GNOSIS 1/2009
Un fenomeno in continua evoluzione I nuovi fronti del terrore e la nostra vulnerabilità |
Emanuela C. DEL RE |
Il vertice NATO, tenutosi il 3 e 4 aprile 2009, ha ridisegnato gli equilibri in merito al contrasto al terrorismo. La partecipazione di Obama, a pochi mesi dal suo insediamento, era attesa. Fine della War On Terrorism di Bush, inizio dell’anti-terrorismo stile Obama, con conseguente riassestamento del resto del mondo. Il terrorismo è il termometro del nostro “grado di vulnerabilità”. Misura, infatti, non solo l’efficacia della nostra strategia di difesa, ma, anche, la capacità di prevenzione e soprattutto la nostra capacità di reagire all’impatto appena esso avviene. Credo che il punto debole dell’attuale strategia stia proprio nella mancanza di prontezza, di readiness. Il terrorismo trova sempre nuovi fronti su cui muoversi – la cyber-war, ad esempio, è già iniziata in Estonia – rendendo le strategie necessariamente diversificate, ma il mind set – abito mentale – deve essere condiviso, coerente, coordinato a livello internazionale, trasversalmente. Non è facile, perché anche sulle strategie di contrasto ci si trova su piani differenti, come nell’interpretazione del concetto di privacy quando vi siano ragioni legate al terrorismo, per entrarvi o violarla a seconda di come la si vuole vedere. Interessi geopolitici e geostrategici influenzano fortemente alleanze ed equilibri, creando a volte ambiguità, con forti discrasie tra le decisioni prese dalla maggioranza e parte dell’opinione pubblica sulle relazioni internazionali. Ancora, mentre appare chiaro che i singoli Stati non possono combattere il terrorismo da soli, allo stesso tempo è evidente che la lotta al terrorismo sul piano locale è cruciale e presenta le maggiori criticità, che stanno nelle questioni politiche interne, nelle alleanze più o meno esplicite, nel ruolo dei mass media, nel clima sociale che si crea a seguito di tutto questo, nella non-condanna esplicita. Non va sottovalutato il meccanismo di reclutamento sia in Occidente sia altrove, perché gli atti terroristici vengono perpetrati da persone, che siano esse ingegneri, laureati nelle università occidentali, o che siano semplici cittadini, che commettono attacchi suicidi. Non a caso, tra le caratteristiche generiche del terrorismo attuale emergono: le motivazioni, che fanno appello al fanatismo e raramente a obiettivi specifici; l’ubiquità delle origini del terrorismo e dei targets (moltissimi Paesi nell’uno e nell’altro caso); l’obiettivo di ottenere quante più vittime possibili; il suicidio/immolazione come pratica consueta, ovvero la “personalizzazione” dell’atto terroristico, cui infatti spesso segue un processo di idealizzazione. Sono questi elementi qualitativi, di difficile misurazione, tanto che i dati in merito si basano su proiezioni e analisi di fatti accaduti. Si adattano tutti o in parte a un determinato gruppo. Anche in questo campo l’indagine va ampliata e condotta sul piano interdisciplinare. L’inadeguatezza di certe risposte del contrasto al terrorismo viene sempre spiegata con il fatto che si tratta di “nuove” situazioni. Ma se la mente va subito al terrorismo di evidente matrice religiosa, il fatto che questo sia “nuovo” è opinabile, perché è attivo da anni (1) . Il fatto “nuovo” è che con l’attacco alle Twin Towers è apparso chiaramente il nesso tra religione, potenzialità e gran numero di vittime (mass) come obiettivo, con una proporzione non solo simbolica ma anche tragicamente concreta mai sperimentata prima. Esistono poi altre forme di terrorismo: il terrorismo etno-nazionalista e separatista, come ad esempio Euskadi Ta Askatasuna (ETA) o il Kurdish Workers Party (PKK), che dal 2003 si è rinominato Kongra Gel; il terrorismo anarchico di sinistra come, ad esempio, il Revolutionary People’s Liberation Army (DHKP-C) o la Federazione Anarchica Informale (FAI); il terrorismo di destra che, in genere, si rifà al Nazional-Socialismo. Tutti nuovi? Forse quello che deve costituire la novità è la nostra percezione del fenomeno. Ad esempio, vale la pena ricordare che, a differenza dell’immagine