GNOSIS 1/2009
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Vincenzo Pace - Da quando l’Egitto, prima di Nasser e poi di Sadat (in particolare del ciclo politico dell’Infitah – dell’apertura economica e culturale verso l’“Occidente”) ha cercato di disegnare una propria “via alla modernità”, le Organizzazioni politiche di ispirazione religiosa di opposizione hanno sempre pensato che il primo, vero nemico da battere, fosse rappresentato dalle classi dirigenti post-coloniali che si sono sforzate di ridurre il ruolo delle istituzioni religiose nella sfera pubblica e in quella politica. Lo sbarramento messo in atto dai gruppi dirigenti dei vari Stati arabi nei confronti dei movimenti politico-religiosi di tendenza radicale (dal Maghreb al Mashreq) nel corso del “ventennio terribile” (1980-2000), che racchiude la storia più recente di questi Stati, ha avuto due effetti: a) infrangere il sogno o l’utopia di uno Stato islamico (un ritorno al mito della città del Profeta), mostrandone tutti i limiti e la non realizzabilità in tempi “moderni”; b) distruggere localmente (a livello di singole realtà nazionali) l’unico antagonista politico (e militare) che era emerso e che aveva recitato un ruolo di protagonista nella società (dalle moschee “popolari” non controllate dai Governi, alla partecipazione diretta, alle competizioni elettorali, in occasione delle quali facevano registrare un consenso rilevante) a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo appena trascorso, favorendo così la formazione di un movimento transnazionale di ex-reduci ed ex-combattenti; tutti costoro sono come tanti muhajirun (emigrati per forza, come i primi compagni del Profeta quando Muhammad decise di muovere da Mecca a Medina), che giudicano le classi dirigenti di molti Stati arabo-musulmani come empi, corrotti, nemici della vera fede e, dunque, da combattere a viso aperto. Debidatta A. Mahapatra La recente offensiva di Israele contro Gaza potrebbe aver portato Osama Bin Laden a sfruttare la situazione per invocare la Guerra Santa per “liberare” la Palestina e l’Iraq. Nel filmato, comunque non ufficialmente rivendicato, Bin Laden critica i leaders musulmani perché vorrebbe portarli a riunirsi tutti nella sua ambizione di jihad globale. Paesi musulmani come l’Egitto, l’Arabia Saudita, la Siria, la Giordania e l’Iran, che hanno sollevato la voce e hanno avuto reazioni diverse rispetto alla recente crisi di Gaza, sono mossi dai loro interessi nazionali. Per essi, non è solo l’Islam ma anche la loro equazione con altri Paesi che conta e, in particolare, gli USA che rappresentano l’attore più potente nella Regione. Dunque, quando l’Iran, come oppositore forte degli USA sostenne Hamas, l’Egitto, che aveva un forte rapporto con gli USA, insistette per un dialogo tra le parti rivali. Valeria F. Piacentini Premesso che alcuni analisti, anche autorevoli, dubitino che Osama Bin Laden sia ancora vivo e sostengano che tali filmati siano “montaggi” più o meno abili, personalmente ritengo che non vi sia dubbio circa la riorganizzazione delle alleanze fra Paesi islamici e all’interno dei singoli Paesi. Il discorso è molto complesso. Punto comune a tutti è la “riorganizzazione” dell’ideologico ufficiale, certamente ispirato a “moderazione”. Ossia: la dottrina ufficiale – con rigoroso ragionamento giuridico e facendo ricorso anche a strumenti sussidiari di giuridicità – giustifica: sia (a) aperture internazionali (come, ad esempio, “alleanze” con non musulmani, presenza anche militare di non musulmani sul territorio dell’Islam, e quindi anche “aiuti” ai musulmani da parte di non musulmani. La definizione di “non musulmani” – coranica – include in questa interpretazione non solo l’Occidente ma anche – e forse soprattutto – Cina e India, alleati particolarmente importanti sul piano economico per i Paesi del Golfo), sia (b) la ricomposizione di alleanze interne senza incorrere nell’anatema di kufra – legittimante il “colpo di Stato” e la destituzione delle leadership (e quanti collaborano con loro all’interno e dall’esterno) anche con la forza. Viceversa, consente di giustificare “sciaraiticamente” la repressione anche più dura dei bughat (ossia dei “ribelli politici” – la dissidenza interna) e dei murtaddun (“coloro che si separano”, gli apostati in senso lato). Pertanto, un’analisi più approfondita e che muova “dall’interno”, deve procedere seguendo le categorie logiche di questi Paesi e per piani paralleli. Un primo piano è rappresentato dalle inevitabili prese di posizione ufficiali nei confronti dei bombardamenti Israeliani e del sostegno dell’Occidente a Israele. Tale posizione serve: da un lato, ad acquisire un consenso globale da parte dell’opinione pubblica (soprattutto islamica) internazionale – fortemente influenzata dai media e, dall’altro, ad acquietare le opposizioni interne (almeno quelle più moderate). Ma un secondo piano – ben più significativo – è rappresentato da assoluto pragmatismo politico: la composizione del problema palestinese attraverso pressioni di vario genere (soprattutto diplomatiche ed economiche) nei confronti dei vari attori locali, nell’obiettivo di blindare il terrorismo palestinese all’interno della Regione ed arginare il classico fenomeno di esportazione di rivoluzione ed estremismi armati. Si tratta di una chiave di lettura “interna” (possibile attraverso la stampa in lingua, iniziative interne estremamente significative, comunicati, dichiarazioni ufficiali e interviste, documenti in lingua ecc.). Si tratterebbe di un’analisi che troverebbe conferma anche nella vivace attività che vede il mondo arabo e islamico impegnato, sia all’interno che all’esterno, in compromessi, colloqui, incontri, visite ufficiali e non, telefonate a Oriente come ad Occidente, espressione di una più o meno palese riorganizzazione delle alleanze, che va al di là delle dichiarazioni “di prassi”, scontate. Un punto interessante è rappresentato dal riacutizzarsi del fenomeno “pirateria”. La dottrina e la giurisprudenza islamica hanno recuperato le due tradizionali categorie di “pirateria” e “guerra da corsa”, elaborate sin dai secoli VII-IX d.C., ricorrendo alla “deduzione analogica” (qiyas) dalla normativa Coranica relativa alla “razzia” e alle “azioni militari”; la normativa esistente si adatta molto bene all’attualità. Il discorso sarebbe molto più complesso. Sinteticamente, nella prassi la materia non si discosta dalle elaborazioni “occidentali” ed è perfettamente compatibile con le Convenzioni di Ginevra e l’UNCLOS, né contraddice l’IMO (e IMB) e relative Convenzioni (fermo restando il distinguo dell’origine divina del diritto islamico). Le posizioni politiche del mondo arabo – maggiormente colpito dal fenomeno piratesco (o “guerra da corsa”?) – sono ben sintetizzate da alcune iniziative promosse dal Sovrano Saudita “Custode