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GNOSIS 1/2009
Una storia che si ripete

Africa: dalla crisi economica alla crisi della convivenza


Franz GUSTINCICH


Foto Ansa
 
L'Africa è un Continente "a rischio". La crisi economica e il conseguente crollo dei prezzi delle materie prime, da coniugare al venir meno della richiesta del mercato, conseguenza della crisi dei Paesi a tecnologia avanzata, cosiddetti "sviluppati", provocano la perdita di posti di lavoro e riducono alla fame consistenti gruppi di popolazione.
A risentirne sono soprattutto gli abitanti dei "villaggi mobili", gli agglomerati che sorgono a ridosso delle aree minerarie e si spostano mano a mano che la miniera avanza. Se poi chiude, è la fame per tutti.
E mentre l'Occidente in crisi riduce gli aiuti, dall'Asia arrivano nuovi progetti di sfruttamento delle risorse africane e la Cina firma ogni giorno nuovi trattati di cooperazione bilaterale. Il disastro economico di Paesi come lo Zimbabwe o lo Zambia creano aree di tensione, mentre la democratizzazione si allontana, aumentano le scorciatoie per le crisi politiche che alimentano pulsioni di rivolta. Ma questa crisi potrebbe rappresentare, a detta di alcuni analisti, come spiega Franz Gustincich, anche l'occasione per un riscatto dalla dipendenza ‘esterna’ ed avviare una ‘via africana’ all'economia di mercato.


«Le cose iniziano con i problemi economici. Dai problemi economici basta un piccolo passo per arrivare al malcontento sociale. E poi un altro piccolo passo perché la democrazia sia in pericolo. E con la democrazia in pericolo il rischio di guerra è un rischio reale». Queste le parole di Dominique Strauss-Kahn, managing director del Fondo Monetario Internazionale, che sono state riportate sul quotidiano Zimbabwe Telegraph il 20 marzo (1) .
Sembrerebbe che Strauss-Kahn si riferisca al Madagascar, l’isola africana nell’oceano Indiano che per prima ha inaugurato la stagione delle sollevazioni popolari causate dalla crisi economica. Il Presidente dell’isola Marc Ravalomanana destituito con un abile colpo di mano nei giorni scorsi dal leader dell’opposizione Andry Rajoleina con il sostegno incruento dei militari, torna ora a far sentire la sua voce. La piazza che manifestava contro l’ex Presidente, tenuta ad oltranza per tre mesi dai sostenitori di Rajoleina, sindaco di Antananarivo, è ora tornata in mano a Ravalomanana.
Il cambio al potere è certamente stato anticostituzionale, come hanno sostenuto l’ONU e l’Unione Africana, nonché la diplomazia internazionale. Ma il punto, per quanto importante, non è questo. La rivolta è iniziata a causa della diminuzione del potere d’acquisto dei cittadini e del raddoppio dei prezzi dei beni di prima necessità. Il Paese, è bene ricordarlo, è incluso dalla Banca Mondiale nella lista dei 10 più poveri del mondo, con il 70% della popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno.
Dopo questo primo caso si è capito che molti altri Paesi africani corrono lo stesso rischio del Madagascar, con possibili esiti molto più sanguinosi.
Lo Zambia è tra i Paesi che rischiano di soffrire di più. Il Kwacha, la valuta locale, ha perso il 70% sul dollaro americano negli ultimi tre mesi. Il 10% della forza lavoro è impiegata nell’attività estrattiva, soprattutto rame, ed ora che la richiesta di strumenti elettrici, componenti elettronici ed impianti per l’edilizia è fortemente rallentata in tutto il mondo, le compagnie minerarie hanno iniziato a licenziare.
Il dramma è che ci sono molte città costruite intorno alle miniere e la chiusura di una di queste può annientare l’intera economia cittadina, riducendone gli abitanti alla fame. L’equazione che meglio spiega la situazione potrebbe essere: cibi invenduti al mercato e stomaci affamati.
Le prime conseguenze di una simile catastrofe, racconta una madre di Luanshya – cittadina zambese della cosiddetta “copperbelt”, la cintura del rame che si estende dallo Zambia allo Zimbabwe – “riguardano l’istruzione: o paghiamo per la scuola o mangiamo. E da tre pasti al giorno siamo ridotti ad uno solo, ma non sappiamo per quanto tempo riusciremo ancora a sfamarci” (2) .
Con il crollo del prezzo del cotone in Tanzania, del petrolio in Angola, Ciad, Nigeria, della richiesta dei diamanti e della maggior parte dei beni prodotti nei vari Paesi, il benessere conquistato nell’ultimo decennio da numerose famiglie è venuto improvvisamente a mancare.