che l’11 Settembre ha scolpito in tutti noi, le caratteristiche generali del terrorismo attivo mostrano che il terrorismo in genere viene messo concretamente in atto da piccoli gruppi, al di là della popolarità di cui essi possono godere e che, anche quando l’organizzazione che li sostiene è grande, il numero di militanti che realmente praticano attività terroristiche è limitato. Certo la popolarità di cui gode Osama Bin Laden che si ripropone periodicamente, che sia vivo o morto, con i suoi video su Al Jazeera, non è da tutti. L’ultimo, nel quale si rivolge ad alcuni leaders arabi accusandoli di essere complici di Israele e dell’Occidente contro i musulmani, ha messo nuovamente in luce il fatto che gli obiettivi non hanno solo collocazione geografica, ma anche collocazione ideologica, religiosa, politica ed economica, che in qualche caso prevale. Sprezzantemente si riferisce a loro chiamandoli “quelli che l’Occidente chiama moderati”, aprendo una disquisizione linguistica e filosofica sul concetto di “moderazione”. Il richiamo di Bin Laden alle difficoltà che incontrerà Obama nel gestire la crisi finanziaria, deriva da un elemento ricorrente nel suo “discorso” terroristico, per cui egli frequentemente sottolinea le implicazioni economiche – il prezzo del petrolio, ad esempio – e le conseguenze sociali della crisi, evidenziando che il “clima sociale” non può essere sottovalutato (un richiamo che dovrebbe far riflettere i decisori sulle strategie). Il mondo musulmano si trova nella situazione più complessa. Di siti musulmani contro il terrorismo è piena la Rete e le Fat¯awa, i pareri legali formali emessi da un’autorità religiosa nel mondo musulmano, anche in merito al terrorismo, sono numerose. Tra queste, resta storica la Fatwa emessa dal seminario religioso di Darul Uloom a Deoband, in India nel maggio 2008. Invitati i rappresentanti di quasi tutte le sette religiose dell’India ad una Conferenza su “Anti-Terrorismo e Pace Globale”, cui hanno partecipato più di ventimila persone, il gran Mufti e le altre autorità religiose del seminario hanno affermato: “Nell’Islam, il creare disordine e disaccordo sociale, la rottura della pace, la rivolta, lo spargimento di sangue, il saccheggio, l’uccisione di persone innocenti ovunque nel mondo, sono tutti da considerarsi come i crimini più disumani”. La fatwa è stata sottoscritta anche dai Mullah presenti alla Conferenza. L’aspetto importante è che ad emetterla siano stati proprio gli alti rappresentanti del seminario di Deoband, con il gran Mufti stesso. Il seminario di Deoband è visto come l’ispiratore di molti gruppi come gli “jihadisti stranieri” attivi in Iraq, che affermano di trarre da esso ispirazione, così come i gruppi militanti pakistani Jaish-e-Muhammad e Harkat-e-Islam. Talebani sia dall’Afghanistan sia dal Pakistan vi sono stati educati. Si dice anche che quando gli aspiranti terroristi vogliono studiare l’Islam si rechino a Deoband. La Fatwa allora assume un’importanza enorme (2) . Non è tanto il contenuto, quanto chi lo esprime, a rendere questa esplicita condanna del terrorismo storica. Essa, peraltro, ha avuto vastissima eco nel mondo, dal sud est asiatico alla Gran Bretagna, dove i deobandesi costituiscono il secondo gruppo per grandezza di musulmani asiatici. Le valutazioni sui criteri di opportunità alla base di questa presa di posizione sono molte, ma è chiaro che se in questo ambito a colpi di atti simbolici ci si muove, allora questo è l’atto simbolico per eccellenza. Dal mondo musulmano stesso, tuttavia, arrivano richieste di atti più concreti, come lo svelare i nascondigli di terroristi, denunciandoli. L’Islam moderato affonda nelle sabbie mobili della paura e del ricatto. A volte, cede alla lusinga dell’eroismo, in un mondo che non concede facilmente che una persona si affermi. Per questo bisognerebbe conoscere le comunità islamiche in Occidente (3) e dare loro – non solo a individui isolati – più voce e più rappresentanza, per permettere che si aprano e affermino, togliendo al terrorismo la sua forza persuasiva proprio là dove la prende. Il ruolo della NATO Se il terrorismo viaggia