delle due Sacre Moschee”. In tale veste Re Abdulla bin Abdulaziz Al Saud il 3 Marzo scorso si è recato alla Mecca e ha ottenuto solenne giuramento di fedeltà della shura‘ di questa importantissima Provincia Occidentale “all’Islam, al Re e alla Nazione”. Quindi, sempre come “Custode delle due Sacre Moschee” ha convocato il Gabinetto, lo ha presieduto personalmente e ha fatto approvare un emendamento del Comma 3 dell’Articolo 1 dell’Accordo inter-arabo per “combattere il terrorismo” (uscito sulla Gazzetta Ufficiale saudita il 18 Marzo 2009). Fra il 3 e il 18 Marzo, ha avuto luogo un intenso scambio di visite fra i Sovrani arabi non solo del Golfo, e il Ministro degli Esteri Iraniano. È stata raggiunta piena convergenza “dottrinale” e operativa circa le iniziative islamiche per combattere il terrorismo. Tali iniziative vedono così ufficialmente definita dai Capi di Stato, incluso Basher, il contestato Presidente Sudanese fortemente sostenuto dai Capi di Stato saudita ed Emiratino, anche la dottrina tradizionale della “pirateria” – assimilata al “banditismo” e definita “terrorismo internazionale”. Quindi, ulteriori incontri hanno informato inviati e Capi di Stato Occidentali e non; con telefonata personale del Sovrano Saudita, ne è stato informato anche il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Le flotte e le forze musulmane a fianco di flotte e forze militari occidentali (Ahl al-Kitab, ossia Gente del Libro), “cinesi” e “indiane” (Kafirun, ossia idolatre) possono operare insieme per combattere questa “pestilenza del XXI secolo”. Evelin G. Lindner Osama Bin Laden ha concettualizzato il mondo attraverso le lenti della cornice culturale tradizionale dell’onore. Per Bin Laden, tradire l’onore è umiliante e, dal suo punto di vista, i diritti umani fanno questo per definizione. Egli rispetta gli oppositori che “hanno un onore” più che quelli che tradiscono l’onore. Dal punto di vista di Bin Laden, l’Amministrazione di George W. Bush era un oppositore onorevole, perché quell’Amministrazione, al di là della sua retorica sui diritti umani, era pervasa dal senso dell’onore. L’amministrazione di Barack Obama è basata su una cultura dei diritti umani. Questo rappresenta un doppio attacco a Osama Bin Laden, alla sua ideologia e ai suoi seguaci: egli è ancora visto come nemico, ma è un nemico delegittimato, non più un nemico onorevole. Barack Obama non inquadra il terrorismo come una “Guerra” tra eroi che combattono per la vittoria e codardi che subiscono una sconfitta. Obama invita l’umanità tutta a condividere le responsabilità. “A coloro che si aggrappano al potere attraverso la corruzione e la disonestà e lo zittire il dissenso, sappiate che vi trovate nella parte sbagliata della storia, ma che vi tenderemo una mano se mostrerete di voler disserrare il vostro pugno” ha detto Obama nel discorso inaugurale a Gennaio. Con l’avvertimento ai leaders arabi “moderati”, Osama Bin Laden afferma che, dal suo punto di vista, l’onore è l’unica cornice legittima per i leaders arabi. Essi dovrebbero opporsi alla lusinga che viene dal doppio attacco di Barack Obama. Nel modo di vedere di Bin Laden, “moderazione” è l’equivalente di tradire il dovere onorevole di affrontare il proprio nemico con coraggio; la moderazione equivale alla codardia e alla deplorevole disonorevole auto-umiliazione. Barack Obama, invece, considera la moderazione come una nobile soluzione per il confronto, una soluzione che trascende la dicotomia della vittoria contro la sconfitta. Per concludere, quello che è per l’uno un approccio nobilitante equivale a vigliaccheria disonorevole per l’altra. La cornice dei diritti umani non viene necessariamente accolta con favore in un contesto d’onore in cui la vittoria è vista come l’unica soluzione per il confronto e la moderazione corrisponde ad arrendevolezza e vittoria concessa a basso prezzo. Per Osama Bin Laden era più facile avere Bush come oppositore che non Obama, visto che il primo usava la stessa concettualizzazione di coraggio e codardia. I diritti umani sono un linguaggio completamente estraneo a Bin Laden.
Vincenzo Pace Certamente lo sono, soprattutto quando sono espressione di pareri giuridici di personalità religiose ritenute autorevoli (non solo perché parlano ex-cattedra, cioè da una postazione istituzionale tradizionale – come al-Azhar al Cairo – o nuova (tramite i nuovi media della comunicazione, assicurata, ad esempio, da al-Jazeera), su argomenti che hanno a che fare con la giustificazione via religiosa di metodi di fare la guerra che, in prima istanza, contrastano con lo spirito e la stessa lettera della tradizione coranica. In altri termini, un parere che prendesse nettamente posizione contro azioni di guerra che ricorrono agli attacchi umani suicidi, avrebbe un impatto importante (“deterrente”) sull’opinione pubblica di molti Paesi a maggioranza musulmana evitando che, agli occhi di molti, tali attacchi fossero legittimati come atti di martirio (eroismo politico e testimonianza di pura fede religiosa). Evelin G. Lindner In un contesto culturale in cui la gente ha appreso che l’obbedienza ai superiori è un ordine divino, una fatwa ha più peso di quanto non avrebbe in un contesto in cui la gente ha imparato che gli individui hanno il diritto di giudicare autonomamente. Il ruolo delle fat¯awa viene facilmente sminuito dalle persone immerse in una cultura dei diritti umani. Esse tendono a sottovalutare quanto forte sia il significato delle fat¯awa in un mondo in cui l’obbedienza è valutata in modo diverso. Valeria F. Piacentini In tutto questo sottile gioco degli affari e della politica di cui ho parlato, le Fat¯awa hanno indubbiamente un loro peso, ma vanno valutate caso per caso, nel contesto spazio-temporale, con riferimento a “chi” le emette e “da dove” provengono. Debidatta A. Mahapatra Sì, certamente, perché le Fat¯awa proclamate dalle scuole islamiche vengono prese molto seriamente dalle persone religiose. Ogni fat¯awa contro il terrorismo, ovviamente, mina le sanzioni religiose dietro le attività violente. La fatwa emessa il 31 Maggio 2008 dalla Università islamica più antica e seconda per grandezza, la Darul Uloom che si trova a Deoband in India, è considerata un passo audace in questa direzione perché la scuola ha preso le distanze dalle organizzazioni e dai movimenti estremisti come i Talebani in Afghanistan e Jaish-e-Mohammad in Pakistan, che traevano il sostegno ideologico da questa scuola. Che le scuole religiose prendano le distanze proclamando delle Fat¯awa rende le organizzazioni radicali agli occhi dei religiosi come meri terroristi, rinnegati, elementi perversi, senza religione. La Fat¯awa serve a mandare un avvertimento alle organizzazioni terroriste, dicendo loro che non sono islamiche nello spirito e che semplicemente creano caos contro la pace e l’ordine.
