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GNOSIS 1/2009
Dalla Guerra Fredda ai giorni nostri

Deterrenza e proliferazione: l'intreccio perverso


Mario Rino ME


Foto Ansa
 
Se parlare di “Deterrenza” o, come dicono i francesi, di “Dissuasion”, poteva sembrare un concetto abbastanza chiaro durante la Guerra Fredda, nel senso che l’equilibrio nucleare fra Oriente e Occidente comportava il timore della rappresaglia, oggi tutto si è fatto più complicato.
L’analisi di Mario Rino Me presenta la questione, nella sua accezione moderna, con tutte le sfaccettature che comporta e, soprattutto, allarga la visione e la dimensione stessa della Deterrenza.
Di pari passo, però, “proliferano” i livelli di rischio che non sono più semplicemente collegati alla minaccia nucleare, ma si estendono al “default” economico di interi paesi, al terrorismo internazionale e alla presenza della grande criminalità, oltre alle crisi di area. Da qui una nuova e più aderente visione dell’idea di “Deterrenza”.


Premessa

La Deterrenza, dopo un periodo di oblio, riaffiora nelle prese di posizione sul nucleare di illustri personaggi statunitensi e tedeschi. Una tematica non di certo nuova, giacché Sun-Tzu nel quarto secolo a.C. aveva già attribuito a quella che oggi potremo definire Deterrenza, la più alta espressione della strategia, di gran lunga preferibile al successo sul campo di battaglia. Un successo condizionato, tuttavia, dal presupposto di “conoscere il nemico e se stessi (1) ”. Materia dunque inscindibile dalle politiche di sicurezza, assurta nella Guerra Fredda a posizioni che Henry Kissinger riassume, oggi, in questi termini: “l’era nucleare ha ridotto la strategia alla Deterrenza e la Deterrenza a un esercizio intellettuale esoterico”. Come vedremo nella trattazione, abbiamo a che fare con una materia contrastata sin dalle sue rappresentazioni. Dal punto di vista semantico, il termine si presenta come un neologismo, derivato dall’inglese "deterrent", a sua volta derivato dal latino deterrere (2) , che, nei dizionari della lingua inglese e italiana (Webster, Chambers, Treccani) è espresso come: “armi tanto potenti da distogliere il nemico da propositi di aggressione”. Nel lessico francese (Larousse) questa definizione trova il corrispettivo nel termine “dissuasion”. Già dall’incipit queste diverse tonalità nella scala degli effetti nel campo coscienziale danno luogo a diverse rappresentazioni dello stesso concetto, con possibilità di malintesi. Nel lessico militare dello Stato Maggiore Congiunto USA, troviamo una definizione più compiuta, ovvero: “far recedere dall’azione per paura delle conseguenze. La Deterrenza é uno stato mentale generato dall’esistenza di una credibile minaccia di ritorsioni (dalle conseguenze) inaccettabili”. La Deterrenza abbraccia dunque molteplici aspetti, che la rendono complessa, e si declina in varie dimensioni, dalla politica, alla tecnologia, strategia/dottrina e alle scienze socio-psicologiche. Ma vi sono anche ripercussioni sul piano morale e giuridico.
Quanto poi alla sostanza, il fatto di aver a che fare con il potere di influenza sui processi decisionali attraverso l’uso e/o la minaccia della forza, la rende come una sorta di tabù. Non c’è dunque molta propensione a parlarne; per assurdo dunque, come osserva Peter David, editorialista di politica estera dell’Economist (3) : “il solo parlarne potrà avere ripercussioni pratiche”. In effetti spira un’aria nuova e come di consueto nei grandi eventi, l’inizio potrebbe appunto presentarsi sotto forma di mormorio.