verso nuove frontiere, la lotta al terrorismo, con la presidenza di Barack Obama, non è da meno. Il precedente inquilino della Casa Bianca aveva risposto alla minaccia con l’uso della forza, ma questa si è rivelata insufficiente in un conflitto non convenzionale, asimmetrico e soprattutto globale. Il ritiro delle truppe dall’Iraq, sebbene già annunciato da Bush, è stato un caposaldo della campagna elettorale del nuovo Presidente, che ha preferito concentrarsi su Afghanistan e Pakistan. Nel piano proposto da Barack Obama al vertice NATO dei giorni scorsi grande accento è stato posto all’intervento sul terreno. Si deve puntare al rafforzamento dei programmi di addestramento delle truppe afgane e, per questo, gli USA prevedono l’invio di 4.200 militari americani, inquadrati nella Nato Training Mission-Afghanistan. A Karzai è riservato un ruolo chiave sia nel contrasto al narcotraffico, sia nella lotta alla corruzione e, per questo, viene anche spinto a condividere il potere a livello locale. Il Pakistan deve concentrarsi sui suoi problemi interni, come l’estremismo, e sulle questioni transfrontaliere, come il rapporto con l’India, conflitto in cui sono impegnate forze militari che potrebbero essere indirizzate verso altri obiettivi. Il Pakistan viene anche fortemente richiamato a combattere il terrorismo, individuando le rischiose connessioni tra settori della sua sicurezza e gruppi terroristici. Importante anche l’approccio regionale, che prevede il coinvolgimento degli Stati della regione nella lotta al terrorismo. Ancora, lotta alle armi nucleari nel XXI secolo, l’ultima eredità della Guerra Fredda. Non si può adottare “fatalismo” in merito alle armi atomiche, ha detto Obama, e ha annunciato che gli USA intendono impegnarsi per lo smantellamento dei propri arsenali nucleari. L’applauso più grande a Strasburgo Obama l’ha ricevuto quando ha menzionato il suo piano di chiudere la prigione militare di Guantanamo e di rifiutare la tortura come tattica di raccolta dell’intelligence. Proprio in quelle ore la Corea del Nord aveva annunciato il lancio di un missile che, a suo dire, servirebbe a mettere in orbita un satellite, ma USA, Giappone e Corea del Sud temono che si tratti di prove per missili a lunga gittata. Obama ha invitato Pyongyang a desistere, pena l’esposizione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il piano di Obama, tuttavia, ha dei limiti, secondo gli osservatori. Che Karzai possa condividere il potere è cosa, infatti, difficile a causa della sua debolezza, che ha addirittura spinto gli stessi afgani a soprannominarlo “Sindaco di Kabul”, per rimarcare i limiti geografici del controllo che esercita sul territorio. Per la stessa ragione, il contrasto sistematico alla produzione e al traffico di oppio, da parte del potere politico afgano, è reso altamente improbabile. Dividere i militanti puri da quelli moderati, è un’operazione estremamente complessa, perché sotto l’ombrello talebano si trovano gruppi di nazionalità, etnia e forza ideologica molto diversi tra di loro, spesso con interessi a breve termine altrettanto diversi, ma sono fortemente uniti sugli obiettivi a lungo termine, unità che nessuno è arrivato a scalfire. I Talebani cosiddetti moderati, o non combattenti, rappresentano una sorta di movimento schierato con alcuni eletti, per lo più, ai consigli provinciali, ma non hanno l’autorevolezza per incidere sulle scelte strategiche dei guerriglieri. Tuttavia Obama crede nella necessità di creare nuove forze democratiche nel Paese, anche attraverso la costituzione di un partito moderato talebano, con eletti tra i Talebani, pensando anche che si possa trattare su altre questioni, come la cancellazione di alcuni Talebani dalle liste nere dell’ONU, per allentare la tensione e creare le basi per il dialogo. Il piano presentato alla NATO, inoltre, richiede un maggior sforzo all’Europa. Obama, al vertice ha sostenuto che: «L’Europa non si può aspettare che gli Stati Uniti sostengano da soli il peso militare in Afghanistan, perché siamo lì per affrontare un problema comune» (4) . Parole simili le aveva già pronunciate Bush, esattamente