscale) e con la necessità di modificare l’impostazione dei bilanci di Welfare. Il deperimento del rapporto di lavoro subordinato e della grande organizzazione del lavoro impone di cambiare i sistemi di alimentazione dell’assistenza. Il Welfare non può più fondare le proprie aspettative sugli apporti derivati dall’ingresso di sempre nuove coorti nel lavoro dipendente ma deve misurarsi con logiche di mercato: l’accantonamento di quote crescenti di reddito, l’investimento con i rischi correlati.
Le trasformazioni sociali incidono anche su alcuni strumenti specifici di controllo della devianza. Il modello post-industriale, caratterizzato dalla grande migrazione, rende sempre più difficile finalizzare la sanzione alla risocializzazione. Risocializzare chi? Risocializzare a quale modello di società? Risocializzazione come promessa di inclusione? Risocializzazione come condizione di una possibile esclusione? Le politiche di allargamento della cittadinanza sociale, inaugurate nel secondo dopoguerra, avevano come presupposto l’esistenza di una cifra certa della cittadinanza politica. Ai cittadini in senso formale si attribuivano benefici sociali alimentati da una più equa distribuzione dei redditi. Ma come operare se si pretende di fornire la cittadinanza sociale ad un indeterminato universo di persone portatrici di bisogni?


La tolleranza zero

Nelle società post-industriali la moltiplicazione degli allarmi unita alla crisi dei rimedi anticrimine, tipici della società industriale, provoca una richiesta di moltiplicazione dei controlli, di innovazione nella prevenzione, di repressione mirata a contrastare le patologie emergenti. Il bisogno di sicurezza spesso si manifesta con la richiesta di misure draconiane e con il ricorso a formule dotate di una robusta capacità di coinvolgimento. Alla fine degli anni ’90 ebbe molto successo negli Usa e in altri Paesi europei la formula della ‘Tolleranza zero’ inaugurata nella città di New York dal sindaco Rudolf Giuliani con l’ausilio di Wiliam Bratton. Questa formula affiancava la teoria della brocken window, elaborata negli anni precedenti da alcuni studiosi; teoria che, partendo da dati sperimentali e da alcune evidenze, considerava la tolleranza di una quota minore di disordine un fattore di stimolo della moltiplicazione del disordine. La formula della ‘Tolleranza zero’ ha avuto molto successo negli USA ed è stata in alcuni casi esportata in Europa. I risultati, nella città di New York, si sono tradotti in una significativa riduzione della criminalità predatoria e di quella violenta. La formula della ‘Tolleranza zero’ suscita facili emozioni. Ha una forte capacità attrattiva (23) e una forte attitudine a produrre repulsione. Un settore della criminologia ha voluto demonizzarla come sinonimo di repressività, come espressione di ideologie reazionarie, come manifestazione di una volontà punitiva nei confronti del disagio (prima che del disordine) sociale.
Tolleranza zero, per un giurista formatosi nell’Europa continentale, evoca l’imperativo kantiano, la punizione da erogare, in ogni modo ed in ogni situazione, come conferma della autorità dello Stato. Nella prassi statunitense si tratta però di qualche cosa di diverso, di una tecnica di prevenzione non indiscriminata ma orientata a soddisfare i più urgenti bisogni di sicurezza e ad ottimizzare l’azione pubblica. Aspetto essenziale della strategia del sindaco Giuliani era la riduzione degli sprechi e la destinazione della risorsa sicurezza ad obiettivi mirati e selettivi. Il Dipartimento di polizia della Città di New York (24) aveva puntato, nell’organizzare la prevenzione, sul sistema Compstat, un programma di rilevamento (con l’ausilio di tecniche informatiche e statistiche di proiezione nello spazio oltre che nel tempo di dati sociali rilevanti) del crimine con scadenze periodiche ravvicinate. Attraverso il sistema Compstat l’Amministrazione di New York era in grado di identificare le aree urbane, nelle quali periodicamente si addensava l’attività criminale, e di conoscere la natura dei crimini commessi. Il rilevamento consentiva di destinare l’attività di prevenzione alle zone colpite da una maggiore attività criminale e di orientare l’azione della polizia alla prevenzione dei reati più gravi o di quelli che, in assenza di una pronta azione di contrasto, avrebbero potuto moltiplicarsi.


