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GNOSIS 1/2009
La svolta politica degli Stati Uniti

Obama: una nuova stagione per arabi ed israeliani


Fawaz A. GERGES


Foto Ansa
 
Le posizioni del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama sul Medio Oriente, hanno innovato i rapporti con Israele e i Paesi arabi, soprattutto quelli interessati al conflitto che da sessant'anni coinvolge l'intera area senza che si intraveda una soluzione.
È convinzione comune che l'Amministrazione americana intende porre fine al confronto armato con un compromesso che dovrebbe consentire a israeliani e palestinesi di raggiungere le rispettive aspirazioni: la sicurezza e la fine della minaccia alla sopravvivenza, per i primi, l'edificazione di una patria e di uno Stato libero e indipendente, per i secondi.
Secondo Fawaz A. Gerges, Professore in Affari Internazionali e Studi sul Medio Oriente presso il Sarah Lawrence College, una soluzione arabo-israeliana mediata dagli Stati Uniti, allenterebbe la tensione nell'intera Regione e, soprattutto, diminuirebbe il richiamo del fanatismo religioso, mentre avvierebbe la soluzione di numerosi altri problemi che coinvolgono l'Iran, l'Afghanistan, il Pakistan e l'Indonesia.



Obama e l'attacco israeliano a Gaza

Nei primi sette anni in carica, l’Amministrazione Bush ha trascurato il processo di pace in Medio Oriente, ha sprecato un prezioso capitale politico nella cosiddetta “Guerra al Terrore Globale” e, naturalmente, ha invaso l’Iraq, innescando un conflitto che dura ormai da cinque anni. Nel frattempo, la condotta dell’Amministrazione Bush in Medio Oriente è stata contrassegnata da accesi discorsi, dall’arroganza e dall’aperto disprezzo per chi avesse opinioni diverse. I risultati, come tutti sappiamo, sono stati nel complesso catastrofici, con il prestigio dell’America, in quella Regione, ai minimi storici. Il Presidente Obama si è impegnato a cambiare tutto questo.
Dopo un inizio un po’ in sordina sull’attacco israeliano a Gaza, Obama si è immediatamente impegnato a premere per la pace in Medio Oriente e a perseguire una chiara politica di impegno con l’Iran e la Siria. Pur restando contrario a parlare del brutale conflitto a Gaza, prima del suo insediamento, il 20 gennaio, dichiarò di avere intenzione di formare una squadra diplomatica, cosicché “a partire dal primo giorno del suo incarico, fosse possibile disporre delle persone più adatte da impegnare immediatamente nel processo di pace in Medio Oriente, visto nel suo insieme”.
La squadra, secondo Obama, si sarebbe “impegnata con tutti i protagonisti sul luogo”, cosicché “ sia gli israeliani che i palestinesi potessero raggiungere le loro aspirazioni”.
Alla richiesta di spiegare meglio il suo progetto, Obama ha accennato ad un accordo di pace basato su due Stati, i cui schemi generali (la sicurezza per Israele e uno Stato funzionale palestinese) siano ampiamente condivisi dalle altre nazioni: “Credo che se si guardasse non solo all’Amministrazione Bush ma anche a ciò che accadde sotto l’Amministrazione di Bill Clinton, si potrebbero scorgere le linee generali del progetto”.
In una successiva intervista al Washington Post, pochi giorni prima dell’inaugurazione, Obama cercò di gestire le aspettative di ciò che la sua Amministrazione potrebbe inizialmente essere in grado di fare: “La maggior parte delle persone ha una buona percezione di quali potrebbero essere gli schemi di un compromesso”, facendo notare, poi, che il problema risiede nella debolezza politica di entrambe le parti. Egli ha detto di mirare a “procurare uno spazio dove si possa costruire la fiducia” e ha richiamato i suggerimenti dell’ex Primo Ministro inglese Tony Blair “di costruire qualcosa di concreto che possa essere accettabile e che la gente possa vedere”, come ad esempio una maggiore sicurezza per Israele e benefici economici per i palestinesi.
Tre sono i punti del “nuovo corso” di Obama che vale la pena di mettere in evidenza. Primo: egli ha confermato che, dal momento dell’assunzione in carica, adopererà il prestigio della Presidenza per mediare un accordo di pace arabo-israeliano, che possa soddisfare le aspirazioni nazionali sia dei palestinesi che degli israeliani.
Simbolicamente, nel primo giorno da Presidente, la prima telefonata di Obama con un leader straniero fu con il Presidente palestinese Mahmoud Abbas, con la promessa di “mettere in atto ogni possibile sforzo per ottenere la pace”, secondo il portavoce di Abbas.
L’addetto stampa di Obama, Robert Gibbs, disse che il Presidente si era messo in contatto con tutti i leaders della Regione reiterando il suo “sforzo per raggiungere l’impegno nel perseguire una pace arabo-israeliana dall’inizio del suo mandato”.