Foto Ansa
 

Il contrasto tra la povertà e la ricchezza è ben evidenziato nel settore dei diamanti. Dalle vetrine dei gioiellieri di tutto il mondo, si affacciano, invitanti, diamanti e pietre preziose a prezzi sempre più bassi in maniera inversamente proporzionale alla caratura, e persino quelli utilizzati dalle industrie, stante la bassa richiesta, hanno subìto un deprezzamento considerevole. I grandi produttori ed i mediatori internazionali ci informano che il prezzo è calato di circa il 50% rispetto allo scorso anno, precipitando del 3 o 4% al mese, con una picchiata del 18% solo nello scorso febbraio. La De Beers, il gigante del settore, ha iniziato a licenziare e prevede di “liberare” 1.415 posizioni negli uffici sparsi sul territorio africano entro la fine dell’anno. Scrive la Reuters (3) , in una sua analisi della crisi, che la «domanda di diamanti grezzi dovrebbe calare del 60%, poiché i consumatori hanno meno contanti nelle loro tasche, da spendere per i beni di lusso», sebbene i commercianti di diamanti ci avvertono che «l’amore e il senso di colpa restano l’assicurazione per la nostra industria» (4) .
I Paesi produttori di diamanti, in Africa, cercano di correre ai ripari: meno richiesta e prezzi al ribasso significano disoccupazione e crollo delle entrate fiscali.
In Angola si sta progettando un piano di aiuti alle aziende dell’attività estrattiva, attraverso l’acquisto di diamanti locali da parte dello Stato.
In Sudafrica, un piano simile è già stato avviato ma sembra non funzioni a dovere, perché anche lo Stato punta all’acquisto al ribasso, mentre le aziende cercherebbero di vendere i minerali di peggior qualità per conservare per il futuro i pezzi migliori.
La Sierra Leone vive, invece, un momento di ottimismo: alcune compagnie che hanno sospeso l’attività estrattiva del prezioso minerale, hanno chiesto licenze per l’estrazione dell’oro, il cui sfruttamento era stato tralasciato in favore dei sassolini bianchi – i diamanti grezzi si presentano così – che garantivano profitti più alti ed anche, particolare spesso non secondario nell’industria del contrabbando, una maggior trasportabilità.
In molti Paesi esiste una filiera illegale dei diamanti, a partire dai cercatori clandestini, generalmente sfruttati dai compratori, che vivono a ridosso delle aree diamantifere o in zone dove lo sfruttamento, a livello industriale, non è conveniente.
Interi villaggi “mobili” sorgono in prossimità delle miniere di diamanti o di altre pietre e minerali preziosi, e costituiscono la base del reddito di migliaia di famiglie che ora non hanno più compratori. Il dramma è vissuto, però, soprattutto dai lavoratori delle imprese legali, solitamente pagati a giornata o a cottimo, che hanno subito l’improvviso rallentare e, in taluni casi, cessare dell’attività delle imprese, che attendono tempi migliori.
Persino i contrabbandieri hanno visto calare improvvisamente i loro proventi illeciti e, a Freetown, in Sierra Leone, il mercato clandestino richiede solo pietre tra i due ed i tre carati, le uniche che, al momento, non hanno subìto flessioni eccessive negli acquisti. E il timore è che l’esperienza dei contrabbandieri di diamanti venga deviata verso altri affari loschi.
“Chi è al margine del mercato finanziario non teme la crisi globale che ha investito il mondo” (5) .
Secondo questa tesi, sostenuta da molti finanzieri, economisti e banchieri, l’Africa avrebbe dovuto passare immune la lunga tempesta dei mercati, ma forse le cose non stanno proprio così. Dambisa Moyo, un’economista nata in Zambia che ha passato numerosi anni lavorando per Goldman Sachs, sostiene però che per i Paesi in via di sviluppo africani, questa crisi è un’opportunità. Moyo sottolinea per prima cosa che l’Occidente con la sua bassa disponibilità di capitali sta riducendo gli aiuti allo sviluppo in Africa.