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Duttilità ed efficacia

L’elasticità della prevenzione è una caratteristica dei sistemi penali di tipo anglosassone. Gli USA, negli anni ’90, sono stati teatro di una pluralità di strategie dotate, spesso, di orientamenti radicalmente diversi. Alla politica di prevenzione introdotta a New York dal sindaco Giuliani si era affiancata ad esempio quella della città di San Diego che preferiva alla ‘Tolleranza’ zero una forma di controllo comunitario della trasgressione. Il modello di San Diego, più che alla repressione, si ispirava alle tecniche di riduzione della devianza proposte dalla celebre opera di Jane Jacobs (25) dedicata allo stile di vita, ai sistemi di relazione, alle solidarietà informali nei quartieri urbani. L’elasticità negli USA è favorita dalla organizzazione delle attività di investigazione, di prevenzione e di esercizio dell’azione penale. L’elezione popolare o la nomina da parte di un’autorità politico amministrativa dei vertici delle polizie e degli uffici dell’accusa favorisce un forte controllo sociale. Le strategie di prevenzione si configurano, nel sistema statunitense, come una scelta della comunità più che come una decisione di un’autorità pubblico/burocratica svincolata dalla collettività nella quale è chiamata ad operare. Il modello di processo, l’organizzazione della prevenzione, il rapporto stretto esistente tra polizia e comunità esistenti negli USA sono, in buona parte, all’origine del successo delle nuove politiche della sicurezza (26) e, più in generale, delle innovazioni in materia di sicurezza.


Il modello europeo

I sistemi penali dell’Europa continentale sono prevalentemente ispirati a principi centralistici. L’organizzazione della magistratura e della polizia in Europa si ispira più all’amministrazione napoleonica che alla cultura civica dei Paesi anglosassoni. In Europa il modello napoleonico si manifesta certo in modo graduato e con differenze sensibili tra diversi Stati. La Germania attenua il centralismo attribuendo ai Länder un ruolo nella selezione di giudici e accusatori. In Francia l’ethos burocratico è mitigato da forme di controllo istituzionale dell’accusa, che consentono di orientarla ai bisogni sociali prevalenti. In Spagna è forte il controllo parlamentare sia della funzione giudiziaria sia di quella di polizia. Come osserva Guarnieri (27) la sola Italia gode/soffre di un sistema giudiziario e di un sistema di polizia dotato di fortissime connotazioni burocratiche. Connotazioni che sono andate nel tempo rafforzandosi. Con il nuovo Codice di procedura penale la centralità attribuita agli uffici requirenti nelle indagini ha ridotto la possibilità della polizia di prevenzione e della polizia giudiziaria di calibrare l’intervento a bisogni e ad allarmi presenti nel corpo sociale. Il sistema italiano di prevenzione è costruito su di una organizzazione dei corpi di polizia centralistica e su di un reclutamento/organizzazione burocratica degli uffici dell’accusa. Il principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale, interpretato come insindacabilità delle scelte dell’accusa anche in materia di politica criminale e di difesa sociale (cioè di definizione delle priorità di intervento), affida il compito di rispondere all’allarme sociale ad un ufficio che opera con difficoltà di coordinamento e di controllo. Il nuovo Codice di procedura penale ha addirittura ridotto gli scarsi poteri dei quali il Procuratore generale godeva nel distretto di appartenenza.


Spontaneismo e prevenzione

Di fronte alla difficoltà di rapportare le strategie di prevenzione ai bisogni sociali, emerge in Europa e in Italia una pluralità di proposte. Dalla richiesta dell’attribuzione di funzioni di vigilanza a gruppi informali di cittadini, alla richiesta di un ruolo maggiore delle autorità elettive locali nella organizzazione della prevenzione e a volte nella definizione di forme nuove di illecito. Il rischio di spinte spontaneistiche non sta nella rottura di una concezione centralizzata della prevenzione, derivata da una filosofia che attribuisce allo Stato un primato sul cittadino, e all’autorità pubblica la facoltà di legittimare i bisogni presenti nella società. Il rischio, piuttosto, consiste nella parzialità e nella occasionalità dei rimedi. Lo spontaneismo nella prevenzione può creare forme momentanee di rassicurazione ma non è in grado di rispondere ai grandi allarmi sulla sicurezza. Questi non si limitano a chiedere il ‘fai da te’ ma rivendicano un nuovo orientamento dei poteri pubblici, in materia normativa, nella politica di spesa, nei rapporti con la comunità.


Norma e innovazione

Essenziale ad un recupero della fiducia e alla riduzione degli allarmi, è una politica penale capace di contrastare in modo efficace il crimine. Gli strumenti sono diversi. Innanzitutto la norma. Il problema non è tanto la durezza della pena quanto, piuttosto, il recupero del principio di responsabilità: effettività della sanzione, rifiuto di ogni forma diretta od indiretta di giustificazione del comportamento delittuoso. Alle origini di una moltiplicazione del crimine non stanno solo oggi fattori sociali (immigrazione, occupazione, allargamento del divario di classe) ma anche fattori culturali. Una normazione penale orientata sempre e comunque ad un obiettivo di inclusione e una diffusa ideologia di delegittimazione delle istituzioni punitive ha favorito nel tempo forme di giustificazione della devianza (28) . Non è possibile combattere il crimine se lo si considera sempre come inevitabile conseguenza di una malattia dell’organizzazione sociale. Un secondo strumento è l’innovazione. L’innovazione non significa sempre e solo spesa aggiuntiva, oneri di bilancio, spostamento di risorse, conflitti redistributivi. Non va sottovalutata la funzione di tecnologie sofisticate, ma occorre ricordare anche il ruolo svolto dal cambiamento delle procedure, dall’utilizzo a costo basso (a volte a costo zero) di sperimentate tecniche di gestione/ programmazione sociale. In molti casi l’innovazione, in materia di sicurezza, richiede un forte impegno di spesa, spostamenti significativi delle voci dei bilanci pubblici. In altri casi l’innovazione coincide con una economia di gestione.