In secondo luogo, il Presidente ha sottolineato la necessità di un impegno politico “con tutte le parti sul luogo”, inclusi Iran e Siria, in contrasto con i discorsi violenti, esclusioni e minacce. Ha promesso “nuova enfasi al rispetto e alla volontà di dialogo ma anche chiarezza su quelle che sono le nostre linee di fondo”.
Nel suo discorso inaugurale, il Presidente ha promesso di migliorare i legami con il mondo islamico: “Al mondo musulmano, noi cerchiamo una nuova via in avanti, basata sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto”. Sottolineando la sua scelta per il dialogo e la chiarezza, Obama ha detto senza mezzi termini: “Coloro che si aggrappano al potere con la corruzione e l’inganno e tacitando il dissenso, sappiano di essere nel lato sbagliato della storia; ma noi porgeremo la mano a chi si mostrerà incline a schiudere il suo pugno”.
Infine, la “convinzione di Obama che l’impegno sia il punto da dove cominciare” suggerisce chiaramente una presa di distanza dalle politiche dell’Amministrazione Bush, basate sul confronto e sulla forza militare trascurando – negligenza criminale per molti di noi – il processo di pace arabo-israeliano. In quanto a retorica e contenuti, la Presidenza di Obama rappresenterà una svolta rispetto al suo predecessore.
L’attacco israeliano a Gaza è il caso di specie. Mentre Bush e la sua politica estera davano pieno supporto ad Israele senza esitazioni e a gran voce, incoraggiando azioni contro Hamas, il modo di Obama, di affrontare la questione, è stato notevolmente più sfumato. Egli, inoltre, vede la crisi in modo più ampio piuttosto che il semplicistico conflitto del bene contro il male. Ha detto che mentre Israele ha il diritto di difendersi, ha anche espresso chiaramente il suo dispiacere per la perdita di civili, quasi tutti, come sappiamo, palestinesi.
Si può obiettare che Obama avrebbe dovuto criticare l’uso sproporzionato della forza contro Hamas e quello che molti osservatori considerano violazione delle leggi di guerra. Ma questo non deve oscurare il fatto che il Presidente eletto non si è associato al coro di voci dell’establishment che, inequivocabilmente, spalleggiava la guerra di Israele; egli, piuttosto, considera il conflitto come qualcosa di natura considerevolmente più complessa, con implicazioni a largo raggio, di quanto la maggior parte dei politici abbia fatto.
La mancata pubblica approvazione di Obama delle azioni di Israele, la dice lunga sulla sua equilibrata sensibilità, considerato che il criticare Israele, a torto o a ragione, può essere considerato come la “terza rotaia” nella politica Americana. Come un navigato politico, Obama sa che deve camminare lungo una sottile linea fra il suo messaggio di cambiamento e di impegno politico, il suo supporto per Israele, che lui ha reiterato di continuo, e la sua chiara coscienza che se gli Stati Uniti vogliono far progressi nel conflitto israelo-palestinese, occorrerà che egli sia visto considerevolmente più equanime di quanto lo fosse l’Amministrazione Bush e, in effetti, ugualmente preoccupato dei palestinesi altrettanto quanto gli israeliani.
Il conflitto di Gaza e l’alto numero di vittime palestinesi, sembra aver rinforzato, in Obama, la convinzione che il fattore tempo sia essenziale e che esiste una urgente necessità di risolvere il velenoso conflitto arabo-israeliano. Ha detto con chiarezza che affronterà la crisi del Medio Oriente come una priorità.
Durante la visita in Israele e in Palestina lo scorso anno, è stato riferito che Obama abbia interrogato il Presidente Mahmoud Abbas ed i leaders israeliani sulle prospettive di accettare l’iniziativa Araba di pace proposta nel Summit arabo a Beirut nel 2006. “Gli israeliani sarebbero pazzi a non accettare questa iniziativa” disse Obama ad Abbas, secondo il Sunday Times di Londra. “Darebbe loro la pace con il mondo islamico, dall’Indonesia al Marocco”.
Nell’impostare una nuova trattativa per risolvere il multi decennale conflitto, torna a vantaggio di Obama, il fatto che, negli Stati Uniti, in particolare entro la comunità ebraica statunitense e, in misura minore, in Israele, gli atteggiamenti sono considerevolmente cambiati. Sono stati proprio i gruppi Ebraici e israeliani che, in misura crescente, hanno chiesto un modo di trattare diverso, un modo che, pur restando il sostegno per il diritto di Israele all’esistenza, considera anche essenziale la creazione di un fattibile Stato palestinese e, allo stesso tempo, non è contrario a criticare le politiche israeliane.