Evelin G. Lindner In diversi miei studi sottolineo la differenza tra estremisti e moderati e i loro orientamenti. Opero la differenza partendo dall’analizzare le reazioni all’umiliazione. Per dirla in breve, definisco la moderazione come l’aspirazione a prevenire cicli di umiliazione, mentre l’estremismo trasforma ogni nuova spirale in quei cicli nella speranza di vittoria, una speranza che avrebbe potuto essere garantita nel passato, ma non più in tempi come questi, di interdipendenza globale. Appena vengono messi in moto i cicli di violenza e di umiliazione il terrorismo e il clima sociale si influenzano l’un l’altro. Una persona potrebbe essere “moderata” nel suo voler interrompere i cicli di violenza e umiliazione, fino a che non le uccidono il fratello e allora si trasforma in “estremista”, anelando ad infliggere una rappresaglia perpetrando atti di umiliazione sugli umiliatori, così mantenendo il ciclo dell’umiliazione. Debidatta A. Mahapatra È un circolo vizioso nel quale sia il clima sociale sia il terrorismo si alimentano l’un l’altro. Il sottosviluppo economico in un certo modo contribuisce al terrorismo e spinge il povero verso la violenza. Ma, nello stesso tempo, il terrorismo contribuisce alla povertà. Stando ad alcuni rapporti, si può affermare che nel momento più teso del terrorismo nel Kashmir un giovane colpito dalla povertà potrebbe accettare di lanciare una bomba a mano per soli 1000 INR, che equivalgono a 20 US dollari, per avere pochi spiccioli. Ma la violenza diffusa ha scoraggiato il turismo, che era la fonte di reddito principale nel Kashmir, e ha scoraggiato anche gli investimenti privati nella Regione. Oltre alla povertà, un forte impatto sul clima sociale ce l’hanno il fondamentalismo e l’alienazione, a loro volta favorendo la violenza, che peggiora ancora di più la situazione economica. Per prevenire questo ciclo bisogna non solo promuovere lo sviluppo economico, ma anche la cultura della società civile e il pluralismo, con la partecipazione attiva della popolazione locale. Valeria F. Piacentini Certamente il clima sociale contribuisce a generare terrorismo non solo regionale ma anche al “nostro” interno. In particolare l’ideologico della “giustizia sociale ed economica” resta alla base di questi estremismi, che utilizzano il “religioso” a legittimazione di lotte di potere spesso interne. Accusano l’Occidente di “occupare militarmente” il territorio dell’Islam e di sostenere leadership corrotte, “apòstate” o “kafir”, di dare addestramento a dei “traditori e apòstati” contro le vere forze sociali dell’Islam, di concorrere a spezzare e frantumare la “Ummah” islamica, che Dio volle una, unica, universale. Propaganda capillare che “crea” un clima ben preciso. Ma è la militanza armata a “creare” un clima sociale, che finisce col ribaltarsi sulla popolazione civile, degenera in accuse di “collaborazionismo” e sentenze/esecuzioni sommarie, causa panico, fuga e crescenti ondate di emigrazione. Cosa si può fare per prevenire? Agire sul sociale o direttamente o tramite ONG, dare istruzione e formazione a partire dalla primissima generazione, creare e garantire spazi di lavoro che ancorino le popolazioni al loro territorio (ricostruzione – sviluppo), fare sì che gli aiuti umanitari diano formazione e gli utili “restino nel territorio” (soft security). Ormai si tratta di interventi che vanno pianificati sul medio termine. Il “breve” sembra che ci stia sfuggendo di mano. La soft security favorirebbe un inserimento operativo nel sociale, consentendo di conoscerlo capillarmente, analizzarlo, valutarlo, individuare gli scollamenti, quindi introdursi e trattare, cercando di recuperare le fasce più moderate. Vincenzo Pace Il terrorismo è un metodo di fare la guerra che presuppone scenari reali ed immaginari di guerra. Bisogna armare le menti delle persone, prima ancora di farle scendere in campo armate. Dunque ci sono contesti sociali più favorevoli di altri alla creazione di una forma di pensiero e di azione adatta a ciò che chiamiamo terrorismo. I terroristi sono un’avanguardia che può sentire attorno l’esistenza di una solidarietà diffusa fra “la propria gente”. L’attacco suicida è, in fondo, una forma di suicidio altruistico; chi lo compie sente che ha dietro di sé un gruppo solidale, che lo riconoscerà come martire e che, dunque, risarcirà in termini di onore morale la perdita della sua vita fisica. L’unica forma di prevenzione allora è la rimozione paziente e sistematica delle cause che producono la guerra. È banale, ma è così. Senza la pacificazione fra Israeliani e Palestinesi non è difficile immaginare che la strategia di guerra di tipo terroristico continui.
Debidatta A. Mahapatra Non sono d’accordo. Non è l’Occidente, sono piuttosto i Paesi in via di sviluppo, come il Pakistan e l’Afghanistan che sono diventati epicentri del terrorismo. È difficile spiegare che cosa esattamente spinga gente che vive in Occidente al terrorismo. Quelle poche persone che in Occidente si sono convertite al terrorismo potrebbero essere state spinte da uno stato di tumulto psicologico, dal fattore del mistero o, forse, a volte, potrebbero essere stati attratti da droga o denaro oppure potrebbero essere stati obbligati o aver subito il lavaggio del cervello. In ogni caso, è l’errata interpretazione della religione che fornisce un sostegno subdolo alla violenza nel nome del jihad nell’attuale Occidente Cristiano. Valeria F. Piacentini La seduzione della “solidarietà sociale”, antichi slogans di giustizia sociale ed economica, la seduzione della rivolta contro l’autorità costituita… hanno sempre un loro fascino ideologizzante in momenti di difficile transizione. L’Occidente offre certamente un terreno fertile, reso ancora più fertile dai vecchi leit-motive della Guerra Fredda ancora circolanti, dalla crisi economica e dalla “ricostruzione” che l’Occidente (Unione Europea in primis) sta operando al proprio interno. Il nostro territorio viene visto come un’isola “felice”, dove le fila della militanza possono trovare spazi per riorganizzarsi o costituire basi logistiche “di appoggio”. Internet e tecnologia informatica aiutano la diffusione, favorendo il fenomeno sotto ogni profilo, da quello ideologico a quello dei finanziamenti. Vincenzo Pace Se per terrorismo intendiamo una forma di lotta armata che si giustifica come lotta rivoluzionaria contro il cosiddetto Occidente, dopo l’eclissi delle ideologie rivoluzionarie di ispirazione marxista e leninista che, nate nell’Ottocento, si sono andate spegnendo gradualmente e drammaticamente (uno degli ultimi avamposti è stato proprio l’Italia con l’azione delle Brigate Rosse), le società europee ed americana, società per definizione più aperte, possono essere un luogo dove è relativamente più facile muoversi da parte di quelli che ho chiamato ex-combattenti e reduci dei movimenti radicali islamisti e che possono attirare qualche sparuto gruppo di simpatizzanti anche fra chi musulmano non è dalla nascita. Evelin G. Lindner Le nuove ricerche sui “neuroni specchio” sono su tutti i giornali come, ad esempio, il New York Times che titola: “Le emozioni sociali come la colpa, la vergogna, l’orgoglio, l’imbarazzo, il disgusto e la libidine sono basati su un sistema neuronale umano che si trova in una parte del cervello chiamata insula”. La ricerca in questo campo è importante nondimeno per la ricerca sul terrorismo globale, perché dimostra che un individuo può sentirsi tanto umiliato per le vittime con le quali si identifica, quanto lo sarebbe se fosse la vittima egli stesso, un fenomeno che viene amplificato quando i media rendono accessibile il dolore della gente anche di Paesi molto lontani. Ho lavorato a Il Cairo, in Egitto, per sette anni come psicologa clinica, dal 1984 al 1991. Avevo pazienti palestinesi che soffrivano di depressione perché sentivano di dover aiutare le loro famiglie in Palestina invece di star a studiare aIl Cairo per prepararsi ad una vita felice. La storia di Farida, una giovane donna di non ancora vent’anni, spiega perché parlo di “neuroni specchio”. Diceva: “Mio padre vuole che studi, mi sposi ed abbia una vita normale, ma non posso sorridere e ridere e pensare a cose belle quando i miei zii e le mie zie, i miei nipoti e altri membri della famiglia affrontano la sofferenza in Palestina. La loro sofferenza è un grande peso per me. Lo sento nel corpo. A volte non posso dormire, mi torturo. ” Concludeva il suo pensiero dicendo: “Penso che gli attentatori suicidi siano eroi, perché è difficile dare la vita. Voglio dare la mia vita. Voglio fare qualcosa. Non posso starmene seduta qui a Il Cairo e guardare la gente soffrire ed essere umiliata. Mi sento umiliata al loro posto, sento che io li umilio ancora di più se non li aiuto. Mi sento così impotente, così pesante… a volte riesco a malapena a camminare”.