Il contesto

Gli avvenimenti di questi ultimi mesi, nonostante i temporanei bagliori di quelle che, con sottili distinguo, vengono chiamate operazioni militari (in Georgia, nella Striscia di Gaza etc...), ci portano a considerare che si è pervenuti, se non proprio al capolinea, a snodi cruciali di cicli storici [guerre per scelta, supremazia (non leadership n.b.) occidentale] e si è agli inizi di qualcosa di nuovo (4) . Nel suo divenire, il paradigma della sicurezza dà, ora, risalto all’ottica dell’economia, riconosciuta da più parti come la forza politica di maggior peso. Difatti, da una parte, i Governi si concentrano sempre più sullo sviluppo/benessere (ci si muove dunque in un quadro di “human security”), dall’altra, l’intreccio su scala globale delle relazioni economico-industriali contribuisce ad attenuare le situazioni di crisi. E in un contesto, quale l’attuale, di volatilità e incertezza, non è poco. Per dirla come Thomas Friedman, si intravede “un mondo in cui diplomazia e regolamentazione multilaterali non saranno più una scelta, bensì una realtà e necessità”. D’altronde, le conseguenze di quello che, oltreoceano, viene definito “spostamento strutturale in pieno sviluppo”, sembrano aver innescato un processo graduale (natura non facit saltus) ma irreversibile di ridistribuzione del potere mondiale.
Mentre J. Attali, parla, in prospettiva di “hyperdémocracie”, Fareed Zakaria (5) , riferendosi alle potenze emergenti parla di “ascesa del resto”, “non più oggetto o spettatore, ma attore e conclude: è la nascita di un vero ordine globale”. In sintonia, le proiezioni del National Intelligence Council di Washington, prefigurano un sistema multipolare globale. In questa prospettiva, le strategie di proiezione della stabilità seguite a cavallo del secolo (6) , non possono più prescindere dalle percezioni di sicurezza delle controparti e dalle realtà immanenti del potere/territorio. Ad esempio, la complicata partita che si gioca attualmente nell’Asia Centrale, ponendo sotto tensione le relazioni tra due potenze nucleari regionali, evidenzia due aspetti: da un lato, il perdurare delle realities di potere della geopolitica, che possono rendere ingannevole anche un regime di stabilità, dall’altro, l’esigenza di un approccio collaborativo alla sicurezza, come diretta conseguenza di quella che Kenneth Waltz, già dal ‘79, definiva ”la parola d’ordine dell’interdipendenza (7) ”. E, come riconosciuto da tutte le parti, un quadro istituzionale di collaborazione può far sì che le situazioni di tensione non sfocino in crisi vere e proprie. Ma per poter operare in efficacia, le cornici internazionali o multi-polari richiedono il sostegno di attività di mediazione e negoziazione.
Le analisi formulate dalla NATO e dall’Unione Europea (UE), mettono in risalto una generale condivisione della diagnostica securitaria. Tanti sono gli elementi salienti a fattor comune. Intanto, il carattere transnazionale della tassonomia delle sfide, rischi e minacce, in un contesto in cui le barriere, anche geografiche, non sembrano proteggere più come prima. Nella fattispecie, esse collocano il terrorismo transnazionale in cima alla lista delle preoccupazioni, in relazione alla sua capacità di porre una sfida strategica alla Comunità Internazionale per portata, letalità, modus operandi. A questo proposito, R. Cohen, globalist dell’International Herald Tribune (IHT) osserva che le parole di Barack Obama, segnano la fine della controversa “guerra al terrorismo (8) ”, ora derubricata a sfida (e il linguaggio che si usa conta davvero). Il terrorismo è seguito dalla proliferazione di “armi di distruzione di massa” (infelice definizione, nota con l’acronimo WMD (9) ), gli “Stati falliti”, la criminalità organizzata, le ripercussioni dello stato di salute del pianeta (mutamenti climatici, sostenibilità sviluppo) nonché le evoluzioni nei campi del politico-sociale (governance, demografia etc). Nel merito della minaccia più immediata, il terrorismo, per l’appunto, si è registrato un generale aumento delle attività delle cellule e dei gruppi radicali, le cui manifestazioni più significative spaziano dall’Africa Occidentale all’Asia Centrale. Di solito, però, dietro gli esecutori si celano burattinai esterni che perseguono precisi obiettivi, come hanno dimostrato i recenti attacchi coordinati di Mumbai e Lahore. Piani a sfondo terroristico, scoperti qua e là, confermano, inoltre, che il terrorismo rimarrà una forma di lotta appetibile, che la sicurezza non può essere compartimentata e che sicurezza interna ed esterna sono inscindibili.
Nel merito della tematica degli “Stati falliti” o sull’orlo di esserlo, l’ex Segretario di Stato, Condoleza Rice, ha più volte dichiarato, nella fase finale del suo mandato, che: “la minaccia principale proviene, ora, dagli Stati deboli, più che da potenze nemiche”. Invero, dopo il crollo di sistemi autoritari, è proprio il vuoto di potere e la fragilità delle nuove strutture a destare non poche preoccupazioni. Quanto poi alla galassia delle associazioni per delinquere, è acquisito che la criminalità organizzata, oltre a rivelarsi difficile da debellare dove è radicata, prospera bene nell’instabilità delle Nazioni fragili.
Crisi economica, accesso garantito alle risorse energetiche e ad altri elementi vitali [materie prime ma anche alimentari (ndr non a caso si inizia a parlare di food security)] si possono configurare come prossime sfide strategiche. Nella dimensione dei mercati, le commodities energetiche si rivelano come un vero e proprio enigma. È però certo che le apprensioni che abbiamo vissuto l’estate scorsa sembrano un’anteprima di ciò che ci aspetterà nell’immediato futuro. La diminuzione delle risorse è reale. Per questo motivo, molte Nazioni sono pervenute alla determinazione di diversificare le fonti e, tra l’altro, di aumentare il parco delle centrali esistenti, riprendere o intraprendere la via del nucleare.
Nel mondo della proliferazione (che comprende le componenti: nucleare, radiologica, batteriologica e chimica, NRBC, nonché tecnologie associate), l’attuale contesto è caratterizzato da due opposte tendenze: da un lato, le Nazioni del sistema Euro-Atlantico, nel ripensamento ed adeguamento dei dispositivi militari post-Guerra Fredda, hanno ridotto il ruolo delle armi nucleari e rinunciato al possesso di armi batteriologiche e chimiche; dall’altro, è acclarato che un certo numero di Paesi cerchi di acquisire, soprattutto le prime, nei propri arsenali. Difatti, nonostante l’irrigidimento delle norme internazionali in materia, sia le barriere a lato dell’offerta sia quelle a lato della domanda, sembrano risentire dell’erosione del tempo. Lo dimostra il rapido diffondersi di materiali “fuori-legge”, che costituisce una prova lampante dell’esistenza di crepe nell’architettura del regime globale di controllo. Per di più, il prevedibile aumento della domanda per materiali e tecnologie nucleari potrebbe intrecciarsi con le problematiche della proliferazione ingenerando ulteriori rischi. M. El Baradei, Presidente dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), nel suo recente rapporto annuale, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (NU), denunciando un numero alquanto elevato di “nuclear thefts”(circa 600 nel corso dell’anno in esame, n.d.r.), ha ammesso che: “la possibilità che terroristi ottengano materiali di natura nucleare o radioattiva, costituisce una minaccia ed è parimenti sconcertante il fatto che gran parte del materiale trafugato non sia stato ritrovato”. Espressioni della volontà internazionale di contrastare il fenomeno, come la Proliferation Security Initiative (PSI), cercano di porre rimedio al fenomeno.
Per ironia della sorte, gli “assetti tossici” dei “subprime“ e derivati, colpendo duramente l’economia reale, si sono rivelati delle vere e proprie “armi improprie di effetto di massa”.


La situazione

A detta di William J. Broad, il fenomeno della proliferazione è stato anticipato da uno dei padri dell’atomica, R. Oppeneimer, come una sorta di inevitabilità tecnologica. Da tempo, le valutazioni dell’Intelligence degli Alleati continuano a evidenziare che un discreto numero di Paesi ripone un certo interesse nell’acquisizione di armi “non convenzionali”, associabili, se non proprio alla superiorità strategica, quanto meno agli effetti massivi. Alcuni di essi, inoltre, possiedono o sono attivi nella ricerca di mezzi di rilascio basati su missili di tipo balistico, cui i missili da crociera possono fornire, nel breve termine, un’alternativa a basso costo per mezzi di lancio precisi e a lunga gittata. L’accoppiata armi/vettori missilistici potrebbe diventare una delle opzioni disponibili per quegli Stati che, per percepite esigenze di sicurezza (vere o immaginarie) oppure spinti da politiche aggressive, mettono in discussione lo “status quo” regionale. Lo scenario si complica allorquando le politiche di cui sopra riguardano aree di primario interesse strategico per l’accesso e il flusso regolare degli approvvigionamenti di risorse, vitali al funzionamento dell’economia globale. Sussiste anche il rischio che entità non statuali, ad es. il terrorismo internazionale, come peraltro richiamato dalla Risoluzione 1540, possano acquisire, trafficare o usare la gamma di materiale NRBC (10) . Di qui il pericolo che mezzi di trasporto civili (aerei, navi, camions, etc.) possano essere utilizzati come vettori di ordigni di effetto di massa (bombe sporche, etc.).
La prevenzione della proliferazione mediante sistemi tradizionali (diplomazia della “dissuasione”, regimi di controllo sull’export sul lato offerta e garanzie di sicurezza dal lato della domanda) è dunque un elemento ancora essenziale nella risposta a questo genere di minaccia. Tuttavia, occorre tenere presente che la crescente disponibilità di tecnologia dual-use, la diversificazione dei fornitori, possono costituire valide alternative ai potenziali “proliferatori’ (11) . La stessa comunità scientifica occidentale, riconoscendo l’infondatezza di alcuni luoghi comuni, come ad esempio la facilità di costruzione/assemblaggio di ordigni sofisticati (12) etc., ha più volte lanciato segnali allarmanti sulle conseguenze della proliferazione, dietro la quale sembra oramai acclarata la longa manus degli Stati (13) . Il che conferisce una complessa dimensione istituzionale e multinazionale al fenomeno; non a caso, il Presidente Obama ha definito la diffusione del materiale nucleare come “la più grave minaccia con cui abbiamo a che fare”.