Foto Ansa
 

Due mesi addietro, 500 ex generali israeliani, anziani diplomatici e ufficiali dei Servizi, lanciarono una campagna per promuovere il Piano di Pace arabo presso il pubblico israeliano. In un annuncio a tutta pagina sulla stampa israeliana, i 500 funzionari anziani, capeggiati dal Maggior Generale (in pensione) Danny Rothschild, sollecitavano i loro compatrioti israeliani a “non ignorare una opportunità storica offertaci dal mondo arabo moderato”.
La Presidenza statunitense intende andare a fondo per alimentare il dibattito in Israele e sostenere le forze favorevoli alla pace contro gli estremisti e i sostenitori della “linea dura”.


Il gruppo di Obama per
la sicurezza nazionale


Per quanto i principali funzionari della squadra di Obama per la Sicurezza nazionale siano ormai noti, non può sorprendere il fatto che sia troppo presto per sapere in che modo questi tradurranno in pratica i cambiamenti o anche solo le priorità nella politica estera, anche considerando la natura necessariamente reattiva di gran parte di questa. Egli ha optato per una squadra il cui carattere sia essenzialmente centrista e non incline a cambiamenti radicali. La scelta delle figure istituzionali per questi ruoli suggerisce che un totale cambiamento nella politica estera è improbabile. D’altro canto è chiaro che Obama, in quanto Presidente, non delegherà ad altri il compito di stabilire gli indirizzi politici e non trascurerà le cose che lui considera importanti. Ad una recente conferenza stampa, ha affermato che lui innalzerà la bandiera del cambiamento nella Casa Bianca e ne sarà la sua forza trainante.
Per prima cosa e di primaria importanza, cercate di capire da dove proviene la idea del cambiamento” ha detto ai giornalisti. “Viene da me. Questo è il mio lavoro: dare un indirizzo per stabilire in che direzione muoversi e assicurarmi che la mia squadra traduca in pratica le mie direttive”.
Naturalmente Obama ha ragione ma resta il pericolo che, fra gli interessi contrapposti delle segreterie del suo Governo e le scelte politiche che essi portano avanti, qualcosa del suo programma possa perdersi.
Esiste anche il dubbio che, per quanto Obama possa voler apportare immediatamente dei cambiamenti radicali in politica, ciò non sarà fatto. Egli sa bene che non solo dovrà operare in stretto contatto con il Congresso, ma dovrà corteggiare i gruppi di potere e portare degli argomenti convincenti. Così, nei tempi brevi, ci si può aspettare che l’America riprenda a seguire la rotta realistica che ha caratterizzato le sue relazioni internazionali dalla fine della II Guerra Mondiale fino all’11 Settembre del 2001 piuttosto che seguire una rotta non ancora tracciata. La politica estera di Obama, in gran parte, seguirà il percorso tracciato dall’Amministrazione Clinton, riprendendo una politica di forza e di interesse nazionale, con una più marcata enfasi per i diritti umani, la supremazia della legge, stretti legami con gli alleati e amici e maggior supporto alle organizzazioni internazionali.
La “potenza intelligente” dell’America, un misto di diplomazia, misure di difesa, relazioni economiche ed altri strumenti di politica nazionale, saranno usati appieno in tutto il mondo. In altre parole, la diplomazia, piuttosto che il militarismo, saranno la punta avanzata della politica estera di Obama, con interventi militari possibilmente impiegati solo quando ogni altro mezzo sia fallito.