un anno prima, il 2 aprile 2008 a Bucarest: «se non sconfiggiamo i terroristi in Afghanistan, dovremo fronteggiarli sul nostro territorio, e sarebbero civili innocenti in Europa e Nord America a pagarne il prezzo» (5) . La differenza sta non tanto nel concetto di base, quanto nella strategia, che è profondamente cambiata. Una svolta era stata già annunciata il 10 marzo di quest’anno dal vice di Obama, Joe Biden, con la proposta di trattare con i Talebani moderati e considerare Afghanistan e Pakistan in una unica strategia, poiché la centrale dei Talebani è nel Waziristan in Pakistan e da lì muovono le truppe di guerriglieri ed attentatori verso l’Afghanistan. Intanto l’UE prende coscienza della situazione, con Jaap de Hoop Scheffer, ex Segretario Generale della NATO che afferma che questa non è la guerra di Obama e che non ci si può lamentare di una eccessiva americanizzazione del conflitto se l’UE non fa la sua parte e che, se non ci si può impegnare di più militarmente – impossibile eguagliare gli USA in questo – lo si può fare con le missioni civili (6) , sulle quali si è posta, peraltro, abbastanza enfasi al vertice. In Pakistan, Paese duramente colpito da attacchi e fiaccato da divisioni interne, gli analisti dei più autorevoli quotidiani sembrano concordi nel sostenere che la nuova linea seguita da Washington sia dovuta alla consapevolezza che la guerra contro il terrorismo non si può combattere solo con le armi. Affermano che Obama sembra aver capito che quella in Afghanistan è una guerra giunta sul limite della sconfitta, e che è il momento di intervenire con la diplomazia e con un forte avvicinamento alle popolazioni che devono sostenere la presenza dei militari statunitensi. Intanto il Pakistan deve pensare ai suoi problemi. L’FMI ha recentemente sottolineato che dato che la rupia è leggermente sopravvalutata, il Paese deve impegnarsi maggiormente nella lotta al riciclaggio di denaro e al finanziamento al terrorismo (7) . I leaders dell’Unione Europea sono in “sintonia assoluta” con il Presidente statunitense, afferma il Presidente del Consiglio italiano. Peraltro, Obama ha affermato che Al Qaeda sarebbe più in grado di lanciare missili in Europa che non negli USA, data la vicinanza geografica. Tuttavia, un’eccezione all’armonia di vedute è costituita dalla sollecitazione sull’ingresso della Turchia nell’Unione, che ha visto la decisa opposizione di Angela Merkel e Sarkozy. Nonostante i giornali europei abbiano titolato lo stesso giorno “delusione per Obama al vertice NATO” così come “Successo per Obama”, relativamente all’invio di nuove truppe europee in Afghanistan, la richiesta non è stata, a parole, disattesa e non sono pervenute critiche sostanziali, ma si attende che le parole si trasformino in fatti concreti. La ricetta di Obama per la NATO ha ispirato fiducia nei leaders europei, sebbene dal termine della sua campagna elettorale egli non avesse mai fatto, finora, all’Alleanza Atlantica. Forse è bastata la presenza nel suo staff di James Jones, Consigliere per la sicurezza nazionale, che prima di quest’incarico era a capo delle forze NATO in Europa, ma il fatto è che sotto la presidenza Bush, erano mancate parole come “cooperazione” ed “insieme” tra USA ed UE in riferimento alla NATO e la scelta di agire unilateralmente aveva infastidito molti alleati. Obama ha anche abbandonato il linguaggio religioso di Bush, che contrapponeva in modo assoluto Occidente cristiano ed Islam, tanto che, da più parti, è stato sostenuto che con Obama alla Casa Bianca, Bin Laden abbia perso il suo nemico. A smentire la diminuzione del rischio ci ha pensato lo stesso Presidente, affermando che: «Non possiamo fare finta che perché è stato eletto Barack Hussein Obama, al Qaeda non sia più un problema» (8) . Nuove sfide Sulle sfide che pone il terrorismo oggi si è detto tutto, studiato tutto, elaborato tutto. Ma le sorprese sono sempre in agguato. L’attenzione va spostata su nuovi fronti, nuovi obiettivi, considerando che questi sono ad ampio spettro. Ad esempio, molta importanza deve essere data a porti e navi nelle strategie di contrasto, perché questi