Foto Ansa
 

La politica nucleare è quella su cui, per vari motivi, (non ultimo emotivi) si concentra l’attenzione generale. Se in Occidente si discute in termini di utilità e legittimità, Stati come Iran, Corea del Nord intravedono, dai rispettivi punti di vista, i vantaggi geopolitici e geostrategici nel possedere armi nucleari. Questi sono riassumibili nella frase di un ex Capo di Stato Maggiore della Difesa indiano: “una delle principali lezioni della Guerra del Golfo del 1991 risiede nel fatto che se uno Stato intende confrontarsi con gli USA, deve evitarlo finché non possiederà armi nucleari”. Questo teorema, che accredita la validità della Deterrenza “on the chip”, appare in realtà riconducibile alla precedente teoria, formulata dal Gen. Gallois e così sintetizzabile: “Una Deterrenza ai minimimi termini costituirà di certo la forma più economica ed efficace di Difesa Nazionale”. Naturalmente, la formulazione riflette, per certi versi, la logica delle cosiddette potenze nucleari di secondo rango della Guerra Fredda (Regno Unito, Francia e in seguito Cina). Queste ultime, non potendo disporre dei mezzi per le cosiddette “tattiche di controforza (14) ” (distruzione preventiva delle armi, costosa e incerta alla luce delle contro-tattiche di sopravvivenza), concentrarono le risorse sulla capacità di rappresaglia e sulla protezione fisica contro gli effetti delle esplosioni. Nel caso della force de frappe francese, la potenza dissuasiva, anche contro il più forte, veniva quantizzata dal Gen. De Gaulle con il ricorso all’analogia anatomica “gli si può comunque strappare un braccio”.
In quell’epoca, le armi nucleari, nel quadro di quella che veniva definita “default strategy”, furono associate al rango di armi di sopravvivenza nazionale. La teoria della Deterrenza era incentrata sull’approccio punitivo, che portò all’equilibrio del terrore della Mutual Assured Destruction (MAD) e all’accettazione della vulnerabilità a questo genere di offesa. Il principio di base poggiava sull’assunto di poter sopravvivere al colpo iniziale con un numero di testate residue, tale da garantire il successo della ritorsione; il che, come vedremo in seguito, contribuì a portare la consistenza degli arsenali delle 2 superpotenze a cifre di tutto riguardo. Si trattava, dunque, di un equilibrio delicato che non poteva sopravvivere a lungo, giacché, come noto dalla teoria dei sistemi, un clima di forte tensione non giova al mantenimento della stabilità. Per questo motivo, a partire dalla prima crisi del gap missilistico (Cuba), fu messo in piedi un complesso sistema di cooperazione-consultazione e controllo (tra cui il famoso telefono rosso) che agevolò la gestione di complesse situazioni di tensione. Per ironia, la recente crisi russo-georgiana ha messo in luce che oggi il colloquio diretto russo-statunitense é meno frequente e articolato di quello dei tempi della Guerra Fredda.
Il Concetto Strategico NATO dell’aprile 1999 descrive l’evoluzione del contesto di Sicurezza in termini non del tutto rispondenti ad oggi. La NATO ha ridotto il suo affidamento sulle forze nucleari il cui scopo rimane politico, nell’ambito di una strategia di war prevention non più dominato dalla possibilità di escalation nucleare (15) . In esito alla ristrutturazione della postura nucleare, l’Alleanza ha a disposizione armi USA, lanciabili da aerei certificati e definite sub-strategic (16) , unitamente alle armi delle ogive Tridentdella componente sottomarina della Gran Bretagna. La dottrina ufficiale USA attribuisce alle armi la capacità di “fornire opzioni militari credibili ai fini della Deterrenza di una vasta gamma di minacce, comprese le WMDs e imponenti forze convenzionali (17) ”.
Gli eventi dell’11-9-01 hanno fatto evaporare l’effetto Deterrenza delle superpotenze a fronte di una gamma di sfide più complesse. Da qui la necessità di adattarla alle nuove minacce. Nell’articolazione della strategia, le linee di indirizzo seguite dagli USA hanno interessato più direttrici: non-proliferazione (rafforzamento del sistema soft per prevenire la proliferazione e l’acquisizione di WMD), sistemi di difesa attivi (come lo scudo contro missili balistici, esteso anche alla NATO) e passivi (sostanzialmente capacità di consequence management), contro-proliferazione (possibile uso di mezzi coercitivi, comprensivi di operazioni covert) epreventive diplomacy. Parimenti, i requisiti dell’intelligence sono stati attagliati all’esigenza (di massima conoscenza della “cultura” della classe dominante, tratti personali, etc. (18) ). Infatti, la natura dinamica della proliferazione si presta, in assenza di intelligence, ad amare sorprese strategiche (progresso nei programmi, ampiezza e sofisticazione del mercato nero dei materiali); ma anche l’intelligence ha i suoi limiti, per cui persiste la possibilità di imprevisti. Quanto agli stati di approntamento delle forze strategiche, si è fatta strada la tendenza a calibrare il tempo di prontezza operativa adattandolo alle dinamiche del contesto strategico.
Ciò in quanto il maggiore tempo intercorrente tra la decisione di impiego di dette armi ed il lancio effettivo, oltre ad aggiungere tempo utile alla gestione della crisi, può anche contribuire ad attenuare la probabilità di lancio accidentale non autorizzato (19) (. Infine, nel quadro della rivitalizzazione dei sistemi di controllo, sono state individuate nuove formule di interdizione (quali ad esempio la citata Proliferation Security Initiative(PSI) (20) , diplomazia aggressiva (21) , nonché misure di “Homeland Security” per quanto attiene vie di proliferazione dei materiali/possibilità di rilascio dell’offesa con mezzi di trasporto convenzionali. Per quest’ultimo aspetto va rilevato che la minaccia, nella dimensione marittima, può essere contenuta mediante operazioni di interdizione (questo è in sintesi lo scopo di Enduring Freedom/Active Endeavour) supportate da scambi di informazioni in tempo reale/near real time (22) , tendenti a trasformare il mare in un ambiente controllato, a similitudine dello spazio aereo.
Tuttavia occorre ammettere che la complessità del fenomeno fa sì che non vi siano silver bullets.Vi sono difatti limitazioni oggettive e soggettive. In mare, ad esempio, la connotazione giuridica di coalition of the willing su impianto non coercitivo; su terra, poi, non può che basarsi sulle organizzazioni di Polizia e sui collegamenti orizzontali tra di loro.
Tornando ad oggi, si può ipotizzare che nell’ottica di qualche Nazione, in Asia/Medio-Oriente, aspirante all’arma nucleare, il possesso o la minaccia di utilizzo di questa tipologia di armamento, anche di potenza relativamente ridotta (low-yield), possa servire, in situazioni di fait accompli, ad esercitare un potere di Deterrenza e condizionamento/coercizione “regionale” nei confronti di interventi riparatori della Comunità internazionale. Ad esempio, i Paesi interessati sembrano percepire il valore strategico di queste armi, come minaccia verso i diretti antagonisti regionali, ed il coinvolgimento diretto nello scacchiere di attori globali, fino ad ipotizzarne, a scopo intimidatorio, anche l’uso a livello tattico. È ben vero, tuttavia, che esse potrebbero indurre a considerare, sulla base di certe dottrine di sicurezza nazionale, un’azione preventiva (la stampa ha divulgato la notizia che Israele avrebbe colpito, in Siria, una struttura associabile a facility nucleare e che il 43° Presidente degli USA si sia opposto a un raid preventivo israeliano contro le installazioni iraniane a Natanz).
Col passare del tempo, il formato del club nucleare si è, però, allargato: da un lato, i 5 membri “ufficiali”, peraltro componenti permanenti del Consiglio di Sicurezza (23) , sono ora affiancati da 3 “non ufficiali”(Israele, India e Pakistan); dall’altro gli sforzi per fermare la Corea del Nord sembrano falliti. Per cui, in caso di fallimento nella gestione del dossier nucleare iraniano (24) pare altrettanto difficile prevenire che Paesi come l’Egitto e l’Arabia Saudita (per citarne alcuni) mettano in cantiere programmi nucleari, accrescendo quindi i livelli di rischio. Quanto poi agli arsenali nucleari, le stime sulla consistenza degli stockpiles rivelano numeri di tutto rispetto. In un articolo del 2005 su Foreign Policy, Robert Mc Namara, nel criticare la politica seguita fino ad allora dalle varie Amministrazioni (25) , tira le somme agli azionisti del club, con cognizione di causa. A fronte delle “4500 testate strategiche americane la Russia ne dispone di appena 3800... I Presidenti Bush e Putin si sono accordati per ridurre, entro il 2012, le consistenze delle armi dispiegate a 1700-2200 (26) e 1500-2200 rispettivamente. Le forze strategiche di Francia, Regno Unito e Cina sono ridotte più considerevolmente, con 200-400 armi nell’inventario di ciascuno Stato. (Mentre) Pakistan e India ne hanno meno di un centinaio a testa... le Agenzie di Intelligence USA stimano che Pyongyang disponga di materiale sufficiente per la fabbricazione di 2-8 bombe”. Come si può notare manca nel novero il riferimento a Israele, tabù rotto successivamente da Jimmy Carter che ha fornito la cifra di “150 o più (27) ”. Israele a parte, le consistenze appena dette portano l’ex segretario della Difesa a domandarsi: “che differenza vi sarebbe se l’umanità fosse investita da 3000 bombe invece delle 12000 in circolazione di oggi?“. Rebus sic stantibus, R. Mc Namara conclude che: “l’unica strada è azzerare gli ordigni”.
Nel gennaio 2006, la Francia, per bocca del Presidente Chirac, ha sostenuto che la Deterrenza nucleare è finalizzata alla difesa degli “interessi vitali… la garanzia dei nostri approvvigionamenti strategici e la difesa dei Paesi alleati”. Aggiunge poi, riguardo al nesso minaccia WMD e terrorismo, che: “La Deterrenza nucleare non è destinata a dissuadere terroristi fanatici. Per questo i dirigenti di quegli Stati che ricorressero all’uso di mezzi terroristici contro di noi o che pensassero, in un modo o nell’altro, all’utilizzo di armi di distruzione massiva, devono capire che si esporrebbero a una risposta ferma e adeguata da parte nostra. E questa risposta può essere convenzionale. Ma può essere anche di un’altra natura”. La Francia non considera dunque l’impiego tattico del nucleare. Assieme al Regno Unito prevede però azioni dette pre-strategiche, quali lancio di avvertimento (ad es. effetto ElectroMagnetic Pulse, EMP) in caso di minaccia a interessi vitali. Entrambe rifiutano di impegnarsi nella policy declaratoria del “no first use (28) ”, ma, nell’ambito del NPT, hanno fornito “garanzie negative” agli Stati non dotati di armamento nucleare. Nel marzo 2008, in occasione del varo del sottomarino “Triomphant(29) , il Pres. Sarkozy, rammentando che “la sicurezza dell’Europa è a rischio”, ha prospettato l’opportunità di “europeizzare “la funzione Deterrenza” (suscitando qualche malessere a Berlino, non consultata preventivamente).