Le priorità di Obama in politica estera?

Per il Presidente, l’Iraq è importante per motivi sia di immagine che politici, come anche per necessità fiscali. L’America spende oggi circa $ 148 miliardi in Iraq ogni anno, una somma sbalorditiva in ogni economia ma devastanti in una economia appesantita da una grave recessione. Alla disperata ricerca di risparmi per finanziare i suoi grandi piani di ripresa economica, pagare gli aumenti di spesa nel teatro Afghano e Pakistano e, allo stesso tempo, frenare le spese di governo, Obama è ben consapevole che i costi per l’Iraq debbano essere ridotti drasticamente e che, allo stesso tempo, sia la stabilità nella Regione sia il prestigio degli Stati Uniti, poggiano, in larga misura, su un buon risultato in Iraq.
Nel suo primo giorno in carica, Obama riunì la sua squadra per la sicurezza nazionale e, da quanto riferito, sottolineò il suo desiderio, come promesso in campagna elettorale, di far tornare le truppe dall’Iraq per l’estate del prossimo anno.
Tuttavia, la fine della missione militare in Iraq non produrrà cambiamenti sostanziali nel panorama della Regione e non basterà da sola a ricomporre le divergenze fra l’America e il mondo islamico. Se l’immagine di Obama (compreso, forse, il fatto di essere visto come l’anti Bush), il suo programma e la simpatia personale possono, nel complesso, dare un grande vantaggio, potrebbero non fare decisiva differenza nell’affrontare quelle situazioni in Medio Oriente che sono particolarmente difficili.
Ma né un’immagine popolare, né cambiamenti di atteggiamento saranno sufficienti; solo provvedimenti che portano risultati condurranno a quei cambiamenti che sono necessari per il Medio Oriente.


Il cambio di gioco: un accordo di pace arabo-israeliano?

Il processo di pace arabo-israeliano rappresenta il punto in cui l’indirizzo di Obama può costituire una differenza cardinale per ripristinare il prestigio dell’America, la sua reputazione e la capacità di esercitare influenza su altri popoli. Ma vorrà Obama puntare su un cambio di gioco aiutando a mediare un accordo omnicomprensivo fra arabi ed israeliani e rompendo la barriera psicologica fra i musulmani e gli ebrei e i musulmani e gli occidentali? Questo non significa che il successo è garantito e il rischio è minimo. Israele e gli Stati Uniti opporranno una fiera resistenza contro ogni sforzo di creare un vero Stato palestinese. Se la maggioranza in Israele e la maggioranza degli ebrei americani sono ora favorevoli alla creazione di uno Stato palestinese, vi sono ancora tante opposizioni molto influenti. Per alcuni di questi, i razzi di Hamas da Gaza sono una prova che uno Stato palestinese produrrebbe nuovi conflitti. Ma anche con la miglior volontà di veder nascere uno Stato palestinese, restano un gran numero di spinosi ostacoli da affrontare.
Con l’intenzione di mediare una pace arabo-israeliana che non sia un pio desiderio o un mero esercizio accademico, i consiglieri esperti di Obama, Daniel Kurtzer in particolare, un ex ambasciatore in Israele ed Egitto, e Zbigniew Brzezinski, un tempo consulente per la sicurezza nazionale, gli hanno riferito, secondo fonti di informazione, che il tempo è maturo per mediare un ambizioso accordo di pace fra arabi e israeliani nei primi sei o dodici mesi dall’investitura presidenziale, quando ha il favore della massima popolarità.
Secondo resoconti dati alle stampe, in una memoria scritta da Kurtzer, egli sostiene che due recenti fattori hanno cambiato il panorama geo-strategico della Regione, rendendo le prospettive di pace più promettenti: 1) gli Stati arabi a predominanza sunnita temono che finché il conflitto arabo-israeliano resterà insoluto, l’Iran avrà il vantaggio dovuto al risentimento fra i loro cittadini e, così, sono tutti ansiosi di raggiungere un accordo; 2) poiché la nascita dell’islamismo militante rappresenta una minaccia per i governanti arabi pro-Occidente e per la stabilità della Regione, esiste un maggior impulso verso un accordo che possa ridurre il fanatismo religioso.
Nonostante il fatto che Israele abbia commesso un grave errore nell’attaccare Gaza, questo fatto potrebbe, paradossalmente, creare una vera opportunità per una soluzione al più che sessantennale conflitto Medio Orientale. Quando la polvere sarà sedimentata sulle distruzioni di Gaza, ancora una volta i leaders israeliani si renderanno conto che la sola forza militare non è in grado di garantire la sicurezza del loro Paese. Benché lo Stato ebraico possieda la superiorità militare su tutti i suoi confinanti arabi e abbia spesso lanciato il suo poderoso arsenale (prodotto in U.S.A.) contro di essi, Israele non ha né spezzato la volontà dei suoi nemici, né ha ottenuto pace e stabilità per lunghi periodi. Forse, tuttavia, anche Hamas dovrà riconoscere che il benessere del popolo palestinese reclama una fine del conflitto e un accordo che sia visto, come minimo, rivolto a soddisfare le loro necessità fondamentali.
L’uso brutale e sproporzionato della forza, da parte di Israele, in Libano nel 2006 ed ora a Gaza, mostra chiaramente il fallimento, su un lungo periodo di tempo, della sua dipendenza dalla potenza militare. Il danno alla sua immagine morale nel mondo e l’aumentata ostilità da parte di molti libanesi, palestinesi e, in verità, da parte del mondo islamico, non può che danneggiare lo stesso Israele. Uccidere un gran numero di palestinesi ed altri arabi non porterà alcuna sicurezza a Israele.