possono essere i nuovi targets del terrorismo. Sugli aeroporti si sono concentrate enormi misure di sicurezza, anche per via del volume di movimenti di persone, ma non meno importanti sono le migliaia di porti nel mondo, che possono essere nel mirino dei terroristi. Molte le difficoltà, e tra queste l’individuazione di cosa vi sia nei milioni di containers che si muovono ogni giorno, che possono essere trasformati in bombe chimiche, biologiche o cosiddette dirty, capaci di diffondere rifiuti radioattivi, oppure usati per il traffico illecito di armi o altro. Gli scanner esistono, ma scansionare a tappeto tutti i containers nel mondo è un’impresa ardua, tanto che solo il 2% viene effettivamente controllato. Ancora, i movimenti di veicoli nei porti, immensi spazi, sono cruciali: l’attentato nel porto di Ashdod nel 2004, in cui un semplice camion con attentatori suicidi causò dieci morti, è indicativo. Altro problema è la pirateria nei mari (9) , ancora catalogata come crimine commerciale. Secondo l’International Maritime Bureau, sono stati 239 gli episodi di pirateria nel mondo nel 2008. Seppure molti sono attacchi a scopo di rapina, ultimamente si è notato che gli attacchi vengono perpetrati da gruppi organizzati che usano armi automatiche, che uccidono facilmente e, altrettanto facilmente, possono essere reclutati per adottare la stessa tattica con altri scopi. Le petroliere sono un obiettivo molto attraente. Nel 2002 una petroliera francese, la Limburg, fu colpita da un attacco simile a quelli suicidi nel Golfo di Aden, con un morto e il riversamento di 90.000 barili di petrolio in mare. Gli esperti sostengono che, al di là della singola petroliera, un attacco a molte navi contemporaneamente, con conseguente riversamento di petrolio, sarebbe disastroso. Altra sfida è costituita dalle armi non convenzionali. Il terrorismo ricorre a tecnologie accessibili a tutti, ovunque e in qualsiasi momento, che vengono utilizzate in modo innovativo. Vi è il rischio crescente che i terroristi ricorrano alle cosiddette armi CBRN, ovvero Chemical Biological Radiological Nuclear, che rendono l’ambiente della sicurezza globale più complesso. In realtà le bombe utilizzate negli attacchi, in genere, non richiedono conoscenze tecniche elevate e le armi utilizzate sono facilmente reperibili. In un caso è stato utilizzato un missile, nel 1993, quando i ribelli Abkhazi abbatterono un aereo che volava sulla Georgia, provocando 106 vittime. Inoltre, vi è un sempre maggiore uso di aeroplani (dirottati, fatti cadere sugli obiettivi). I terroristi usano armi dunque facilmente accessibili o trasformano grandi mezzi di trasporto pubblico, come gli aerei, in armi. In realtà perpetrare attacchi mass casualty oggi non comporta un impegno tecnologico maggiore e, in genere, i gruppi ricorrono ad armi convenzionali; bisogna chiedersi, dunque, se la scarsità di attacchi mass casualty rispetto ad altri attacchi, sia dovuta alla mancanza di risorse o sia frutto di una considerazione tattica. Per adesso non vi è stata una escalation, piuttosto una intensificazione nella frequenza di attacchi di portata bassa o media. È fondamentale analizzare e comprendere le forme innovative e le dinamiche decisionali nei gruppi terroristici, che potrebbero portarli a ricorrere alle armi non-convenzionali; analizzare quali possano essere i fattori che potrebbero determinare un’eventuale escalation di violenza; capire l’interazione tra le dinamiche di gruppo e il processo decisionale in relazione all’uso di vecchie e nuove tecnologie. La vera urgenza sta nella necessità di identificare fattori di allarme e indicatori che segnalino tentativi potenziali di ricorso ad armi non-convenzionali. L’Intelligence in particolare, deve affrontare la sfida della convergenza delle minacce nel contesto globale. Il contesto globale, di per sé, ha insita una minaccia, perché il mondo intero è interconnesso. Lo sono anche terrorismo e criminalità organizzata? Questa potrebbe essere una conseguenza della guerra al terrorismo degli ultimi anni, perché le fonti di finanziamento per il terrorismo si sono ridotte – si parla