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L’appello di Mc Namara ha trovato eco nel 2007 nella proposta H. Kissinger-G. Schultz-W. Perry-S. Nunn per un’inversione di rotta ai fini di “a world free of nuclear weapons”, già intravista nella vision Reagan-Gorbachev di fine anni ‘80 (tetti agli arsenali, politiche di trust and verify), da realizzare gradualmente, ma con passi sicuri, per realizzare questa visione. In campagna elettorale, l’attuale Presidente Obama, fautore del soft power, da esprimersi con leadership sottesa dall’esempio e azione non espressamente militare, ha dichiarato che: “se gli USA e la Russia non ridurranno “radicalmente” i propri arsenali, essi non riusciranno “mai” a persuadere gli Stati più piccoli come la Corea del Nord e l’Iran a rinunciare ai loro programmi nucleari”.
Agli inizi dell’anno, 4 illustri personaggi tedeschi H. Shmidt-R. Von Weizsacher-E. Bahr- H.D. Gensher (30) , hanno ripreso la proposta dei 4 “horse-men” americani e, nel raccomandare il rispetto dei trattati esistenti e il ripristino di quelli fondamentali caduti in disuso, hanno riconosciuto che la stabilità nell’emisfero settentrionale, “(strumentale) al disinnesco delle crisi e alla loro risoluzione”, passa “soltanto attraverso una cooperazione stabile ed affidabile tra America, Russia, Europa e Cina”.
In effetti, la struttura di dialogo e cooperazione, che ha definito, a più piani, le relazioni Est-Ovest durante la Guerra Fredda, ha registrato non poche sfilacciature, tra cui (ma non solo): l’abrogazione del trattatoAnti-Ballistic Missiles (ABM) da parte americana, il conseguente ripudio da parte russa del trattato START 2, deroghe agli obblighi del Nuclear Proliferation Treaty (NPT) da parte americana. Vale la pena di ricordare che quest’ultimo viene considerato in ambito Alleanza Atlantica come “la pietra miliare del regime di non-proliferazione e la base di riferimento per la ricerca del disarmo”. Ciò non di meno, gli impegni assunti dal neo Presidente USA (“attenuare la minaccia nucleare”) e del neo-Segretario di Stato fanno ben sperare sugli orientamenti della nuova amministrazione in materia di rafforzamento dei trattati: START1, di fatto l’unico meccanismo di verifica della riduzione delle armi strategiche (in scadenza quest’anno), ed NPT, il cui processo di revisione quinquennale da parte dei firmatari è previsto nel 2010.