Osserva poi che l’Asia – la Cina in particolare – dispone ancora di riserve monetarie considerevoli e si trova nella condizione di poter investire massicciamente, e con scarsa concorrenza, in Africa. Conclude, quindi, che il Continente africano può riscattarsi da solo perché possiede immense ricchezze e deve, quindi, rivolgersi al mercato e non agli aiuti.
È dall’Asia che giungono grandiosi progetti di sfruttamento delle risorse africane. La sud coreana Daewoo Logistics sta programmando l’affitto di un milione di ettari in Madagascar – non appena superata la crisi politica – per impiantare coltivazioni estensive da destinare all’esportazione.
L’India sta investendo 4 miliardi di dollari in Etiopia per coltivare grano e canna da zucchero.
Da Pechino è stato annunciato un prestito di un miliardo di dollari americani all’Angola per l’agricoltura, con l’intenzione di ottenere delle opzioni sull’acquisto dei cereali. La Cina ha anche trattato l’acquisto dal Senegal di 10.000 tonnellate di olio di palma, per cementare gli accordi in corso con quel paese sugli sfruttamenti minerari. Ancora, dalla Cina giunge la notizia della firma di un accordo di cooperazione economica e tecnologica con il Benin.
La Cina come abbiamo visto, sta entrando nel Continente africano con il pragmatismo che la contraddistingue nell’ambito degli affari e, per usare un termine militare, con un volume di fuoco di tutto rispetto. Un pragmatismo, tuttavia, che ha creato qualche problema politico all’Occidente impegnato nel tentativo di porre fine alla guerra sudanese del Darfur. La Cina ha infatti esercitato più volte il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per impedire l’applicazione di embarghi al Sudan; persino la missione di pace dell’ONU e l’invio di caschi blu è stato bloccato dalla Cina con l’inserimento di una clausola che prevede l’assenso del regime sudanese, che è allo stesso tempo parte in lotta.
A Karthoum, dove anche un occidentale sorpreso a bere alcolici è soggetto alla sanzione di 100 frustate, nei numerosi ristoranti cinesi, invece, è possibile bere in pubblico. Il legame tra Cina e Sudan è cementato dal petrolio, per due terzi cinese e per un terzo malese, praticamente abbandonato dalle compagnie americane in seguito all’inserimento del Paese nella lista degli Stati canaglia.
Uno dei paradossi africani è proprio la scarsità di carburanti nelle stazioni di rifornimento, soprattutto nei Paesi che sono anche produttori. Ciò accade in Sudan, soprattutto nelle regioni meridionali, ma anche in Angola e in Nigeria. Quest’ultima vende praticamente l’intera produzione di greggio all’estero, trovandosi spesso costretta ad importarlo, fatto che ha, paradossalmente, reso indispensabile l’apporto della criminalità e i furti di petrolio dagli oleodotti del paese, per il funzionamento stesso del sistema dei trasporti.
Nonostante la metà dei ventisei Paesi dichiarati “altamente vulnerabili” dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) (6) sia in Africa, la crescita prevista per il Continente africano per il 2009 è del 3%, in netta flessione se paragonato con gli anni precedenti (2008 5,6%, 2007 6,4%), ma se andiamo a leggere la previsione del FMI per la sola Africa sub-sahariana, notiamo una consistente inversione di tendenza, con una crescita del 6,7%.
Ciò non significa che vi sarà un crollo di proporzioni catastrofiche nell’Africa settentrionale, ma che – secondo molti analisti indipendenti – il FMI basa i propri calcoli sull’afflusso degli investimenti preannunciati. Gli enormi investimenti che interessano l’Africa, però, faranno sentire i loro effetti, presumibilmente, solo tra qualche anno, quando la crisi dovrebbe essere stata riassorbita, e sono in pochi a credere in una fattiva ricaduta dei benefici sulle popolazioni.
Papa Benedetto XVI, durante la tappa camerunese del suo viaggio africano, in marzo, ha diffuso il documento preparatorio del Sinodo africano in cui si afferma: “Le multinazionali continuano a invadere gradualmente il Continente per appropriarsi delle risorse naturali.