Comunità e azione

Un elemento fondamentale per una economia politica della prevenzione sta nel collegamento con la comunità. Una strategia definita a contatto con i bisogni della società civile consente di ottimizzare le spese. Il concorso della comunità alla definizione delle strategie di difesa sociale non va considerato come un veicolo di sempre maggiori investimenti: la partecipazione è anche fonte di controllo e di razionalità. L’apporto della società civile ha inoltre la capacità di ridurre l’allarme. L’insicurezza, nella società del rischio, non viene solo dalla minaccia o dalla entità delle lesioni subite da un gruppo sociale, viene, soprattutto, dalla constatazione della assenza di rimedi capaci di contrastare la minaccia o della mancanza di una volontà decisa ad attivarli.
L’insicurezza è anche il prodotto delle organizzazioni centralistiche della prevenzione, di una burocratizzazione delle strategie di contrasto del crimine. L’allarme è spesso una manifestazione di insoddisfazione nei confronti di Istituzioni che pretendono di definire il bisogno sociale prima di aver ascoltato la società civile, gli interessi che in essa si intrecciano, la convergenza e la divergenza delle aspettative. La formazione comunitaria delle strategie rende, viceversa, trasparente l’agire delle Istituzioni che operano per la prevenzione. La percezione di una operosità istituzionale contribuisce a diffondere certezze. Nella definizione comunitaria delle scelte per la sicurezza l’allarme sociale si riduce, perde tumultuosità, appare in forme contenuto. Un senso di sicurezza torna a manifestarsi: con la percezione dell’efficacia di una risposta pubblica al delitto, con l’osservazione di un impegno degli apparati, con l’immagine di Istituzioni che operano a contatto con i bisogni delle persone. Quindi Istituzioni dal volto umano.


(1) Cfr. D. Pasini. Paura anarchica e paura organizzata, in D. Pasini. (a cura), La paura e la città, Astra, Roma, 1983.
(2) Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, tr. it., Einaudi, Torino, 1976.
(3) L. Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell'insicurezza sociale, tr. it., Derive Approdi, Roma, 2006, p. 26.
(4) J. Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, tr. it., R. Cortina ed., Milano, 2007. Secondo Simon negli USA "il tasso di incarcerazione ha raggiunto un livello quasi cinque volte superiore a quello medio anteriore al 1980, e il 3 per cento della popolazione americana adulta è sottoposta a qualche forma di controllo da parte delle agenzie correzionali nella maggior parte dei casi parole, probation o community supervision)" (op. cit., p. 7).
(5) M. Barbagli, L'occasione fa l'uomo ladro. Furti e rapine in Italia, Il Mulino, Bologna 1995.
(6) Ivi, p. 259.
(7) M. Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 74.
(8) Ivi, p. 76.
(9) Ivi. p. 120.
(10) M. Barbagli, Immigrazione, cit., p. 121.
(11) Ivi.
(12) U. Beck, Un mondo a rischio, tr. it., Einaudi, Torino, 2003, p. 11.
(13) Ivi, p. 10.
(14) Sui caratteri della moderna amministrazione della punizione cfr. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Il Mulino, Bologna, 1976.
(15) A. Comte, Corso di filosofia positiva, vol. II, tr. it., UTET, Torino, 1967, p. 224.
(16) K. Marx, Il Capitale, vol. I, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma, 1964, p. 471.
(17) H. Spencer, Principi di sociologia, vol. II, tr. it., UTET, Torino, pp. 375 e sg.
(18) R.K. Merton, Teoria e struttura sociale, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1959.
(19) Sulla prevenzione favorita da politiche di inclusione, cfr. D. Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, tr. it., Il Saggiatore. Milano, 2001.
(20) Cfr. S. Sassen, Città globali, tr. it., Utet, Torino, 1997.
(21) J. Rifkin, La fine del lavoro, tr. it., Baldini e Castoldi, Milano, 1995, p. 336 e sg..
(22) Ivi, p. 18.
(23) Cfr. G. Fenech, Tolleranza zero, tr. it., Medusa, Milano, 2001.
(24) Cfr. W. Bratton, Cutting Crime and Restoring Order: What America Can Learn From New York, Heritage Lecture, No. 573, 1996 Washington, DC.
(25) J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città, tr. it., Comunità, Torino, 2000.
(26) G. Fenech, op. cit., p. 92.
(27) Cfr. C. Guarnieri, L'ordine pubblico e la giustizia penale, in R. Romanelli, Storia dello Stato unitario, Donzelli, Roma, 1995; Id, Magistratura e politica in Italia, Il Mulino, Bologna, 1992.
(28) Cfr. S. Romano, Immigrazione e delinquenza, un problema europeo, in G. Fenech, Tolleranza zero, cit..

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