di 200 milioni di USD confiscati – e i terroristi sono dovuti ricorrere maggiormente alla criminalità. Alcuni gruppi come FARC, Al Qaeda, le Tigri Tamil, si sono creati la loro impresa criminale, con un’attività in genere proporzionata alle effettive capacità del gruppo e alle sue necessità. Il ricorso a operazioni criminali dipende anche dal tipo di attività. Se l’attività è limitata, non occorrono operazioni criminali per finanziarla perché è poco costosa; se invece l’attività è ambiziosa e il gruppo interessato grande, allora ci sarà bisogno di finanziamenti costanti, che potrebbero portare il gruppo ad atti criminali organizzati, sul modello della criminalità organizzata. Tuttavia, vere e proprie alleanze tra terroristi e criminalità organizzata sono infrequenti, perché i gruppi della criminalità organizzata sono molto legati al territorio e in genere hanno un’impronta nazionalista, anche nel senso che sono fortemente legati alle economie nazionali e, quindi, difficilmente metterebbero a rischio la propria Nazione e il suo sistema economico per cooperare con i terroristi. Un altro elemento chiave è che i terroristi hanno bisogno di pubblicizzare le loro azioni attraverso i media, desiderano attrarre l’attenzione delle Istituzioni, dell’opinione pubblica, mentre è vero il contrario per i gruppi criminali. In poche parole, i terroristi mirano ad una “legittimazione”, mentre i gruppi criminali mirano a creare o mantenere un ambiente favorevole ai loro affari. In alcuni Paesi “deboli”, però, dove il controllo politico, economico e sociale è minore, vi sono prove di cooperazione. Nell’ambito dei traffici illeciti consolidati, i terroristi devono scendere a compromessi con il crimine organizzato che li controlla. Esiste anche il crimine transnazionale che, a volte, trae vantaggio dal finanziare gruppi terroristici nazionali, come nel caso dell’Afghanistan o del Caucaso, per trarre vantaggio dalla situazione che ne consegue. Ben altra questione è quella del legame tra gruppi terroristici per condurre attività di fundraising in ambito criminale. Quello che è interessante è che terroristi e criminalità organizzata a volte traggono ispirazione dalle rispettive tattiche. I criminali si ispirano alle tattiche terroristiche per migliorare i profitti, i terroristi si ispirano ai criminali per finanziare le loro attività militari e politiche. Resta il fatto che terrorismo e criminalità organizzata non convergono. Il timore che i terroristi si alleino trova giustificazione nel fatto che vi sono stati episodi in cui si è parlato di interazione tra Hamas e Al Qaeda, ad esempio, sul piano della rete logistica, finanziaria e, in qualche caso, anche operativa (10) . Va detto, peraltro, che non tutti i terroristi operativi di Al Qaeda hanno prestato Bayat (giuramento) a Osama Bin Laden e che, anzi, alcuni agiscono indipendentemente anche formando alleanze, come nel caso dei due capi della cellula americana di Portland, che sembra fossero affiliati uno ad Al Qaeda e uno al terrorismo palestinese. Bisogna chiedersi se le barriere che si frappongono alla formazione dei due tipi di possibile cooperazione – terroristi/criminalità organizzata e terroristi/terroristi – possono essere individuate nel concreto e se su queste si possa far leva. Non bisogna dimenticare che vi è anche la possibilità che terroristi e terroristi si alleino per perseguire scopi criminali. In questo quadro, altra sfida non meno importante è l’impatto destabilizzante che il terrorismo può avere su società multietniche, soprattutto quando agisce parallelamente a mutamenti sociali significativi, che possono costituirne il catalizzatore. Il caso della Chechnya in Russia, così come il Kashmir in India, ad esempio, mostrano quanto il terrorismo, soprattutto quando emerge contemporaneamente all’affermarsi del fondamentalismo religioso, può determinare cambiamenti significativi nel Paese in cui agisce, che nelle politiche e strategie di contrasto adotta anche criteri legati all’etnicità e al credo religioso (11) . Sempre nel quadro delle interconnessioni, il cyber-terrorismo costituisce una questione