Vincenzo Pace Non penso che ci siano società che accolgano il terrorismo. Ci sono società profondamente fratturate e frustrate, dal punto di vista economico e sociale, che esprimono movimenti politici alternativi ai regimi costituiti, movimenti che innalzano la “bandiera ideologica” della religione per farsi strada in società senza reale dialettica democratica. L’assenza di democrazia ha preparato paradossalmente alternative mortifere per la democrazia stessa. È questo l’impasse in cui si trovano quasi tutti gli Stati arabo-musulmani, ad esempio, oggi. Valeria Piacentini Come detto sopra, il terrorismo è radicato nel sociale, affonda le proprie radici nella cultura sociale, soprattutto laddove vi è un potente scollamento fra l’élite al potere e la base sociale. Povertà, faide tribali – inter-tribali, clanico-familiari – contribuiscono ad aumentare la “confusione”, favorendo una sottile, capillare penetrazione anche dottrinale legata ad attività sociali (case da tè, piccoli ristoranti, spacci, dispensari medici, ritrovi dopolavoro, iniziative assistenziali di vario genere e natura, donazioni, clubs letterari e culturali…). Si tratta di attività del tutto legali, legate inizialmente al ceto medio-basso, che operano legalmente e sopperiscono alle carenze statuali; si muovono anche attraverso siti, blog, ONG islamiche, reti informatiche e assistenziali in nome della solidarietà islamica. Oggi le dimensioni sono decisamente trans-nazionali e trans-frontaliere. Una volta ottenuto il riconoscimento “sociale”, il passo al reclutamento è breve. Le “scienze della comunicazione” e la “psicologia” consentono agli “operatori” incisività nell’azione e presa. A ciò si possono aggiungere varie forme di “deterrenza” nei confronti di chi non è persuaso e non aderisce. Evelin G. Lindner I terroristi attraggono i loro seguaci con storie di umiliazione. Non c’è bisogno di comprare armi costose quando i sentimenti di umiliazione sono forti, i vicini di casa si uccidono a vicenda con i coltelli come in Rwanda, o gli aerei civili vengono trasformati in missili come è accaduto l’11 Settembre. Ecco perché ho etichettato l’umiliazione “la bomba nucleare delle emozioni”. Non è facile fare un uso costruttivo della rabbia come ha fatto Mandela in Sudafrica, ad esempio. In Iraq, ci potrebbe essere solo se il mondo arabo inquadrasse la seconda Guerra in Iraq come una liberazione. Il conflitto permarrà finché il mondo arabo vedrà l’azione militare come invasione umiliante. In questo evento, il conflitto potrebbe restare invisibile ed essere affrontato come depressione e apatia da parte degli Iracheni e dei cittadini arabi e di coloro che si identificano con essi. Comunque, una rabbia che ribolle potrebbe anche portare a una feroce rappresaglia o a reazioni in stile hitleriano, o a terrorismo contro l’Occidente, ma potrebbe portare anche a reazioni sul modello di Mandela o Gandhi se leaders di quel calibro fossero disponibili. Questo è quello che si intende quando si dice che si deve vincere non solo la guerra ma anche la pace. Debidatta A. Mahapatra Per avere un terreno fertile per il terrorismo potrebbe non essere necessario che vi siano ragioni legate alla sofferenza. La sofferenza potrebbe essere psicologica, costruita sulla base di sofferenze non reali ma percepite. Per esempio, il detto “l’Islam è in pericolo” fornisce ad alcuni una spiegazione logica sufficiente per sostenere la violenza terrorista. A volte è l’alienazione sociale che ha spinto le persone a prendere le armi, come in Kashmir, perché la gente percepiva se stessa come negletta in confronto ad altri. Potrebbe trattarsi anche di un fattore coercitivo, per il quale le persone comuni vengono forzate ad aderire ad attività terroristiche col fucile. Ma il fattore più importante, credo, è la propagazione del fondamentalismo nella quale il nome di Dio viene invocato per far sì che si aderisca al jihad contro i detrattori, definiti come il male.
Vincenzo Pace Tutte le guerre moderne si sono combattute e si combattono ricorrendo a mezzi di comunicazione di massa, efficaci e intrusivi (basti pensare alla guerra dei cartoni animati fra la televisione controllata da Hamas e quella sotto la direzione di Fatah in Palestina, per rendersene conto). Internet ha semplicemente potenziato la comunicazione, rendendola pervasiva e, al tempo stesso, relativamente incontrollabile da parte dei regimi che vengono combattuti. Debidatta A. Mahapatra L’esempio più noto dell’uso della tecnologia informatica nel terrorismo non è che quello dell’attacco terroristico a Mumbai del Novembre 2008, compiuto da Lashkar-e-Toiba in Pakistan. I terroristi hanno usato il sistema GPRS, la telefonia mobile e la tecnologia di mappatura per individuare il bersaglio. Le e-mail sono state inviate dalla Russia. I terroristi parlavano ai loro mentori a Karachi con i telefoni cellulari mentre attaccavano Mumbai. L’attacco di Ahmedabad in India, nel 2008, fu coordinato da Harkat-ul-Jihadi-Islami, con base in Bangladesh, tramite Internet. Le organizzazioni terroristiche impiegano eccellente tecnologia informatica (IT) professionale per sviluppare nuovi software per i loro scopi. Recentemente la polizia di Mumbai ha arrestato Mohammed Mansoor Asgar Peerbhoy, ingegnere informatico, perché stava elaborando dei software per i Mujaheddin. Per prevenire la cyber-war, al di là di leggi severe, è necessario un coordinamento a livello internazionale. Ci dovrebbe essere anche una consapevolezza pubblica in questo contesto, perché ci sono terroristi che, ad esempio, usano le e-mail di gente comune per inviare e-mail terroristiche. Evelin G. Lindner Internet e la tecnologia informatica aiutano sia il terrorismo sia il contrasto al terrorismo perché facilitano le connessioni tra distanze geografiche. Facilitano anche il movimento dei diritti umani. Un esempio interessante è quello del movimento RAWA che fu fondato da donne afgane che andavano in giro con telecamere nascoste sotto i burqa, facendo fotografie e pubblicandole su Internet, cosicché donne occidentali che erano venute a conoscenza di quel sito crearono una coalizione e contribuirono con le loro risorse. Per quanto riguarda la complessa rete dell’umiliazione create dai fraintendimenti e dai doppi standard e le conseguenti rappresaglie, il cyberspazio è pieno di esempi ben noti che non c’è bisogno di elencare qui. Valeria F. Piacentini Sul piano tecnico/tecnologico non saprei rispondere. Vi sono esperti di prim’ordine in questo campo. Non vi è tuttavia dubbio che Internet e tecnologia informatica siano fra le armi più formidabili e pericolose di questa guerra asimmetrica, di questo vis-à-vis non convenzionale.