Qualche considerazione e una proposta

Sostanzialmente la Deterrenza (con associato requisito di “possedere” o essere visto come possessore di armi di potenza devastante e, quindi, capace di arrecare danni), mira, a doppio senso, a prevenire lo scoppio di ostilità o l’imposizione di coercizioni inaccettabili. L’obiettivo consiste, generalmente, nel condizionare il processo decisionale degli avversari, “forzandoli” a non dar corso ad azioni suscettibili di rappresaglia esemplare, ovvero all’inazione. Dunque, una Strategia di “santuarizzazione” del territorio, che, nella logica di chi aspira allo status symbol dell’arma nucleare, sembra garantire, se ben condotta, una sorta di impunità. La Deterrenza è dunque complicata intrinsecamente, in quanto legata a molti fattori che possono determinarne il successo o il fallimento. Al minimo, senza però limitarsi ad esso, si possono annoverare, a livello politico-strategico, il calcolo “razionale” di costi-rischi-benefici da ambo le parti, i meccanismi di consultazione e, a livello degli strumenti, la disponibilità di efficaci sistemi di comunicazioni, comando e controllo delle forze/strumenti. Nel primo livello, le variabili in gioco sono funzione della cultura, delle leaderships e quindi dell’ambiente regionale. A questo proposito Keith Payne (31) , con sottile dialettica, tende a distinguere, correttamente, l’aggettivazione “razionale” e “ragionevole”: il primo, un mero calcolo di costi benefici, definizione obiettivi e priorità; il secondo, qualcosa di più in quanto le linee di condotta dovrebbero essere “conformi a valori o standards condivisi o intesi”. E quando si ha a che fare con culture e paradigmi diversi è difficile immedesimarsi negli altri (per dirla alla Payne, ragionare seguendo il mirror imaging e conseguenti logiche deduttive può rivelarsi pericoloso).
La Deterrenza, a seconda del contesto, ha assunto diverse formulazioni. Nell’ottica occidentale della Guerra Fredda, essa era di fatto associata a:
- prevenzione da aggressione configuratesi in minaccia agli interessi vitali (nazionali USA/Alleati/Nazioni amiche);
- policy di contenimento, nell’assunto che la combinazione di dispiegamento delle forze e politica declaratoria potessero indurre un avversario a considerare che non si potevano superare, indenni, certe linee di demarcazione.
La regola canonica desunta da quell’esperienza, contempla che il principio della Deterrenza funzioni con i soggetti ad essa suscettibili. In linea con quanto sostenuto dal Gen. A. Beaufre: “il gioco è bilaterale... ciascuno degli avversari gioca tenendo a mente limitazioni” ne discende che, per assurdo, si basa su una quasi-cooperazione del soggetto da condizionare. Ad esempio, “la strategia della risposta flessibile, coniugando azioni militari sul terreno con i principi generali, si prefiggeva l’obiettivo di mantenere, con una certa flessibilità, il conflitto entro certi limiti”. A questo proposito, il Prof. Lawrence Freedman, parla di “interiorizzazione della Deterrenza (32) ”, alludendo al fatto che il riconoscimento della MAD, comportava una tipologia di relazione (internazionale), in cui i partners si impegnavano, in presenza di contenziosi, non solo a non andare a fondo, ma anche “a ricercare soluzioni (condivise) prima che le differenze diventassero critiche”. Su questa linea anche Richard Ned Lebow (33) che afferma: ”il merito del funzionamento della Deterrenza va attribuito in una certa misura all’auto-Deterrenza, rafforzata della consapevolezza che una guerra nucleare avrebbe comportato l’autodistruzione”. Ma non tutti sono d’accordo. Ad esempio Colin Gray, nelle sue considerazioni sui meriti dell’esito del “cold conflict 1947-1989” (34) ha espresso forti dubbi sulla validità delle teorie sulla Deterrenza. Dopo tutto, l’impianto concettuale di valutazioni teoretiche, assunti, deduzioni dal dedotto, trovava espressione, per dirla alla Beaufre, “in una montagna di congetture assunti in cui (l’unica) certezza era l’incertezza”. In più “nel gioco bilaterale”, potevano esservi asimmetrie sulla posta in gioco, rischi da correre. Ed è proprio lo stato di azzardo e incertezza sulla risposta della controparte, che rendeva le strategie di Deterrenza non del tutto affidabili, per cui occorreva essere preparati, sul piano morale, psicologico e dell’approntamento militare, all’eventualità del suo fallimento. Per questo motivo la Deterrenza trova la sua migliore definizione nella formulazione (35) del Gen. Beaufre sulla strategia, intesa come ”l’arte della dialettica delle volontà che ricorrono alla forza per la risoluzione dei conflitti... il cui scopo è quello di raggiungere il processo decisionale avversario, creando condizioni/situazioni che possano fargli accettare le condizioni che si vogliono imporgli”. Ci troviamo dunque di fronte a una dialettica, che, nei casi difficili, presenta tante sfumature da richiedere studi sociologici (Max Weber ad esempio fa una distinzione tra comportamenti “razionali in valore” e “razionali in finalità”).
Passata la paura dell’olocausto nucleare, l’incertezza e l’ambiguità sono state ricercate di proposito, in particolare nel tenore delle dichiarazioni ufficiali (come la più volte utilizzata “tutte le opzioni restano aperte”), al fine di ingenerare dubbi sulle mosse future. Gli scenari del dopo 11-9-01 hanno comportato una revisione dell’architettura funzionale della sicurezza USA e, di conseguenza, Alleata; ora, essa poggia, a grandi linee, su tre pilastri multi-disciplinari (36) : 1) sicurezza e difesa homeland e forward, 2) Deterrenza e 3) contenimento delle crisi. Il principio della Deterrenza, che ora si interseca con i risvolti della proliferazione, è stato riformulato verso una prevalente fisionomia di denial, più che di ritorsione. Non solo per la diversa consistenza della minaccia, cambiata radicalmente passando dal rischio di scambio a larga scala con peer competitor, al potenziale lancio di una o poche armi da parte di qualche “monello” di turno o a lanci accidentali (37) ”; ma anche per la personalizzazione a quelle che nel gergo anglosassone sono definite “local conditions”. Per questo motivo, nell’opera di overhaul, gli USA hanno provveduto ad integrare:
- le attività di contrasto della proliferazione con una combinazione di capacità, tese a contenere l’impatto delle WMD anche in termini di riduzione delle proprie vulnerabilità;
- la Deterrenza nucleare con capacità convenzionali, abbinate ad un’intelligence efficace e a mezzi di sorveglianza, per negare/contenere i punti di forza dei potenziali aggressori.
La Deterrenza rimane dunque centrale nell’istituzione madre, in cui si identifica la politica di difesa e sicurezza nazionale; inoltre, efficacia e stato di approntamento “forte e visibile” della capacità militare contribuiscono a rafforzarne la credibilità, anche in relazione all’immagine di debolezza dell’Occidente in certe aree di crisi. Tuttavia, il carattere endemico di volatilità e incertezza (38) di molte aree del pianeta e le mutate condizioni nello scenario internazionale, richiedono una riflessione approfondita su logiche attuative (in particolare, contro chi? e come?) e fondamenti.