fondamentale. I gruppi terroristici – come forma di strategia – sanno bene di non poter avere la meglio in un attacco frontale con le grandi potenze e individuano punti potenzialmente deboli per colpire. Le infrastrutture critiche commerciali sono molto esposte. Le infrastrutture critiche, reti elettriche, banche, linee aeree, sistemi di controllo del traffico aereo, compagnie di trasporto su gomma, impianti chimici e petrolchimici, industrie alimentari, ospedali, amministrazioni locali e altri, sono obiettivi potenziali. Molte di queste strutture e organizzazioni non hanno la capacità di controllo necessaria ad individuare e respingere un serio tentativo di penetrazione nelle reti informatiche, così come la raccolta di files, l’alterazione dei database, il controllo delle componenti critiche delle reti, costituiscono seri rischi. Allo stesso modo, i terroristi usano Internet ampiamente per comunicare, propagandare, raccogliere fondi. Traggono vantaggio dalla natura di facile accessibilità e anonimità, nonché dalla mancanza di regolamentazioni della Rete. Il monitoraggio è difficile e costoso e cozza contro le leggi della privacy che nelle nostre società costituiscono un traguardo che nessun terrorismo può colpire. Luoghi comuni Si tenta continuamente di fare chiarezza sul terrorismo, eppure ancora si cade negli stessi errori. Il massacro avvenuto venerdì 3 aprile 2009 nella sede dell’American Civic Association di Binghamton, New York, in cui sono morte 14 persone, inizialmente sembra fosse stato rivendicato da Baituallah Mehsud, un leader Talebano del Pakistan che aveva affermato che l’attacco era una rappresaglia contro i missili degli americani sui militanti in Pakistan. Poi la notizia è stata fermamente smentita dalla polizia ma, intanto, aveva fatto il giro del mondo. Subito si sono scatenati i blog e i forum, in cui spiccavano frasi come “scommettiamo che siccome l’attentatore non è musulmano parleranno solo di sparatoria?” e giù a fare a gara di definizioni del terrorismo sul Web. Fatto sta che, ormai, la “reazione pavloviana” cui siamo soggetti, metafora con la quale più volte ho descritto il meccanismo di automatismo che l’11 Settembre ha scatenato in noi, ci impedisce di vedere lucidamente. Le nostre reazioni sono prevedibili, basta stimolare il primo livello di allerta, ovvero sollevare la mano sulla nostra testa, per farci sentire già il colpo. Questo influisce tanto sulle reazioni a lungo termine, sulle azioni coordinate, sulle politiche, quanto sulla capacità di reazione, di readiness, per la quale le Forze dell’ordine e l’Intelligence tanto si addestrano. I criteri impliciti nella readiness vanno in tilt appena vi è un vago sentore di terrorismo. Parlando con un ufficiale della Polizia di New York, emergeva che nonostante il training impeccabile, di fronte ad una certa tipologia di attacco, o ad individui sospetti che corrispondono a certi profili, è difficile restare impassibili, concentrarsi sul comportamento che ci si aspetta in una situazione simile. Di certo vanno intensificati i programmi per la preparazione psicologica, che non va sottovalutata. Il nostro “grado di vulnerabilità” dipende molto da quanto siamo in grado di mantenere i nervi saldi nella reazione. La saldezza dei nervi dipende molto dalla percezione del rischio. Non vi è caso meno misurabile del terrorismo, eppure ci ostiniamo a ricorrere ai dati statistici. Decremento nel numero delle vittime può equivalere al successo delle strategie, ma anche al fatto che i terroristi stanno divergendo le energie su obiettivi più grandi. La verifica/misurazione del successo e della percezione è tanto più importante in quanto decreta l’entità dei fondi erogati per i programmi anti-terrorismo. Gli USA sono ben consapevoli del fatto che i costi del contrasto al terrorismo aumentano sempre e non è chiaro se vi sia un equilibrio tra costi e benefici. Il territorio USA è vasto e difficile da controllare, senza contare il cyberspazio e l’impegno militare nei Paesi stranieri. Molti si chiedono se è questa la strategia giusta o se invece i soldi vanno investiti nel costruire scuole secolari nei