Valeria F. Piacentini A mio avviso, al momento attuale ci troviamo di fronte più a una “deterrenza psicologica” che a una realtà globale. Per quanto riguarda il nucleare a uso militare, questo sembra percepito dalle diverse leadership che lo possiedono come un’arma di potenza, prestigio interno e regionale, “ricchezza” personale, “stabilità e stabilizzazione” in una fase di transizione e di riorganizzazione delle alleanze internazionali e di quelle del sostegno all’interno del Paese. Il suo impiego in una non auspicabile convergenza con quanto da noi etichettato “terrorismo” non è da escludere – ma sembrerebbe una realtà ancora remota, quanto meno localizzata, che vedrebbe per l’immediata ritorsione da parte del resto del mondo. Ed inoltre, un siffatto impiego implicherebbe una “condivisione” del potere… che, al momento, non sembra sedurre nessuno. Ciò non esclude l’iniziativa di un folle. Le armi non convenzionali (chimiche ecc.) circolano, sono state variamente impiegate e se ne sono visti i risultati in più di un teatro, sin dall’epoca della Guerra Fredda. A mio avviso, rappresentano non solo un rischio ma una minaccia vera e propria sia per gli altri sia per le possibili ricadute anche sulla nostra sicurezza interna (vedi il Giappone). L’unica riserva è costituita dalla modalità di impiego. Sul piano tattico, le cosiddette strategie della mobilità come la guerra per bande e le solidarietà clanico-tribali, il mordi e fuggi, il ricorso agli “scudi umani” (la popolazione civile inerme), l’auto-bomba o il kamikaze… sono ancora le strategie più in uso per logorare, anche psicologicamente, l’avversario, destabilizzare e arrivare al potere o alla sua compartecipazione. Debidatta A. Mahapatra La collusione tra terrorismo e armi nucleari potrebbe sembrare remota al momento, ma la natura ambigua di sicurezza del materiale nucleare in alcuni Paesi come la Corea del Nord e il Pakistan fornisce una simile possibilità. Il padre della bomba atomica pakistana, A. Q. Khan, è stato arrestato e interrogato per la sua complicità nel passare segreti nucleari ad altri. Le organizzazioni terroristiche ricche come Al Qaeda potrebbero usare il potere del denaro per raccogliere materiali e segreti nucleari da scienziati insoddisfatti come Khan. Ci sono rapporti non confermati secondo i quali vi sono attualmente alcune organizzazioni terroristiche potrebbero essere in grado di costruire le cosiddette dirty bombs (bombe atomiche con capacità limitata). Penso che le Nazioni debbano tenere presente questo scenario emergente nella loro strategia di sicurezza. Le organizzazioni internazionali come l’International Atomic Energy Agency (IAEA) possono giocare un ruolo efficace in questo campo. Evelin G. Lindner Ci si può aspettare una convergenza pericolosa con il terrorismo, che dipende dal successo o dal fallimento delle società occidentali nel riconoscere i loro propri doppi-standard, di scusarsi per averli adottati e di dare inizio al dialogo con coloro che sono occupati a perpetrare atti di violenza ed umiliazione come rimedi alla loro frustrazione di esserne oggetto. Il terrorismo nucleare è una grave minaccia per la sicurezza globale. Nel Giugno 2004, Mohamed El Baradei, il direttore generale della IAEA ha descritto la minaccia del terrorismo nucleare come “reale ed imminente” e ha parlato di una “corsa contro il tempo” per impedire ai terroristi di ottenere materiali nucleari e radioattivi. L’allarme di El Baradei è molto rilevante anche per il Sud-est asiatico. La studiosa Tanya Ogilvie-White, ad esempio, sottolinea alcune delle più vulnerabili fonti di materiali nucleari e radioattivi in uso e deposito in strutture in tutta la regione del Sud-est asiatico, che vanno da quelli ad alto rischio come l’uranio arricchito o i reattori nucleari sperimentali esistenti, a quelli a minor rischio, come i radioisotope, che sono largamente usati da un gran numero di imprese commerciali del sud-est asiatico eppure non vengono monitorati sufficientemente.
Valeria F. Piacentini La percezione del rischio fa parte delle regole del gioco, e la sua valutazione dovrebbe essere rigorosamente razionale e basata sulla logica. Tuttavia, secondo me, la percezione “sociale” è certamente influenzata dai media, che rappresentano una lente di ingrandimento che agisce spesso acriticamente su psicosi individuali e collettive. Vincenzo Pace È una storia che si ripete su scala ridotta nelle nostre società a proposito di sicurezza: i dati reali diminuiscono, la percezione del fenomeno aumenta. Il fatto è che il metodo di fare la guerra, chiamato terrorismo, ha come scopo – com’è noto del resto a tutti gli esperti del fenomeno – non tanto e non solo infliggere perdite umane nel fronte nemico, ma di creare i presupposti di un timore diffuso, che possa mettere in difficoltà un nemico che è già ritenuto in partenza più forte di me, dal punto di vista tecnico-militare. Il terrorismo è anche un’azione comunicativa oltre che militare. Debidatta A. Mahapatra Anche se il numero di vittime è diminuito, oggi le organizzazioni terroriste con la tecnologia moderna e le loro reti sono in grado di infliggere danni materiali e umani maggiori del passato. Il fattore di rischio, dunque, è senza dubbio alto. Io stesso sono stato per due volte testimone di violenza terrorista perpetrata davanti ai miei occhi. È ormai un adagio comune l’affermazione che “non sai quando ci sarà l’esplosione di una bomba e perderai la vita”. La paura psicologica del terrorismo potrebbe essere più pervadente della violenza effettiva, ma ciononostante rende la vita umana disabile per quanto riguarda la produttività e la felicità. È vero che i media hanno giocato un ruolo nell’elevare il fattore di rischio, ma io attribuirei ai media più aspetti positivi che negativi perché essi diffondono la consapevolezza tra la gente rispetto al terrorismo. Evelin G. Lindner Per come la vedo io, vi sono cinque fattori principali che portano all’aumento della percezione del rischio, mentre ve ne sono due, interconnessi, che la fanno diminuire. Il primo è che guardare il mondo attraverso le lenti di una ideologia basata sull’onore aumenta la percezione del rischio; il secondo è il fatto che la drammaticità vende e porta i media ad aumentare la percezione del rischio; un approccio basato sui diritti umani invece farebbe diminuire la percezione del rischio, se non fosse che, e questo è il terzo fattore, le democrazie contemporanee sono definite come democrazie nazionali; quarto, la confusione linguistica concettuale sulla parola comprensione porta all’aumento della percezione del rischio. Il quinto fattore è che, sebbene l’aumento della interdipendenza globale dovrebbe far diminuire la percezione del rischio derivante dal terrorismo, la mancanza di consapevolezza che in un mondo interdipendente gli interessi del singolo coincidono con gli interessi comuni, potrebbe portare alla direzione opposta. I due elementi che fanno diminuire la percezione del rischio, almeno per quanto riguarda il terrorismo – mentre potrebbero aumentare la percezione del rischio di altre minacce, come il riscaldamento globale – sono identificabili con la crescente interdipendenza globale e la crescente consapevolezza globale dei diritti umani.