Analisti del ramo (39) concordano sul fatto che, come sostiene il citato Richard Lebow, “l’utilità della Deterrenza è limitata a una gamma ristretta di conflitti: quelli in cui le leaderships avversarie sono motivate dalle prospettive di guadagno piuttosto che dal timore di perdite e sono vulnerabili alle minacce che il difensore è capace di esercitare in maniera credibile”. Inizia, dunque, a prendere consistenza la voce di porre dei limiti alle forme di impiego delle armi nucleari, in un contesto in cui le nuove realtà politico-sociali fanno evaporare la distinzione tecnico-operativa tra armi strategiche (intercontinentali) e sub-strategiche. Di fatto, in un’ottica di strumento politico, tutte le armi nucleari appaiono equivalenti. Pertanto esse non possono essere viste come un altro strumento della borsa attrezzi (40) , anche al fine di non ridurne il ruolo primario (politico) e lo scopo (prevenire l’uso di armi nucleari da altri). È pur vero che efficacia e credibilità del deterrente richiedono obiettivi materiali. Nel caso specifico, il Presidente Chirac lo aveva individuato nel terrorismo come strumento di stato, indicandone altresì i bersagli fisici (centri decisionali etc.). Quanto poi alle ipotesi, evocate da El Baradei, che organizzazioni terroristiche possano acquisire materiali di natura “nucleare (41) ”, il buon senso suggerisce il ricorso alle sole forme di contrasto convenzionali, nel quadro di opera di retooling dei meccanismi di prevenzione/controllo. Il contenimento della proliferazione, che Henry Kissinger definisce “un problema strategico supremo dell’attuale periodo”, diventa, dunque, un tema cruciale, strettamente connesso all’issue del nucleare.
Nel merito dei fondamenti, essi sono stati sintetizzati dalla trilogia del Beaufre in: grande potenza distruttiva, buona precisione e capacità di penetrazione. Ciò porta a considerare lo strumento operativo a disposizione dell’Alleanza. In mancanza di sistemi allo stato dell’arte (tra cui l’air-launched cruise missile–ALCM- stand off con precisione di ingaggio), le caratteristiche delle attuali dotazioni nel Continente suscitano dubbi di rispondenza ai nuovi scenari (al minimo, il punto debole dell’esposizione del mezzo aereo alle difese avversarie). In più, questa componente evoca tattiche da Guerra Fredda, di forte impatto sulle opinioni pubbliche, sempre più protagoniste nello scenario politico e vigili in tema di uso della forza e dei suoi effetti materiali. In definitiva, in un clima di crescente attenzione agli aspetti giurisprudenziali, in particolare di legittimità degli scopi politici, degli obiettivi e degli effetti fisici del mezzo da impiegare (n.d.r. in caso di fallimento della Deterrenza), l’attuale contributo “continentale” alla strategia NATO appare un asset opinabile. Ma sul piano politico, il mainstream della “zero option” (che sembrerebbe riscuotere consensi anche nel Regno Unito), può offrire una finestra di opportunità all’Alleanza, attualmente alle prese con un dibattito interno di identità e direzione di rotta per il suo futuro.
Ma, come detto in principio, spira una nuova brezza. Di fatto, negli USA si è fatta strada l’opportunità di corroborare l’appello dei 4 “horse-men” con un pensiero strategico, per facilitarne la realizzazione. Il pensiero dei 4 è stato ora sviluppato da Ivo Daalden e Jan Lodal (42) in veste di processo articolato su vari livelli (policy declaratoria, diplomazia etc.) e a tappe, a guida USA (con o senza Russia). è, a giudicare dai contenuti, in piena sintonia con le dichiarazioni rese dal Presidente Obama sia in campagna elettorale, sia nel discorso di insediamento, che possono essere interpretate come policy del doppio binario, stretta di freni in materia di proliferazione e diminuzione graduale degli stockpiles. A ciò si aggiunga il nuovo tono, fermo ma rispettoso e non più imperatorio (sicuramente più accettabile da chi, erede di una cultura millenaria, non ama essere associato a trattamenti con stick and carrots).
Oggi, sullo sfondo di una minore probabilità di conflitti inter-statuali, l’interdipendenza sta producendo a sua volta un’altra parola d’ordine: la collaborazione, basata sul rispetto reciproco e foriera, in prospettiva, di coordinamento. In più, si iniziano a ricevere seguiti concreti alle tante dichiarazioni di principio. All’appello congiunto Merkel-Sarkozy “nel mondo di oggi le alleanze e le grandi intese sono sempre più importanti (43) ”, si viene ad aggiungere, pur con alti e bassi, una certa apertura della controparte Russa alla proposta del Presidente Obama di procedere alla riduzione “radicale e bilanciata” dell’80% dei rispettivi arsenali nucleari (44) (circa il 90% del totale mondiale). Se da un lato, la dialettica Russa pare riconducibile a una tattica negoziale di acquisizione di posizioni di forza in vista del successivo dialogo strategico, dall’altro, la possibilità di pervenire alla tanto attesa stesura della valutazione congiunta della minaccia non sembra ora tanto lontana (45) . E come riconosciuto da più esperti, quest’ultima potrebbe costituire la chiave di volta in quanto, fondandosi su una diagnosi di sicurezza condivisa, potrebbe spianare la strada alla definizione dei livelli sostenibili di Deterrenza. Ma anche nell’ostica Iran pare che qualcosa inizi a muoversi: osservando le reazioni ufficiali, David Sanger deduce che “non c’è dubbio, si è avviata una nuova dinamica (46) ”.
In questo nuovo quadro, l’Alleanza delle Democrazie Euro-Atlantiche potrebbe dare il proprio sostegno al dialogo strategico russo-americano sul nucleare e, a sua volta, assumere l’impegno di ridefinire il suo deterrente. In sintonia con la tendenza verso la riduzione degli arsenali, si potrebbe lavorare a un’ipotesi di struttura articolata sull’esclusivo contributo delle componenti ubicate nei territori delle potenze nucleari “dichiarate”. Ancorché l’armamentario propriamente NATO non rappresenti una massa critica, il suo linkage al processo di riduzione non potrà che servire d’esempio, anche al fine di facilitare l’effetto traino a queste iniziative. In questo nuovo schema, il legame transatlantico della condivisione dei rischi-responsabilità potrebbe essere salvaguardato mantenendo, processo durante, le strutture di basing esistenti (per far fronte a eventuali misure di rischiaramento su allarme) e affidandosi alle avanzate capacità di simulazione. E anche la Francia, di cui si vocifera l’imminente ritorno nella struttura integrata, potrebbe essere coinvolta nel processo.
Nell’evoluzione dell’Alleanza verso una ragione sociale securitaria, un’iniziativa del genere potrebbe contribuire, inoltre, al rafforzamento della sua dimensione politica di “foro di consultazione” (vale a dire l’art 4 della Carta Atlantica), in continuità con la proposta del Ministro Frattini del marzo 2004. Infine, in sintonia con le linee di tendenza verso una governance delle issues globali (rilancio del G20, upgrade sistemi di prevenzio-ne/controllo etc.), i seguiti coerenti dell’Alleanza potrebbero contribuire a cancellare l’immagine di un Occidente che, per la sua sicurezza, applica i, più volte lamentati, “doppi pesi” (nel nostro caso infatti, il mantenimento dell’attuale struttura potrebbe dar adito al sospetto di una sorta di escamotage interno che, al vaglio di controparti sospettose, trasformerebbe gli assets NATO in una liability). In più, con il moral high ground dell’esempio, si rafforzerebbe la “relazione diretta” tra la NATO e le Nazioni Unite, provata sul campo in altre occasioni e con potenziali sbocchi in materia di concorso a strutture di monitoraggio/controllo/verifica a beneficio della Comunità Internazionale. Infine, nel clima generale di abbassamento dei toni, il ricorso all’understatement potrebbe giovare al buon andamento delle relazioni; la dizione Deterrenza, che evoca scenari apocalittici, potrebbe essere derubricata a una più appropriata e appetibile “Dissuasione”, a suggello della caduta del Muro di Berlino.