Obama potrebbe dover salvare Israele da se stesso

Un importante cambiamento è avvenuto nel mondo arabo per un accordo di pace con lo Stato di Israele. Esiste ora un consenso fra governanti arabi per i quali la soluzione al conflitto si trova nella formula “pace contro territori”, che significa che Israele deve ritirarsi dai territori arabi occupati nel 1967, compresa la parte Est di Gerusalemme, in cambio del riconoscimento diplomatico da parte di tutti gli Stati arabi e la fine delle ostilità.
In modo sorprendente, alti dirigenti israeliani hanno finalmente cominciato a vedere i meriti e i benefici del piano arabo di pace proposto dall’Arabia Saudita al Summit dei Paesi arabi nel 2002 e accettato da tutti gli Stati arabi in Beirut. I maggiori leaders del partito laburista e Kadima, compreso il Primo ministro Ehud Olmart, il ministro della Difesa Ehud Barack, il ministro degli Esteri Tzipi Livni e il Presidente Shamon Peres, hanno recentemente dichiarato la loro approvazione dell’iniziativa araba di pace complessiva. Tuttavia quei leaders, nell’approvare una guerra fino alle estreme conseguenze contro Hamas in Gaza, ben potrebbero aver danneggiato gli sforzi da ambo le parti per raggiungere un accordo di portata storica.
È probabile che, senza le pressioni degli Stati Uniti, manifestate dallo stesso Presidente, Israele non farà le dolorose concessioni (ritiro dai territori occupati e smantellamento della maggior parte degli insediamenti) che sono essenziali per una soluzione, non fosse altro perché molti dei “duri” israeliani sanno bene che il sostegno degli USA a Israele è indispensabile.
Data l’importanza del ruolo degli US in qualsiasi negoziato per un accordo di pace, non è da meravigliarsi che ne sia venuta, di conseguenza, la formazione di una squadra incaricata della ‘pratica’ arabo-israeliana. Tra le personalità: Dennis Ross, (ex inviato per il Medio Oriente durante le amministrazioni Clinton e Bush); Martin Indyk, (ex US ambasciatore in Israele), Dan Kurtzer; Jim Steinberg, (probabili Vice Segretari di Stato), Dan Shapiro, (per molto tempo aiutante di Obama) e Richard Haass (ex stratega del Dipartimento di Stato nella amministrazione Bush ed ora capo dell’importante Consiglio per le Relazioni estere).
Avendo raggiunto il massimo nelle loro carriere, è da chiedersi se questi personaggi sapranno adoperarsi con equità, tanto da potersi guadagnare la fiducia dei palestinesi e, ancora, se saranno capaci di agire nel ruolo di onesti mediatori. Né Ross, né Indyk sono da considerarsi equanimi; per entrambi la sicurezza di Israele prevarica ogni altra questione. Il loro ruolo al tempo dell’Amministrazione Clinton lasciò molto a desiderare. D’altro canto, Kurtzer, che conosce bene sia il mondo arabo che Israele, è visto come accettabile da entrambe le parti, inclusi i palestinesi. Haass è un pragmatico di lungo corso.
Sarebbe sperabile che sia Obama che Clinton si rendessero conto che, nel processo decisionale, la necessità di equità è fondamentale. Esiste il timore che la versione israeliana storicamente dominante nelle decisioni degli Stati Uniti continuerà a impedire le possibilità di Washington di perseguire un efficace ed equilibrato percorso verso il processo di pace arabo-israeliano. Finché la politica mediorientale degli Stati Uniti sarà vista, dai palestinesi in particolare, come fortemente condizionata in favore di Israele, gli sforzi americani di mediare una pace permanente saranno condannati al fallimento.
