L’elevato ricorso a forme di lavoro atipico, che caratterizza l’attuale mercato del lavoro, sembra trovare la sua ragione giustificativa nel carattere mutevole dell’ambiente economico, sociale e competitivo – ormai sotto tutti i profili globalizzato – in cui operano le imprese italiane, divenendo pertanto la flessibilità la variabile chiave intorno alla quale costruire le logiche strategiche di gestione delle risorse umane.
Se l’economia fordista (caratterizzata dalla stabilità dei mercati e tendenzialmente finalizzata alla produzione di massa) prendeva come modello di riferimento, ai fini dell’organizzazione del lavoro, l’impiego dipendente a tempo indeterminato full-time, l’economia post-fordista (cioè quella dell’ipercompetizione, delle strategie globali e della virtualizzazione dei canali produttivi e distributivi) trova nella flessibilità dell’impiego del personale, delle strutture, del coordinamento, dell’apprendimento e dei sistemi di incentivo lo strumento principale di proficua realizzazione degli scopi imprenditoriali.
In sostanza, al fine di fronteggiare un mercato sempre più dinamico, le imprese sono chiamate a definire, mediante una coerente gestione ed organizzazione delle risorse umane, strategie di flessibilità tanto sotto il profilo quantitativo (con il reclutamento di un numero variabile di soggetti disposti ad essere impiegati nell’impresa in funzione delle effettive contingenze del mercato), che qualitativo, potendosi articolare tale nozione in una serie di sotto-categorie specifiche quali:
- la flessibilità produttiva (rappresentata dalla variazione del numero delle ore lavorate connessa alla variazione dei tempi del lavoro, ovvero dalla variazione quantitativa degli output ottenuti in uno standard temporale di riferimento, fermi restando gli altri fattori della produzione) che può essere realizzata con il ricorso al lavoro part-time, alla rendicontazione ad ore, al lavoro straordinario, o, in generale, alle forme di lavoro atipico;
- la flessibilità funzionale, o delle competenze, costituita dalla capacità di variare i contenuti specifici del lavoro assegnato, nella logica del job enrichment e della poliedricità dell’utilizzo delle figure professionali, nonché dell’incremento del potenziale di sostituibilità del personale;
- la flessibilità in entrata ed uscita, che si riferisce al complesso di regole relative all’instaurazione e della cessazione del rapporto di lavoro, rilevando in tale ambito la disciplina del collocamento, del periodo di prova e del recesso unilaterale;
- la flessibilità generale del mercato del lavoro, costituita dalla rispondenza di un determinato mercato del lavoro settoriale o territoriale rispetto alle esigenze professionali, ai fabbisogni ed agli andamenti produttivi;
- la flessibilità territoriale, da identificarsi nella propensione dei lavoratori alla mobilità territoriale, sia nell’ambito della propria attività lavorativa che nel passaggio tra diverse posizioni.
La spinta verso la flessibilizzazione del mercato del lavoro, sia dal punto di vista della domanda che dell’offerta di lavoro, ha determinato come conseguenza diretta una proliferazione dei rapporti atipici, che sono definiti per differenziazione rispetto al classico lavoro subordinato a tempo indeterminato full-time (a titolo esemplificativo, il lavoro a tempo determinato, part-time o stagionale, i contratti a contenuto formativo, le forme di somministrazione di lavoro, le collaborazioni coordinate e continuative a progetto, etc.).
È evidente, tuttavia, che la problematica della flessibilità/precarietà non si esaurisce nelle forme di lavoro atipico, tanto perché il “tipico” rapporto di lavoro a tempo indeterminato full-time può presentare, in ragioni di distorsioni simulatorie, profili di precarietà, quanto in considerazione della circostanza per cui il lavoro coinvolto/inserito nelle forme atipiche indicate in precedenza non è necessariamente precario, rappresentando invece, in taluni casi, il frutto di una scelta personale del lavoratore (come nell’ipotesi dei contratti a tempo parziale), ovvero uno strumento di accesso al mercato del lavoro (quale è il contratto di apprendistato), ovvero ancora il modello fisiologico di gestione del rapporto (come nelle ipotesi di contratti stagionali nel settore del turismo).