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(1) Sun-Tzu, The art of War, traduzione a cura di Samuel Griffith e introduzione di Basil Liddell-Hart, Oxford University Press 1971, pag. 77, 78, 84. (2) “Distogliere incutendo timore”. (3) Peter David “Banning the bomb”, The Economist , The World in 2009. (4) Il Santo Padre, nel suo messaggio per la giornata mondiale della pace (1 genn. 2009) ha parlato di “inizio di un mondo nuovo...” idem nell’indirizzo inaugurale del 21 gennaio, che ha sancito il new tone della nuova Presidenza degli Stati Uniti d’America (traghettamento in una nuova era, l’era della responsabilità della politica... il mondo è cambiato). (5) Fareed Zakaria, “The Post-American World”, Penguin Books 2008, pag. 2 . Si allude, ovviamente, non solo al Gruppo noto come BRIC, che comprende Brasile-Russia-Cina-India, ma anche Indonesia, Messico, Turchia, etc. (6) Basate sull’allargamento del perimetro di sicurezza, programmi di cooperazione regionali e legami inter-regionali con attori globali. (7) Kenneth N. Waltz, “Theory of International Politics”, Mc Graw Hill, Boston, 1979, pag. 139. (8) Il Presidente Bush junior ha sempre insistito sulla natura di global war (e conseguenti riflessi sul piano giuridico) contro i tentativi di declassamento a struggle against violent crime (SAVE). (9) Per la precisione è opportuno differenziare le armi di superiorità strategica (di potenza devastante) dai materiali che possono essere utilizzati per generare “effetti di massa”. (10) Vds. David E. Sanger “Pakistan’s arsenal raises concerns”(International Herald Tribune, IHT 10-1-2009, dove l’autore ripercorre lo sviluppo del deterrente pakistano. La stampa riporta sovente “leaks” di intelligence, dichiarazioni di scienziati sulle possibilità, peraltro non remote, che parti della tecnologia nucleare possano finire in mani pericolose. L’autore dell’articolo riporta una emblematica dichiarazione del prof. Graham Allison della Commissione bipartisan sulla Prevenzione della Proliferazione delle WMD, “quando si rappresentano sulla carta geografica WMD e terrorismo, tutte le strade portano in Pakistan”. (11) La Corea del Nord risulta aver esportato missili SCUD con gittata maggiore di 600 km. Nel luglio 2006 (fonte IISS, Strategic Survey 2007, pag. 310-317) effettuò test multipli su missili senza testa in guerra, Scud, No-Dong (medio raggio, gittata maggiore di 1.000 km) e Taepo-Dong (gittata maggiore di 3.500 km, carico utile 1.400-2.200 libre). Ai lanci balistici seguì un test nucleare, di potenza limitata, che innescò la Risoluzione 1395 del Consiglio di Sicurezza, approvata all’unanimità. Il conseguente regime di sanzioni fu rimosso successivamente, grazie all’azione dei Six Party Talks (rinunce in cambio di assistenza alimentare/energetica). Ad oggi, come testimoniano le cronache, non vi è però certezza sulla volontà di disarmo, sia sul fronte delle armi sia su quello dei vettori. E l’isolamento non giova. Il Pakistan (stessa fonte pag. 355) nel febbraio 2007, ha condotto test sui missili Hatf 6 (Shahen-2) con un raggio di 2000-2500 km e del missile di crociera Hatf-7 (Babur) con un raggio di 700 km. II vettore pakistano Ghauri e quello iraniano Shahab 3, entrambi di medio raggio sono derivati dal coreano No-Dong. Il 2 febbraio, nel trentennale della rivoluzione, l’Iran ha messo in un’orbita bassa (frequenza 14 orbite/giorno) il suo primo satellite (20-40 kg, per comunicazioni) utilizzando un vettore bi-stadio Safir-2 (fonte di ulteriori “gravi preoccupazioni” per il suo possibile impiego per scopi militari). (12) I missili balistici sono diventati un’arma da potenza e status symbol non solo regionale. Si tratta di armi difficilmente intercettabili e di effetto psicologico assicurato anche con modeste teste in guerra. Le traiettorie, funzione della velocità al lancio, sono prevedibili in base alle leggi della balistica (1\2 km\sec= circa 500 km, 7 km\sec= circa 5000 km; idem per le quote che possono superare i 1000 km). A bassa quota, i missili a corta gittata hanno un comportamento aerodinamico simile ai vettori aerei, il che consente l’intercettazione da parte dei sistemi tattici anti-aerei e anti-missile. Quanto alle prestazioni, esiste una linea di demarcazione tra la generazione dei missili “rustici” (vds Alain Charmeau, Une Défense Antimissiles Européenne, Dèfense Nationale et Sécurité Collective 2007) e quelli il cui sviluppo ha richiesto costosi investimenti (airframe etc). La cospicua proliferazione degli anni 80-90 ha consentito a molti paesi l’accesso alle sole tecnologie di base. (13) William J. Broad “Hidden travels of the atomic bomb”, IHT 9-12-2008. L’autore recensisce 2 libri appena pubblicati che trattano la materia con cognizione di causa. Il primo ”The Nuclear Express: a political history of the bomb and its proliferation” di Thomas Reed, un veterano del laboratorio di Livermore (California) nonché ex sottosegretario dell’Air Force, e Danny Stillman, ex capo-centro intelligence di los Alamos. Gli autori, nell’affermare che “gli stati hanno ripetutamente carpito e fatto trapelare segreti perché vedevano questo genere di attività nel loro interesse geopolitico”, sottolineano peraltro la maggior pericolosità degli scienziati sudafricani (technical mercenaries) rispetto agli omologhi russi. Il secondo, “The bomb: a new history”di Stephen Younger, già capo del laboratorio armi nucleari di Los Alamos, incentrato sui rischi della proliferazione con proposte di azioni incisive. (14) André Beaufre “Introduction à la Stratègie, les Modalités de la Stratègie Atomique”, Hachette Littèratures ed 1998, pag. 101-107. L’autore scrive che “per proteggersi da questo pericolo senza precedenti vi sono 4 tipi di protezione: 1. Distruzione preventiva delle armi dell’avversario (sistema offensivo diretto); 2. Intercettazione delle armi atomiche (sistema difensivo); 3. Protezione fisica contro gli effetti delle esplosioni (sistema difensivo); 4. Minaccia di rappresaglie (sistema offensivo indiretto). (15) L’attuale versione nel richiamare che le armi nucleari forniscono un contributo determinante alla Deterrenza, rendendo