Debidatta A. Mahapatra Sì, ci sono legami tra il traffico di droga, il crimine organizzato e il terrorismo. L’attacco terroristico di Mumbai è stato finanziato da un esperto del mondo sommerso, ovvero Dawood Ibrahim, che ha usato i suoi enormi profitti dei suoi traffici di droga in Afghanistan. Ibrahim ha fornito i suoi canali nel Mar Arabo per far passare i terroristi da Karachi a Mumbai in sicurezza. In Kashmir, elementi di bassa lega, usando la copertura di protettori religiosi hanno depredato, stuprato, assassinato, messo al rogo. In Afghanistan viene coltivato il 90 per cento del papavero mondiale. I Talebani fondamentalisti hanno promosso questo tipo di coltivazione per finanziare le attività violente contro le forze NATO e altre costruzioni e le Agenzie di peace-keeping a Kabul e nelle aree di confine con il Pakistan. Valeria F. Piacentini Si è parlato di Internet e tecnologia informatica. Secondo me sono strumenti che rappresentano una delle connotazioni principali delle nuove strategie che guidano il terrorismo, anche per quanto riguarda le fonti di finanziamento. Ripercorrendo le vicende di questi ultimi due decenni, ossia dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica, è possibile percepire con chiarezza il fenomeno e seguirlo fino alle sue massime escalations: l’autofinanziamento del terrorismo e relative connessioni. Per quanto riguarda la pirateria (o, forse, “guerra da corsa”? – opero di proposito il distinguo che, da un punto di vista normativo, vale anche in ambito islamico), il discorso è leggermente differente. Evelin G. Lindner La risposta a questa domanda non può che essere un inequivocabile sì. C’è una tale ricchezza di dati a sostegno di questa ipotesi, che sarebbe troppo lungo elencarli tutti.
Vincenzo Pace I primi due sono movimenti che in buona sostanza promuovono un risveglio religioso nelle società a maggioranza musulmana tramite l’utopia del ritorno alle origini della prima comunità dei credenti, dei puri musulmani non contaminati dal colonialismo vecchio e nuovo, non sedotti dalla modernità occidentale né risentiti per la mancanza di ciò che l’Occidente ha. Insomma, un sentimento di orgogliosa appartenenza ad una comunità differente, fondata da una parola rivelata, alta e altra rispetto a quelle delle leggi degli uomini. Nell’Islam, questi movimenti che si affermano fra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX secolo hanno alimentato dapprima i movimenti riformisti (che hanno immaginato di poter islamizzare la modernità, accettandone in ogni caso i valori che essa si porta appresso, come la libertà, la democrazia, lo sviluppo scientifico e tecnologico ecc.) e poi, quando questi hanno esaurito la loro spinta vitale, i movimenti radicali (che hanno invece pensato che si dovesse non solo ricostruire dal basso l’identità religiosa perduta, ma che fosse necessario anche e soprattutto conquistare il potere politico e dall’alto dei Palazzi rifare daccapo la società islamica): è da questi movimenti, spesso battuti ed emarginati violentemente nella lotta politica, che è nata una costola, una fazione che ha teorizzato e messo in pratica la lotta clandestina armata contro i “faraoni” (i leaders arabo-musulmani ritenuti traditori – vedi Sadat dopo la firma degli accordi di pace con Israele –), recuperando la dottrina classica del jihad (lo sforzo del credente-combattente per affermare la fede nel Dio unico contro i miscredenti e gli ipocriti, le due categorie coraniche del nemico per eccellenza) e trasformandola (con molte forzature esegetiche) in un moderno apparato ideologico di movimenti rivoluzionari. Il fondamentalismo è la mentalità che sta dietro (e che non necessariamente si trasforma in movimento di lotta armata): prendo un testo sacro e, senza mediazioni culturali e storiche, lo leggo come se contenesse alla lettera un modello di società perfetta (fuori del tempo) e un modello unico e assoluto di credente che si batte senza paura e senza sprezzo del sacrificio di sé per le (presunte) ragioni della fede religiosa. Valeria F. Piacentini La questione è troppo complessa per potere dare una risposta precisa all’interno di poche righe. I distinguo sono molti, sia dal punto di vista dottrinale che da quello geo-politico. Le sfumature all’interno di questi distinguo sono estremamente variegate. Le variabili e le varianti non sono meno fluide. Si tratta di “dottrine” che non implicano di per sé “militanza armata”, eversione con mezzi violenti, terrorismo. “Possono” acquisire queste valenze in determinate circostanze sia storico-politiche che geografico-culturali. Si tratta di dottrine specifiche, che vanno sempre analizzate e valutate singolarmente, e sempre all’interno del contesto islamico di cui sono figlie. Debidatta A. Mahapatra Penso che l’Islam come ogni altra religione sia una religione di pace. Sono le interpretazioni errate che creano confusione. Cercherò di definire. Il Wahabismo attuale è una variante radicale dell’Islam emersa in Arabia Saudita, la quale ambisce a instaurare la Fratellanza Islamica in tutto il mondo, attraverso l’attuazione della Sharia, anche con la forza. L’Arabia Saudita spende milioni di dollari ogni anno a questo scopo. L’Hanafismo, il Jihadismo, l’Islamismo, il fondamentalismo sono correlati a queste varianti radicali. Vengono usate alternativamente nel discorso. Dall’altro lato, il Sufismo promuove un Islam pacifico. Il grande santo Sufi dell’India Khwaza Moinuddin Chisti viene rispettato da tutte le comunità. Il santo Sufi Kabir aveva discepoli sia hindu sia musulmani. È l’Islam estremista e radicale che alimenta l’intolleranza e la violenza terrorista.
Vincenzo Pace No. Tutt’al più c’è un effetto imitativo nel ricorso a tecniche di guerra. L’invenzione degli uomini-bomba, che gli Hezbollah libanesi sperimentano già nel 1984, si è poi diffuso in modo impressionante in tempi più recenti dall’Iraq alla Cecenia, dal Kashmir all’Egitto. Debidatta A. Mahapatra Dipende da quello che intendiamo per terrorismo. Se accogliamo la definizione delle Nazioni Unite del 2004, il terrorismo è qualsiasi atto teso a provare morte e seri danni fisici a civili o non-combattenti allo scopo di intimidire una popolazione o costringere un Governo o una Organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un atto, allora è difficile provare che vi siano legami tra i vari atti di terrorismo. Non è l’atto violento ma l’ideologia che unisce i diversi gruppi insieme. Per esempio, in India il gruppo maoista usa la violenza terrorista, ma la sua ideologia è diversa dalla ideologia di Al Qaeda. Ma se parliamo di attività terroristiche motivate da fondamentalismo religioso, allora il punto di vista cambia. È il terrorismo islamico che ha una rete internazionale che si estende dall’emisfero settentrionale a quello meridionale. Valeria F. Piacentini In alcuni casi certamente – è stato più volte richiamato negli interventi che precedono. In altri casi, sono fenomeni puramente locali (il cosiddetto terrorismo Balucio, ad esempio, o altri gruppi jihadisti del Punjab, le militanze Hazara, e così via). Questi hanno in comune connotazioni di movimenti etnico-culturali locali, di “opposizione al potere politico e/o militare” del momento; l’obiettivo ultimo è in genere il rovesciamento di quel potere e l’accesso alle ricchezze che questo gestisce (fenomeno quindi squisitamente locale) e/o partecipazione ai benefici e ai privilegi che la gestione del potere comporta.