Non può negarsi, tuttavia, che sussiste una tendenziale limitazione delle tutele sociali dei lavoratori coinvolti nelle predette forme di lavoro (o almeno in alcune di esse); ciò anche solo ove si consideri che i principali istituti previdenziali – in primis gli ammortizzatori sociali – sono stati pensati e definiti, dal punto di vista dogmatico, normativo ed economico, prendendo in considerazione, in via principale, proprio l’area del lavoro a tempo indeterminato full-time.
Parallelamente, benché con riferimento alle figure atipiche afferenti all’area della subordinazione trovino applicazione, in linea di principio, gli istituti di garanzia previsti dalla legge n. 300/1970, la declinazione del lavoro dipendente nelle varie species di temporaneità, inevitabilmente introducono, dal punto di vista sostanziale più che strettamente giuridico, condizioni di durata e d’instabilità del rapporto che rendono molto difficile l’inserimento attivo e la corrispondente tutela nell’ambito dell’azione sindacale.
A ciò è in generale da aggiungersi che la necessità di flessibilizzazione dell’utilizzo delle risorse umane (assieme all’elevato costo del lavoro) ha purtroppo avuto, in Italia, uno sbocco “patologico” nel lavoro sommerso, in cui i soggetti coinvolti sono privi di tutele tanto sotto il profilo retributivo (non operando, se non a seguito di riconoscimento giudiziale, gli standard minimi previsti dalle fonti contrattual-collettive), quanto sotto quello previdenziale (non provvedendo evidentemente il datore di lavoro, in ragione del carattere irregolare del rapporto, ai dovuti adempimenti contributivi).
Se, come evidenziato in precedenza, le trasformazioni strutturali in atto ed attese in futuro nel mondo tecnologicamente avanzato rendono necessaria la ricerca da parte del sistema produttivo di una crescente flessibilità della capacità produttiva, sembra necessario definire politiche del lavoro che, per un verso, favoriscano la crescita di stock di lavoratori regolarmente occupati e, per l’altro, provvedano ad una rimodulazione delle tutele sociali proprie dei medesimi lavori atipici, in modo che gli stessi, soprattutto sotto il profilo retributivo e previdenziale, possano ottenere prestazioni e garanzie tendenzialmente e progressivamente equivalenti, a parità di quantità e qualità del lavoro svolto, a quelle dei lavoratori a tempo indeterminato.
Tale linea ideale sembra appunto interessare gli interventi legislativi degli ultimi dieci anni.
Ed infatti, l’approvazione della legge n. 196/1997 (c.d. “Pacchetto Treu”) ha consentito un generale riordino della normativa relativa a varie forme di lavoro atipico (apprendistato, contratti di formazione e lavoro, lavori socialmente utili, etc.), dando origine ai contratti di lavoro interinale e ponendo al contempo in essere i prodromi per la liberalizzazione del collocamento dei lavoratori.
Se tale legge ha, senza dubbio, rappresentato il punto di arrivo di una progressiva evoluzione del contesto sociale italiano, riguardante non solo il campo legislativo, ma anche quello della contrattazione collettiva e del management delle risorse umane, non conteneva probabilmente una regolamentazione totalmente efficace rispetto ad un utilizzo a volte distorto di talune forme contrattuali.
Ciò ha condotto, negli anni 2002/2004, alla definizione ed implementazione della c.d. riforma Biagi, realizzata con la legge delega n. 30/2003 ed il susseguente decreto legislativo n. 276/2003 (ispirati al “Libro Bianco sul mercato del lavoro”).