paesi islamici o promuovere attività di dialogo per i giovani musulmani. Inutile indugiare sui dati quantitativi. Come ho detto finora, l’aspetto qualitativo è molto più significativo. Il terrorismo va misurato come “processo” le cui variabili possono essere: le tendenze, incluse quelle tese al contrasto del terrorismo a livello internazionale; gli effetti e le conseguenze degli attacchi, che producono mutamenti transitori e permanenti; i comportamenti che derivano sia dal terrorismo che dalla risposta al terrorismo; le caratteristiche degli attacchi. Tutto questo, va analizzato sia dal punto di vista dei terroristi sia dal punto di vista di chi li combatte, con forte accento qualitativo. Le nuove frontiere del terrorismo, per essere superate, devono essere affrontate sia sul piano spaziale che temporale. Sul piano temporale, con strategie a lungo termine che prevedano, tra l’altro: la concentrazione sui metodi di addestramento per le Forze dell’ordine e l’Intelligence, secondo criteri e approcci più ampi che tengano in considerazione anche aspetti psico-sociologici e nuovi aspetti scientifici e tecnologici per aumentare la readiness; l’apertura verso le fasce sociali e d’età che possono costituire terreno di reclutamento, migliorando e intensificando i contatti con esse, riducendo la distanza periferia-centro, aumentando le possibilità di accesso a contesti alternativi. Dal punto di vista spaziale, la messa a punto di strategie con una visione delle infrastrutture critiche ampia, che includa porti e mari ma anche il cyberspazio – compresi i satelliti – e Internet, intesi come “luoghi” del movimento di persone e idee. Il terrorismo muta continuamente e così mutano le strategie. Il suo vero punto debole è che è molto legato al momento, mentre il contrasto al terrorismo può – e deve – muoversi nel tempo, con l’ambizione non solo del contrasto alla minaccia attuale, ma di cambiamento permanente. In questo sta la sua forza. |
(1) Cfr. M. J. Morgan, The origins of the New Terrorism, in: Parameters, 2004, pp. 29-43. Per una critica del significato e dell’opportunità dell’uso del termine “nuovo” terrorismo, cfr. anche: V. Asal, A. Blum, Holy Terror and Mass Killings? Re-examining the motivations and means of Mass Casualty Terror, in: International Studies Review, vol. 7, 1, 2005, pp. 153-174.
(2) Cfr. a proposito di leadership islamica e Jihad: V. Fiorani Piacentini, Islam. Logica della fede e logica della conflittualità, Roma, Franco Angeli, 2003. (3) Cfr. gli studi di Enzo Pace, tra cui: E. Pace, Sociologia dell’Islam. Fenomeni religiosi e logiche sociali, Roma, Carocci, 2004. (4) “US can’t fight terror alone, Obama tells Europe”, 3 Aprile 2009, in: www. Alarabiya.net (accesso: aprile 2009); “Vertice NATO, Obama lancia l’allarme ‘Rischio attacco Al Qaeda in Europa”, in: Il Messaggero, 3 aprile 2009. (5) Cfr. P. Gallis, The NATO summit at Bucharest 2008, CSR Report for Congress, marzo 2008, in: http://www.fas.org/sgp/crs/row/RS22847.pdf (accesso: maggio 2009). (6) “NATO: Scheffer sprona gli Europei, Afghanistan non è guerra di Obama”, 5 aprile 2009, in: http://www.agi.it/estero/notizie/200903301656-est-rt11229-art.html. (7) “IMF encourages Pakistan to address terrorism financing”, 5 aprile 2009, in: http://www.dailytimes.com.pk/ default.asp?page=2009\04\05\story_5-4-2009_pgg 7-29 (accesso: aprile 2009). (8) Ha detto: “Al-Qaeda is still a threat,” he said. “We cannot pretend somehow that because Barack Hussein Obama got elected as president, suddenly everything is going to be OK”. Cfr. R. Wolf, “President’s European trip a success — and a reality check”, 3 aprile 2009, in: www.usatoday.com (accesso: aprile 2009). (9) Cfr. IMB Piracy Reporting Centre, in: http://www.icc-ccs.org/index.php? option=com_content&view =article&id=30&Itemid=12. (10) Cfr. M. Levitt, “Untaingling the terror web: identifying and counteracting the phenomenon of crossover between terrorist groups”, in: SAIS Review, n. 1, 2004, pp. 33-48. (11) Cfr. D. A. Mahapatra, S. Shekhawat, Conflict in Kashmir and Chechnya: Political and Humanitarian Dimensions, New Delhi, Lancer's Books, 2007. |