Per raggiungere un risultato, Obama deve conservare l’indipendenza di giudizio ed esercitare considerevole pressione su Israele. Da Presidente, deve anche impegnare le correnti favorevoli alla pace sia in Israele che negli USA.
Benché la scelta di Obama di nominare Hillary Clinton come Capo della diplomazia abbia ridotto l’ottimismo nel mondo arabo, le opinioni di quest’ultima in politica estera in generale sono quasi identiche a quelle del Presidente eletto. Non c’è dubbio che la Clinton, fra i politici U.S., abbia espresso recentemente alcuni dei giudizi più fortemente a favore di Israele, ma è anche vero che nessun senatore di New York potrebbe fare diversamente. Lei è stata la prediletta dell’AIPAC, per esempio, e non ci sono dubbi che, finché sarà in quel posto, continuerà a sostenere Israele. Si può solo sperare che, come Segretario di Stato, possa assumere una posizione più equilibrata.
Un punto deve essere chiaro: Clinton non si oppone a un accordo basato sulla soluzione di due Stati e, certamente, si comporterà come un membro della squadra. Lei porterà avanti diligentemente qualsiasi politica su cui Obama avrà preso la decisione.
Invero, come detto molte volte, Obama dovrebbe spingere immediatamente per un accordo onnicomprensivo arabo-israeliano che possa trasformare le politiche arabe e islamiche e i rapporti dell’America con quella parte del mondo.
Per molti arabi e musulmani, la ‘questione palestinese’ è un problema di identità, condizionato dal senso di impotenza e ingiustizia.
È una ferita psicologica aperta che ha radicalizzato e militarizzato la politica araba ed è stata una forza destabilizzante nell’intera Regione. Da Nasser a Hafez Assad, Saddam Hussein e Bin Laden, la Palestina è stata un grido di battaglia, frequentemente usato per altri scopi.
Israele è, in sostanza, considerato come la fortezza dell’Occidente nel cuore dell’Islam, simile alle fortezze dei crociati, e la sua occupazione di terre musulmane è un continuo richiamo alla dominazione e sottomissione Europea ed ora Americana di arabi e musulmani.
In particolare, gli USA sono considerati responsabili perché consentono a Israele di opprimere ed umiliare i palestinesi. Forti sentimenti anti-americani nascono, in gran parte, dal conflitto arabo-israeliano da lungo tempo in fermento. Come Presidente, i rischi relativamente modesti che Obama correrebbe nell’operare per un durevole accordo, sarebbero certamente convenienti in vista dei possibili enormi vantaggi che ne deriverebbero.
Una soluzione arabo-israeliana mediata dagli USA, e la creazione di uno Stato palestinese indipendente, allenterebbe la tensione nell’intera Regione, faciliterebbe un accordo politico con Iran, Siria e altri Paesi, diminuirebbe il richiamo del fanatismo religioso e sarebbe di grande ausilio nel mettere sul giusto percorso la soluzione di moltissimi altri problemi, dall’Afghanistan e il Pakistan al Sahara Ovest e all’Indonesia.
Forse ancora più importante di tutto, un accordo di pace porterebbe la fine delle sofferenze croniche, della povertà e dell’agonia dei palestinesi; porterebbe la sicurezza durevole ad Israele e renderebbe possibile la trasformazione economica e politica del Medio Oriente.
Obama potrebbe passare alla storia come l’uomo che portò la pace nella Terra Santa. Avrà egli il coraggio morale, l’abilità diplomatica, l’acume politico per trasformare la politica statunitense nel Medio Oriente? Solo il tempo potrà dirlo.

Hillary Clinton e Mahmoud Abbas


Foto Ansa



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