Debidatta A. Mahapatra Le Forze armate straniere possono giocare un ruolo positivo come deterrenti del terrorismo, come vediamo nel caso delle forze NATO in Afghanistan, così come sempre in quel contesto hanno fatto anche le forze di peace-keeping delle Nazioni Unite. Ma potrebbe non essere sempre così. Dipende dalle priorità globali di pace e sicurezza. Dipende anche da come le Forze armate straniere in questione percepiscono la situazione sul terreno e la sua compatibilità con i loro obiettivi e scopi nazionali. Se ne potrebbe discutere a lungo. Evelin G. Lindner Le esitazioni europee in merito agli interventi militari confermano i sospetti degli Americani che pensano che gli Europei non siano decisi e coraggiosi e che gli Americani siano i leaders più forti di carattere e con la visione più ampia al mondo. Dal punto di vista europeo, la strategia americana rischia di essere controproducente – l’azione sbagliata al momento sbagliato – con il risultato di esacerbare il male invece di curarlo. Si può probabilmente concordare sul fatto che bisogna adattare le strategie alle situazioni, assicurandosi che la strategia sia adatta allo scopo. A volte il coraggio è meglio investirlo nella prevenzione e nel contenimento, a volte nel colpire. L’importante é che se si decide di colpire, non bisogna farlo in modo controproducente.
Vincenzo Pace No. Debidatta A. Mahapatra Un “pacchetto” di peace-keeping, sostenuto a livello internazionale, ad ampio spettro senza dubbio, sarebbe d’aiuto nel contrasto al terrorismo. La Carta delle Nazioni Unite include il mandato di mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Ma il punto più importante, in questo contesto, è che ci dovrebbe essere un accordo tra le potenze internazionali sulla struttura per combattere il terrorismo. Le forze di peace-keeping devono attenersi alle convenzioni internazionali. A volte le operazioni di peace-keeping non funzionano come potrebbero a causa di mancanza di supervisione e coordinamento. Mi riferisco ad esempio alla recente controversia riguardo la forza di peace-keeping in Somalia. Penso anche alle violenze nella prigione di Abu Ghraib in Iraq. Valeria F. Piacentini Quanto le Forze armate in campo siano deterrenti del terrorismo, è un fatto che va valutato “sul terreno”. Le leadership, che ricevono sostegno non solo militare dalle Forze armate, certamente considerano la presenza dei vari contingenti “NATO” o “peace-keeping” come l’unico strumento per contrastare il terrorismo interno e riportare ordine e sicurezza nella regione. Si tratta di una percezione molto netta anche da parte di attori out-of-area, le cui dottrine ufficiali danno giustificazione e legittimazione sciaraitica all’intervento di non-musulmani e consentono che i loro territori ospitino basi militari, truppe, addestramento ecc. È interessante analizzare e valutare la percezione che ne ha la popolazione locale, quella che rappresenta il “clima sociale”. Le stime demografiche e le ondate inarrestabili di esodi, che si riversano anche sul territorio europeo, denunciano un crescente clima interno di paura e insicurezza. I fogli che circolano, cassette, video, propaganda di vario genere e, a vari livelli, esprimono crescente ostilità. Le Forze armate “straniere”, più che come protezione e scudo della popolazione civile, fonte di ordine e sicurezza interna, sono percepite come “forze di occupazione” del territorio nazionale. Per questo fronte, esse appoggiano leadership screditate e corrotte, che nulla fanno per ricostruire un tessuto sociale gravemente lacerato al proprio interno e, viceversa, rapinano il Paese di quelle poche risorse residue, privando la cultura locale dei propri valori tradizionali, dei propri tradizionali equilibri di potere/i. Non solo. La forza militare “straniera”, arroccata nelle proprie basi e con le proprie tecnologie di guerra altamente sofisticate, è percepita come un fattore estraneo; le si contesta perlopiù apertamente di volere imporre le proprie dottrine e modelli di governance, del tutto avulsi dalla tradizione locale, soffocando con la forza le legittime aspirazioni alla libertà e alla “democrazia islamica” della popolazione che vive (o vorrebbe vivere) su quei territori, piegandola in nome dei “propri” interessi geo-politici e geo-economici. Sono sentite – o fatte sentire – come “forze aliene”; combatterle è una sfida – se non un vero e proprio dovere (fard) per cui vale la pena auto-sacrificarsi. Nonostante i primi successi di talune operazioni di peace-keeping, questo ideologico ha ripreso forza. Il lessico è quello standard dell’Islam classico. Le “rappresaglie” nei confronti di quanti si mostrano compiacenti con questa “forza” straniera sono numerose, e, oltre alle rappresaglie, non mancano episodi di giustizia sommaria nei confronti dei “collaborazionisti”. Evelin G. Lindner – Per continuare con la metafora della foresta, il peacekeeping deve enfatizzare il quieto crescere della foresta, più che il fragoroso cadere di un albero tagliato. Vedo due elementi che meritano attenzione particolare. Uno è la sopraffazione con la forza e il rispetto, l’altro è il nuovo approccio alla conflict resolution, come quello proposto dal Programma per la Cultura e la Pace dell’UNESCO, che arriva a parlare della necessità di adottare un approccio più “femminile” nella conflict resolution, combinato ad aspetti di quello “maschile”, più legato al concetto di coercizione, che poi si sommano in quello che chiamiamo controllo sociale, fatto allo stesso tempo di programmi di sicurezza e di insitution building.
