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GNOSIS 1/2009
'La fine di Perseo'

articolo redazionale

 
Scivola lo scirocco tra le pieghe dell’inverno, lasciando una scia di sabbiosa umidità.
S’espande tra i tetti polverosi di antiche ville e di ammassate periferie, migra tra canti e vicoli segreti di Palermo, perdendosi tra le spume bionde di Mondello.
Ottunde, in un silenzio cieco che trattiene il cielo in veli opachi, in verminai d’ombre parallele e malate.
È l’affresco dell’attuale Cosa Nostra, nell’attimo di decadenza che scioglie i sussulti di un’agonia.
Agonia che non è mai finale, però. Perché come Araba Fenice l’organizzazione siciliana risorge dalla cenere, talché l’ultimo attimo chiude il cerchio ma non si ferma, tornando a girare, con volute inedite e sconosciute, con innata vocazione alla rinascita.
In questi momenti intensi e straordinari, radar invisibili di sbirri registrano la giostra dei boss e dei loro accoliti, cercano le geometrie del sistema che everte il baricentro sociale dell’isola, macchiandola di prepotenza. Raccolgono i passi mafiosi per catturarne il senso.
Il radar entra nel cuore di Cosa Nostra, nel suo sistema nervoso debilitato, nella sua angoscia di sopravvivere.
Ne legge l’ansia di reinventarsi, la tradizione gattopardesca che ibrida il vecchio e il nuovo, che innesta germogli nella pianta incanutita affinché nuovi rami s’aprano all’orizzonte. Con la stessa fame di futuro dei pionieri della mafia che apparterrà, per ineluttabile virtù genetica, anche alle prossime generazioni del crimine.
C’è fermento, nel mosto mafioso.
Gli ultimi anni di Cosa Nostra sono stati terribili. Un incubo.
Prima l’arresto del boss Antonino Rotolo e della sua corte, gotha che voleva prendere Palermo e distruggere ogni opposizione, contro il canto delle sirene – Provenzano e Lo Piccolo – che incitava al rientro degli Inzerillo, “scappati” dopo la guerra di mafia degli anni ’80 e ora pronti a recuperare spazio, assicurando buoni uffici e relazioni con i cugini americani. Questa tensione avrebbe potuto innescare una guerra, se non fossero intervenuti i poliziotti.
Poi l’arresto di Bernardo Provenzano, l’ultimo sacerdote di Cosa Nostra, il feticcio del potere mafioso che ha interpretato, sempre in prima fila, cinquanta anni di trasformazioni dell’organizzazione, di cui ha rappresentato il verbo sottile e ambiguo, la primazia trasformista e opportunista, curiale e diffidente, votata a ogni forma di “tragedia”.
Infine, Salvatore Lo Piccolo, dopo Rotolo e Provenzano, l’ultimo lato del triangolo del potere palermitano, per ciò solitario all’apice, rancoroso di vendette ed epurazioni, desideroso di riordinare disciplina e architettura, eppure già malato di viziate e deboli affiliazioni.
Nulla ha potuto, Totuccio Lo Piccolo, per suturare la purulenta ferita del suo gruppo.
Proprio la collaborazione alla giustizia è il primo sintomo della malattia. Già nel ‘90 boss di livello hanno scelto di passare dall’altra parte, demolendo il mito dell’impenetrabilità e dell’ineluttabilità dell’appartenenza mafiosa.
Altri, più opportunisticamente e con malcelata strumentalità, hanno cercato una dissociazione dai contorni labili e grigi, mai appagata.
Il boss sopporta il rischio della morte e della vendetta ma non il quotidiano appassire nel carcerario speciale, in quel 41 bis che diventa un demone insopportabile.
Negli ultimi anni, il fenomeno ha assunto livelli straordinari.
L’architettura di Cosa Nostra sembra cedere sotto il peso delle tante collaborazioni alla giustizia che ormai diventano appendice automatica di ogni attività di polizia.
La penuria di “soldati”, dopo l’emorragia conseguente agli arresti, ha abbassato il livello delle affiliazioni, non più adeguate alle esigenze di riservatezza e di affidabilità che il momento richiederebbe.
Gli ultimi boss lo avevano capito ma non hanno avuto il tempo o la capacità strategica di risolvere il problema, lasciando, dopo il loro arresto, situazioni sempre peggiori, inarrestabili derive.
Per la disperazione della debacle, forse, o per la voglia di approfittare di quel vuoto da riempire, i gregari liberi serrano le fila, cercano soluzioni che possano liberarli dall’assedio del contrasto.
Si sentono illuminati di un sacro scopo per Cosa Nostra… recuperare la compattezza del passato attraverso il ripristino di momenti decisionali unitari e concertati.
In altre parole cercano di rivitalizzare la Commissione Provinciale.
Non è impresa da poco.
Lo sanno i Carabinieri che diventano vento invisibile e intercettano questo viaggio improbabile della nuova élite verso il sogno di una rinascita.
I capi sono in carcere da troppo tempo.
La Commissione, il più alto organo decisionale di Cosa Nostra, non si riunisce dai tempi della dura repressione degli anni ’90. Era troppo alto il rischio che venisse individuata e catturata proprio nel momento topico della collegialità, così da decapitare l’organizzazione e da metterla alla berlina.
Aumentano, così, i pizzini. Comunicazioni mediate, veicolate in labirintiche triangolazioni che sono utili palliativi ma che espongono a tragedie, doppiogiochismi e opportunistici attendismi. In tal modo, il tempo di maturazione delle decisioni si amplia, si dilata.