incalcolabili e inaccettabili i rischi di un’eventuale aggressione al suo territorio, ribadisce che il loro scopo principale è politico (mantenere la pace e prevenire coercizione e guerra). (16) Termine associato alle armi di raggio corto-intermedio. (17) Vds Ivo Daalden e Jan Lodal, “The logic of Zero. Toward a world without nuclear weapons”, Foreign Affairs, November-December 2008. (18) Keith B. Payne, nel citato “The fallacies of Cold War Deterrence and a New Direction”, che appare orientato, in prevalenza, al rischio “Cina”, propone al riguardo una cornice di riferimento e metodica di lavoro (pag. 103-114). (19) Vale la pena di ricordare che durante la Guerra Fredda la pronta capacità di risposta era necessaria per assicurare la sopravvivenza delle forze di terra. (20) Si incentra sul punto di debolezza della proliferazione (la spedizione di materiali illeciti se non addirittura banditi) da parte dei “proliferatori”. (21) Con una sintonia transatlantica e con l’AIEA. (22) Sullo stile dei vari progetti in corso tra cui il nostro Virtual-Regional Marittime Traffic Center, V-RMTC., basata su scambi via internet e considerata un’efficace misura di confidence building. (23) Sembra questa la motivazione principale alla base del rifiuto di Francia e Regno Unito di cedere il loro seggio permanente all’Unione Europea. (24) David E. Sanger, “US rejected israeli request to attack on Iran”, IHT 12 gen. 2008. L’autore riferisce che israeliani, non convinti da indicazioni National Intelligence Estimate USA di fine 2007, abbiano chiesto via libera. Riporta inoltre che le 3800 centrifughe del 2008 sono ora aumentate a 4000-5000, capaci di produrre un’arma ogni 6 mesi. L’Iran non sembra dunque lontano dalla padronanza del ciclo del combustibile nucleare. (25) “Dottor Stranamore, è l’ora della pensione”, Corriere della Sera, 28 aprile 2005, Robert Mc Namara ”La proliferazione nucleare aiuta i terroristi. Bush non può chiedere di ridurre gli arsenali se non dà l’esempio”. La politica del suo paese è definita ”illegale, immorale, militarmente non necessaria e tremendamente pericolosa”. (26) Per dare un’idea del potere distruttivo, i calcoli effettuati nel periodo della Guerra Fredda indicavano che l’aggregato delle esplosioni di 400-500 armi sui bersagli avrebbero determinato la certa distruzione del vasto potenziale economico-militare dell’Unione Sovietica. (27) Vedi “La Repubblica”. 27-5-2008. (28) Vedi art “Dissuasion Nucleaire Française”, Défense Nationale et sécurité collective”, juillet 2006, pag. 19-20. (29) Steven Erlarger, “Sarkozy defends nuclear arsenal”, IHT 22-23 mar 2008. L’autore, basandosi sulle stime della Federation of american Scientist fornisce dati sulla consistenza del deterrente d’oltralpe (288 ogive, metà dello stockpile della guerra fredda, per la componente sottomarina, 50 ogive sui missili di crociera aviolanciabili, 10 sui bombardieri), e, su indiscrezioni del quotidiano Le Monde, sulla gittata dei nuovi missili intercontinentali M-51, stimata sugli 8000 km, in grado, dunque, di raggiungere l’Asia. (30) “Toward a nuclear-free world: a German view”, IHT10-11 Jan 2009. (31)Keith B. Payne, “The fallacies of Cold War Deterrence and a New Direction”, The University Press of Kentucky, 2001, pag. 7. (32) Lawrence Freedman, “Deterrence: A Reply”, The Journal of Strategic Studies vol. 28 n. 5 789-801, 0ct. 2005. (33) Richard Ned Lebow, “Deterrence. Then and Now”, The Journal of Strategic Studies vol. 28 n. 5, 765-773 Oct. 2005. (34) Colin S. Gray “Modern Strategy”, Oxford University Press 1999, pag. 78 “Le teorie e i sistemi c’erano, ma non furono sottoposti alla prova. Più apprendiamo dagli archivi sui surrogati di battaglie, più ci accorgiamo della preveggenza di Clausewitz sulla centralità, in guerra, del caso, rischio e incertezza”. (35) André Beaufre, “Les modalités de la Stratégie atomique”, citata “Introduction à la Stratégie”, pag. 34. (36) Secondo le più recenti teorie, le grandi operazioni devono essere pianificate e condotte con una combinazione di ingredienti tratti dalle sette discipline DIMEFIL (Diplomacy, Information, Military, Economics, Finance, Intelligence, Law enforcement), che, a differenza dei colori dello spettro del visibile, non possono essere separate. (37) Ipotesi non del tutto remota in relazione all’invecchiamento dei componenti hardware, che implica anche problemi di safety. (38) Basta riflettere sulle considerazioni dello special envoy Richard Holbrooke, a proposito delle turbolenze nella provincia pakistana dello Swat, “a reminder that the United States, Pakistan and India are facing an “enemy which poses direct threats to our leadership, our capitals, and our people.” (Jane Perlez, “Pakistan makes a taliban truce creating a heaven”, IHT 17 Febr. 09). (39) Vds ad esempio Bruno Tertrais, “La logique de la dissuasion est-elle universelle?”, Fondation pour la Recherche Stratégique, Rapport Final 25 avril 2008, www.frstrategie.org. (40) Per usi tattici (ad es. armi penetranti). (41)Vedi Gèrard Chaliand, “Les Guerres Irrégulières, XX-XXI Siècle Guérillas et Terrorismes”, e Gallimard, Paris 2008. Conclamata autorità in materia, asserisce, alla pag. 881, che “le minacce NRBC sono presenti, ma non dovrebbero essere esagerate”. (42) Ivo Daalden e Jan Lodal, “The logic of Zero. Toward a world without nuclear weapons”, Foreign Affairs, November-December 2008. (43) Le Monde, Tribune Commune de M. Nicolas Sarkozy Président de la République et de M.me Angela Merkel Chancelière de la République Fédérale d’Allemagne, 4 février 2009. (44) Leonardo Coen, “Sì al disarmo, Washington convince Mosca”, La Repubblica 5 febb. 2009. In realtà non sono rose e fiori, dal momento che i Russi, come del resto gli Iraniani, sono abili negoziatori. (45) La dottrina Russa in materia prevede una gamma più ampia di possibili impieghi. Lo spiritoso scambio di battute Clinton- Lavrov in materia di “reset button”, fa ben sperare per il prosieguo. (46) A cura di Nazila Fathi e David E. Sander, “Better relations with Iran might mean trouble with Israel for US”, IHT, 11 febb. 2009.

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