Debidatta A. Mahapatra Penso che la maggior parte del terrorismo internazionale sia localizzato in Asia, che sia l’India, la regione del Xinjiang in Cina, lo Sri Lanka, il Pakistan, l’Afghanistan o Paesi del Sud Est asiatico come le Filippine e l’Indonesia. La genesi dei gruppi può anche essere locale ma gradualmente le attività terroristiche nella regione hanno assunto un carattere internazionale. Ad esempio, le violenze che hanno avuto luogo agli inizi del 1990 nel Kashmir erano dovute a questioni locali legate alla corruzione e al Governo non-democratico. Più tardi, però, sono subentrati attori transfrontalieri con armi e munizioni. Ancora, Al Qaeda, la più grande organizzazione terroristica, avendo le sue basi in diversi Paesi, dalla Somalia all’Afghanistan, ha dichiarato nelle sue intenzioni non soltanto di colpire gli USA ma anche l’India. Il ritiro delle Forze armate sovietiche dall’Afghanistan ha contribuito ulteriormente a far divergere i fondamentalisti verso altre regioni per portare avanti la Guerra Santa. Valeria F. Piacentini A questo ultimo punto risponderei “tutti e due”. Il terrorismo in Asia: quale Asia? Per quanto riguarda le origini, se si parla di terrorismo islamico, queste risalgono alla conquista Araba e ai secoli VIII – IX dopo Cristo; hanno assunto connotazioni fra loro profondamente diverse a seconda delle culture pre-esistenti con cui l’Islam si è incontrato e su cui si è sovrapposto. Sarebbe generalizzante e impreciso dare etichette del tipo “terrorismo turco” “terrorismo arabo-jihadista” “terrorismo iraniano” “terrorismo dailamita” “terrorismo wahabita” “terrorismo salafita” “terrorismo qa’idista” “terrorismo ceceno” ecc. ecc. A mio parere, si tratta di un fenomeno che si è venuto ri-organizzando nel secolo XIX, con le grandi correnti di pensiero indiane e, più tardi, è divenuto sistema con la sintesi di Mawdudi (prima metà del secolo scorso). Mawdudi si incontrò con Sayyed al-Qutb, il padre-ideologo dell’Associazione dei Fratelli Musulmani. Le due dottrine ebbero alcune compenetrazioni, alle quali seguirono simpatie e sinergie. Quindi, è sopravvenuto il melting pot afgano pre – e post – fine della Guerra Fredda. Nell’epoca della globalizzazione, è molto verosimile che il terrorismo asiatico sia un elemento del contesto più ampio del terrorismo (interconnessioni, trans-nazionalità, trans-frontieralità, finanziamenti e auto-finanziamenti, addestramento, armi e armamenti, tattiche e strategie… ideologico e lessico ideologico). Se viceversa si considerano i target, si tratta di un fenomeno – anzi, di più fenomeni – che vanno spiegati a livello locale, caso per caso. Secondo me un elemento comune caratterizza le diverse forme del terrorismo asiatico (ivi compresa la pirateria): l’ideologico sopraggiunge “a posteriori”, “segue” l’azione, a legittimazione di fatti già compiuti e di obiettivi molto pragmatici. Evelin G. Lindner Le sofferenze a livello locale sono unicamente locali e non possono essere paragonate con altre. Tuttavia, persone sofferenti tenderanno ad attingere a storie disponibili altrove, incluse quelle dei freedom-fighters che risolvono l’umiliazione ricorrendo a qualunque mezzo, incluso il terrore. Viceversa, le loro strategie e campagne si riverseranno nel mercato globale delle storie e fertilizzeranno altri in diverse parti del mondo. Così, ci si può aspettare una fertilizzazione reciproca. Ho sottolineato più volte nei miei studi, in particolare riguardo l’Asia, come si può costruire la coesione sociale (questa la definizione preferita in Europa) o l’armonia (la definizione preferita in Asia).
Debidatta A. Mahapatra L’India è una delle vittime maggiori del terrorismo dagli anni ‘90. Secondo uno studio del Worldwide Incidents Tracking System (WITS) del Centro Nazionale anti-Terrorismo degli USA (NCTC), dal 2004 al 2007 l’India ha perso più vite per atti terroristici del Nord America, Sud America, America Centrale, Europa ed Eurasia messi insieme. Le vite perse in India per atti terroristici nel periodo suddetto è, infatti, di 3.674 contro 3.280 per tutto il resto. L’India ha, di quando in quando, adottato meccanismi come il Terrorist and Disruptive Activities (Prevention) Act (1984), il Prevention of Terrorism Act (2002), e Anti-terrorism laws (2008), oltre ad una serie di leggi a livello provinciale, per combattere il terrorismo. Ha una forza speciale chiamata National Security Guard per affrontare le situazioni di emergenza. All’esterno, l’India affronta il terrorismo sul confine. Ci sono prove che nel Kashmir, controllato dal Pakistan, ci sono molti centri di addestramento per terroristi. L’India e il Pakistan si incontrano e dialogano in varie occasioni, ma tali dialoghi sembrano essere poco produttivi. Il vantaggio dell’India rispetto ai suoi vicini è la sua società secolarizzata e resiliente. Le Organizzazioni musulmane come Deobond criticano apertamente le attività terroristiche su base religiosa.
Vincenzo Pace I primi passi fanno intendere che ci troviamo di fronte ad una svolta. Il negoziato invece che l’attacco frontale. La persuasione invece che la mano armata. Debidatta A. Mahapatra Se prendiamo il discorso di insediamento di Obama come riferimento, allora egli ha serie intenzioni di adottare politiche per combattere il terrorismo. La novità del suo approccio è che egli ha enfatizzato la necessità di sviluppare un’amicizia con i Paesi musulmani. Ha ordinato la chiusura della base di Guantanamo e si è rifiutato di dare sanzione ufficiale ai metodi di tortura contro i terroristi. La sua Amministrazione ha indirizzato il Governo di Karzai ad iniziare il dialogo con la linea dura dei Talebani. La sua Amministrazione ha tollerato l’accordo di pace del Pakistan con i Talebani nella Valle di Swat per cui veniva proclamata la Sharia nella Regione. Questo mostra il suo pragmatismo nell’affrontare il terrorismo nella Regione. Potrebbe essere sbagliato dire che egli ci vada troppo leggero con il terrorismo. Dal punto di vista della sua politica pragmatica, alla fine anche lui ha deciso di incrementare il numero di soldati in Afghanistan per contenere le forze talebane. Valeria F. Piacentini Commentare la politica di Obama all’inizio di un mandato difficile e in un momento geopolitico/geo-economico non facile è praticamente un esercizio virtuale. Comunque sia, di fronte alle incertezze e divisioni europee, gli Stati Uniti sono e restano l’Attore mondiale. Le prime mosse, inclusi gli auguri del Nowruz, non sono in linea con le dichiarazioni rilasciate in campagna elettorale; pertanto, sono ancora più interessanti. Sembrano preannunciare – con estrema cautela (l’opinione pubblica americana è molto sensibile a certi temi) – delle svolte reali, premessa a una reale riorganizzazione di alleanze e posizioni sullo scacchiere mondiale. Ciò trova riscontro in assunzioni di precisi impegni pubblici (l’astensione all’Onu a proposito della questione Palestinese, alcune mosse con Capi di Stato arabi, Mosca, Nowruz per quanto riguarda l’Iran…). Difficile dire dove questi segnali possano portare, certamente non nel breve termine. I negoziati saranno lunghi e spesso esasperanti. Accordi e convergenze potranno aver luogo nel breve termine su alcune questioni contingenti (si è accennato alla pirateria e al terrorismo, si può proseguire con l’Iraq, l’Asia centrale e l’Afghanistan, e fenomeni correlati). In questo anno avranno luogo le elezioni in molti teatri di guerra o "sanzionati"; il sostegno di Washington a determinate leadership potrà avere un peso determinante nel mettere in moto reali cambiamenti. Si tratta di una svolta che è nell'aria ed è percepita spesso con apprensione da molti attori… amici e nemici tradizionali. Evelin G. Lindner Per quanto riguarda le strategie di contrasto al terrorismo di Barack Obama, è importante che egli abbia sufficiente esperienza interculturale per constatare che vi è un dilemma insito nel fatto che l'approccio ai diritti umani potrebbe non automaticamente trovare accoglienza amichevole ovunque e che i diritti umani devono comunque ispirare le sue politiche. Non può cadere nella trappola: "visto che loro non rispettano i diritti umani, allora non dobbiamo neppure noi". Credo che Obama, come persona, possegga l'esperienza internazionale necessaria perché le sue strategie abbiano successo, se non altro per il suo background personale che gli ha insegnato a vedere da diverse prospettive. Ha una innata capacità di intuizione che lo guida. Le persone che sono cresciute in un contesto più omogeneo, comprensibilmente, hanno meno accesso ad una visione a 180 gradi del mondo. Questo per dire che soltanto se Osama riuscirà a raccogliere potere di persuasione sufficiente per portare quelli con minore esperienza nella sua stessa direzione allora le sue strategie avranno successo.
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