Foto Ansa
 

Schiacciano le compagnie locali, acquistano migliaia di ettari espropriando le popolazioni dalle loro terre con la complicità dei dirigenti africani”. Il testo denuncia anche le ricette neo-liberiste delle grandi istituzioni finanziarie che si sarebbero rivelate “funeste” (7) .
“Il fatto è” ricorda il giornale nigeriano Punch (8) “che i Paesi industrializzati consumano più di ciò che producono, mentre in Africa accade il contrario”. Per alcuni Paesi ricchi di risorse, paradossalmente, il PIL è costituito in gran parte di rimesse degli immigrati, ma anche queste stanno subendo una flessione.
Negli Stati Uniti, dove già nel 2007 gli invii di denaro dei lavoratori immigrati subivano un calo del 5%, si attende un’ulteriore diminuzione dell’8-10% per il 2009, sempre secondo la Banca Mondiale. I lavoratori africani negli USA – gran parte dei quali impiegati nell’edilizia – con la crisi del mattone che ha seguito quella dei mutui, sono stati tra i primi a varcare la soglia della povertà, e con loro lo hanno fatto le famiglie nei Paesi d’origine.
È ancora incerto l’impatto che la crisi avrà sui movimenti migratori africani, sebbene si stiano delineando due interpretazioni teoriche contrapposte: secondo l’una, è prevedibile il rientro degli immigrati che hanno perso il posto di lavoro, nei loro Paesi d’origine; l’altra, al contrario, profetizza una nuova ondata migratoria verso l’Occidente.
Una storia a sé è quella dello Zimbabwe. Nel 1980 una piccola guerra d’indipendenza aveva segnato la fine di ciò che restava della Rhodesia e l’allontanamento dell’ultimo “governo bianco”.
Il nuovo Presidente della Repubblica dello Zimbabwe divenne Robert Mugabe, ma la grande proprietà terriera rimase in mano ad una élite di bianchi. L’estensione media di una fattoria del secondo produttore mondiale di tabacco (dopo la Cina), era pari a metà dell’Umbria.
I veterani della guerra d’indipendenza, senza trovare nessuno ostacolo, iniziarono ad occupare le grandi fattorie, uccidendone spesso i proprietari. La situazione degenerò gradualmente costringendo portoghesi, inglesi ed anche qualche italiano ad abbandonarle.
La “riforma agraria” era così compiuta, ma i nuovi proprietari non avevano nè cultura della terra e dell’allevamento, nè la capacità di condurre aziende così gigantesche e i raccolti iniziarono a diminuire. Quello che era il maggior produttore agricolo dell’Africa era ridotto alla fame e, oggi, sopravvive solo grazie all’aiuto del Programma Alimentare Mondiale.
Lo Zimbabwe è diventato l’emblema del malgoverno, della violenza e della corruzione africana grazie anche all’inflazione che, prima degli interventi della sua Banca Centrale nel gennaio 2009, aveva raggiunto il livello record di 15 miliardi % mensile, con un tasso annuale di 516 trilioni % (si legge: 516 seguito da 18 zeri).
Mangiare un normale pasto in un ristorante costava circa 5 chili di banconote da 10.000 Zimdollars, e per questo qualche buontempone ha indossato una maglietta con la scritta “ultra miliardario morto di fame”.
I prezzi, ancor oggi tutt’altro che stabilizzati, nell’ottobre 2008 raddoppiavano ogni trenta ore. La rivolta è stata evitata grazie alla mediazione di Tabo Mbeki, allora Presidente del Sudafrica, che ha convinto Robert Mugabe, ad accettare un governo di coalizione mettendo il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai alla Presidenza del Consiglio.
Lungi dall’essere risolti, però, i problemi dello Zimbabwe – tra le liti tra le due massime cariche dello Stato e l’aumento della criminalità – rischiano di trascinare anche i Paesi vicini, Zambia e Mozambico per primi che, da molti anni ormai, soffrono dell’assenza di scambi transfrontalieri, avendo Harare quasi completamente sospeso le importazioni dai suoi vicini.
In un caso l’Africa non si limita a subire la crisi altrui, ma ne è direttamente causa. Da quando i pirati somali, che infestano le acque del Golfo di Aden, hanno intensificato gli attacchi alle navi in transito per lo Stretto di Suez, gli armatori preferiscono circumnavigare l’intero Continente.
Il costo dell’assicurazione che copra anche l’eventuale riscatto, ha ormai, superato quello di quasi due settimane di navigazione in più.
Nonostante lo sforzo e i risultati delle molte nazioni che, sotto la bandiera delle Nazioni Unite, pattugliano con navi da guerra il Golfo, il fenomeno della pirateria sta aumentando. Ciò è dovuto all’impossibilità di seguire i pirati sulla terraferma, in Somalia, il Paese più instabile ed inaffidabile dell’intera Africa.
L’Africa di oggi, quindi, non è cambiata poi molto. I rischi di incrinare la stabilità delle nazioni sono sempre gli stessi, gli indici di corruzione variano poco, di anno in anno.
Quello che è più importante, però, è che lo sfruttamento delle risorse resta saldamente in mano alle multinazionali, la cui presenza in un determinato paese dipende da equilibri commerciali raggiunti altrove, in un contesto di interconnessione globale.
E, allora, forse ha ragione Dambisa Moyo, nel sostenere che non ci sarà emancipazione fintanto che il Continente dipenderà dagli aiuti erogati dai governi stranieri. Un vincolo pericoloso che, pur garantendo la sopravvivenza di milioni di persone, continua a legarla inesorabilmente al mercato occidentale, e da oggi anche a quello cinese.


(1) “Global crisis threaten Africa stability “ in The Zimbabwe Telegraph, 20 Marzo 2009.
(2) “Zambia’s Copperbelt Reels From Global Crisis”, in The Washington Post, 25 Marzo 2009.
(3) “De Beers JV mine in Namibia to close for 3 months, Reuters, 25 marzo 2009.
(4) Rapaport (http://www.diamonds.net/news/NewsItem.aspx?ArticleID=25726).
(5) D. Moyo, Dead Aid, Allen Lane publisher, Penguin group, London, 2009.
(6) “IMF lists 26 ‘highly vulnerable’ countries” in Irish Times, 4 marzo 2009.
(7) M. Politi, “Il Papa attacca le multinazionali: Basta affari ai danni dell’ Africa” in La Repubblica 20 marzo 2009.
(8) http://www.punchng.com.

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