L’organizzazione finisce per avere una testa più pesante, più tarda, talvolta schizofrenica, le braccia sono disarticolate, spesso scomposte, disaggregate.
I detenuti fanno quel che possono. Ancorché al 41 bis, i vecchi capi, attraverso le falle dei colloqui parentali o delle trasferte processuali che offrono stratagemmi comunicazionali, segnano la rotta, rappresentano stelle comete per i loro referenti liberi, costretti a navigare a vista nella tempesta giudiziaria.
Non basta.
Pur se è vero che, secondo le regole di Cosa Nostra, le decisioni adottate dalle antiche Commissioni sono derogabili solo dalle stesse persone che le hanno adottate, tuttavia si avverte urgente il bisogno di rinnovare, di modificare, di riallineare l’organizzazione rispetto ai nuovi obiettivi, ai nuovi contesti siciliani, alle più complesse e, ormai, diverse dinamiche economiche e strategiche.
Come monaci settari, come inediti Beati Paoli, i “reggenti” dei Mandamenti e delle famiglie palermitane si riuniscono e tramano un possibile futuro.
Da Villagrazia il noto Benedetto Capizzi mira alla corona di Rappresentante Provinciale, sostenuto da Giuseppe Scaduto di Bagheria, da Antonino Spera di Belmonte Mezzagno e da altri boss del passato e del presente palermitano mafioso.
C’è una fronda di dissenso che non vuole saperne di Commissioni in un momento critico per Cosa Nostra, perché esporrebbe ciascuno maggiormente all’azione invadente della Polizia. Il rischio, quindi, di una generale decapitazione sarebbe ancor più alto, grave e acuto. L’area dei ribelli s’aggrega intorno ai Lo Presti di Porta Nuova e non nasconde una più personale idiosincrasia verso il Capizzi, di cui non si riconoscerebbe la reale fondatezza del mandato dirigenziale.
È frattura insanabile che potrebbe spiralizzarsi.
Il confronto si sposta, non è più sulle regole: lo stesso Scaduto suggerisce che si persegua l’obiettivo di formare non la Commissione, perché quella composta dai detenuti sarebbe formalmente attiva e insostituibile, ma una sorta di camera di compensazione che consenta di elaborare strategie unitarie e un coordinamento più adeguato alle esigenze di gestione del territorio provinciale. Altro dovrebbe essere deciso e legittimato solo dal carcerare.
Il progetto riguarda Palermo, il cuore pulsante di Cosa Nostra, l’epicentro e la capitale dell’organizzazione. Nelle altre province c’è aria di attesa, l’idea piace, c’è un’adesione di massima in nome di un rilancio effettivo del profilo unitario.
A Trapani, il latitante Messina Denaro va oltre…
È l’ultimo rappresentante dell’antica mafia corleonese, cresciuto all’ombra delle stragi, dal culmine dell’onnipotenza di Riina, sino alla new age provenzaniana, mutuando dallo “zio” Binnu l’abilità di camminare al buio senza inciampi, di oltrepassare le piene e le tempeste con la duttilità strategica e paziente del grande boss.
Segue la vicenda del palermitano con emissari e legati, crea presupposti di sponde utili ad intervenire, forse, al momento opportuno, secondo le tradizioni veteromafiose di distanza ufficiale ma di carsica ingerenza avvelenata.
È ulteriore innesco di conflittualità. Ciascuna provincia vuole conservare la sua indipendenza e mai i palermitani potrebbero lasciare lo scettro a qualcuno, pure di alto lignaggio, che provenga da territori esterni.
I Carabinieri hanno sentito abbastanza. Hanno colto la miscela esplosiva che potrebbe incendiare Palermo.
Hanno svelato le miserie, le contraddizioni e le fitte reti di rancore tra gli affiliati. Nulla di eroico, troppo di tragedie, falsità, ambigue vocazioni al tradimento, elevata vocazione alla fronda silenziosa e trasversale, teatrale affabulazione e disponibilità a sfruttare doti di furbizia e di prepotenza piuttosto che di intelligenza, metis più che logos.
Hanno fatto luce su fratture insanabili, sulla sete di potere, sulle personali vergogne di quegli uomini vestiti da demoni che non rinunciano ai cenci umani delle loro umane competizioni.
Il 16 dicembre 2008 scatta la mannaia giudiziaria.
L’arresto di 99 capi ha disarticolato la piovra, ha spezzato i sogni di molti, ha sciolto anche gli incubi di alcuni, come dimostra il suicidio del dissenziente Gaetano Lo Presti, all’indomani della cattura, forse per essersi reso conto di aver azzardato l’impossibile, coinvolgendo nelle sue trame contro il Capizzi il nome dei Riina, vantandone un sostegno inesistente e pericoloso.
La “Perseo”, quindi, potrebbe essere la “madre “ di tutte le indagini, il momento culminante dell’azione di contrasto a Cosa Nostra… il giro di boa dell’organizzazione che deve mutare geneticamente per sopravvivere.
Non a caso essa già s’appresta a selezionare la nuova leadership, scegliendo le ambizioni e le rotte da seguire, capovolgendo gli equilibri interni, promuovendo quegli ambiti emarginati e accorti che sono stati di recente ai margini del potere e del progetto di rinnovamento e che, per questo, ora si trovano liberi di affermarsi.
È un momento importante anche per il contrasto, perché l’animale è ferito ma non è deceduto. È capace tuttora di sfruttare l’ombra per riparare e leccare le ferite, cercando un orto concluso dove brulicare sgherra e travestita in attesa di cogliere un segno per emergere inedita e velenosa. Come sempre.



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