I provvedimenti in questione hanno inteso realizzare i principi dell’occupabilità, dell’adattabilità e delle pari opportunità dei lavoratori; principi che si traducono, di volta in volta, nel corpo del richiamato decreto delegato, in un sistema di servizi per l’impiego (pubblici e privati) che facilitano l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro; in forme di flessibilità regolata e contrattata con il sindacato, che rappresentano validi compromessi tra le esigenze di competitività delle imprese (in un ambito ormai internazionale) e le tutele per i lavoratori; in misure di politica attiva in favore delle categorie di lavoratori che incontrano maggiori difficoltà nell’accedere al mercato del lavoro.
Ovviamente, i giudizi sulla riforma non sono unanimemente positivi. Non vi è, infatti, chi non abbia sostenuto che la stessa sia stata una “riforma a metà”. Secondo taluni, il nostro sistema giuslavoristico sentiva (e sente ancora) l’esigenza di una razionalizzazione complessiva del mercato del lavoro, non soddisfatta (ed anzi accentuata) dal proliferare di nuove tipologie contrattuali “precarie”.
La filosofia del Libro Bianco era, in effetti, quella di pervenire ad un nuovo Statuto dei Lavoratori che, addirittura, superasse definitivamente la contrapposizione tra lavoro autonomo e subordinato per affrontare la questione delle tutele del lavoro nell’ambito di un corpo normativo unitario.
Al di là delle valutazioni soggettive, non vi è dubbio però che il mercato del lavoro italiano necessiti di un processo di emersione e di complessiva ristrutturazione del sistema di tutele e di gestione delle risorse.
Del resto, già nel luglio del 2007 il Governo e le Parti sociali stipulavano il “Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili” – che veniva successivamente recepito nella legge n. 247/2007 – il quale, secondo l’espressa indicazione delle Parti, ha la finalità di promuovere “una crescita economica duratura, equilibrata e sostenibile, sia dal punto di vista finanziario che sociale”.
Tale iniziativa ha previsto un programma di riforme che interessa significativamente quattro fondamentali macroaree: la previdenza (con peculiare riguardo al regime degli ammortizzatori sociali), il mercato del lavoro, la competitività e le misure a favore dei giovani e delle donne.
Appare evidente come il legislatore, d’intesa con le Parti sociali, abbia immaginato una serie di interventi evidentemente indirizzati, tanto sotto il profilo previdenziale che su quello giuslavoristico, verso il modello, favorito anche a livello comunitario, della flex-security.
Tuttavia, il cammino verso la piena realizzazione di un modello globale di flex-security sembra ancora lungo.
Se, infatti, la caratteristica intrinseca della flessibilità del mercato del lavoro è la tendenziale mobilità del lavoratore tra diverse posizioni di impiego, appare evidente come debba essere implementato un regime che, a monte, tramite la formazione continua del soggetto interessato, consenta allo stesso il passaggio tra posizioni anche rilevantemente diverse tra loro (soprattutto in mercato tecnologicamente avanzato) e che, nei periodi in cui il lavoratore risulti privo di reddito, garantisca una prestazione temporaneamente sostitutiva dello stesso, indipendentemente dalla qualificazione e dal settore produttivo del rapporto cessato.
Tale prospettiva, seppure di difficile realizzazione per gli evidenti limiti di bilancio, comporta uno sforzo che involge la partecipazione positiva non solo dello Stato e degli Enti territoriali competenti, ma delle stesse Parti sociali. Le stesse, infatti, sono chiamate a rimodulare realisticamente il regime di protezione sociale attualmente vigente, realizzando una redistribuzione di tutele che permetta l’estensione delle stesse non solo nell’intera area della subordinazione, ma anche al di fuori di essa, coinvolgendo le altre tipologie di rapporti.
Soltanto in questo modo potrà essere raggiunto un equilibrato compromesso tra esigenze dell’impresa e tutela del lavoro, e, probabilmente, superata in maniera definitiva la equiparazione (frequentemente effettuata) tra flessibilità e precarietà.