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GNOSIS 4/2008
Il FORUM



La crisi economica globale

a cura di Emanuela C. DEL RE


Dalla George Mason University, in Virginia, Barack Obama, a pochi giorni dal suo insediamento alla Presidenza degli Stati Uniti, ha lanciato il suo “manifesto” anticrisi, la cui strategia è basata sul tentativo di elaborare un nuovo modello di sviluppo.
Negli stessi giorni, a Parigi, si sono aperti i lavori della Conferenza internazionale ‘Un nuovo mondo, un nuovo capitalismo’ sulla crisi finanziaria globale cui hanno partecipato, tra gli altri, Giulio Tremonti, Angela Merkel, Tony Blair e Nicolas Sarkozy, per il quale bisognerebbe “riformare il capitalismo, non certo distruggerlo, riequilibrare i ruoli dello Stato e del Mercato”. In Europa, dopo un lungo periodo di boom economico e, soprattutto, pochi anni dopo le riforme strutturali avviate dai Paesi ai quali si è allargata l’Unione Europea, si è precipitati in una crisi economica della quale non si prevedono, ancora con esattezza né la profondità né la durata.
Le agende dei Governi di tutto il mondo sono ora concentrate sulle misure da adottare, per consentire la ripresa del Mercato e varare nuove regole per impedire il ripetersi dei fenomeni speculativi che sono alla base della crisi attuale. Il sistema economico mondiale si fonda su una forte interconnessione e per questa ragione le politiche economiche nazionali e quelle monetarie delle rispettive Banche centrali, nonché quelle delle Istituzioni internazionali, non possono e non devono attuarsi senza un accordo globale. Il salvataggio delle Istituzioni finanziarie in difficoltà è stato uno dei primi interventi sul quale si è trovata d’accordo la maggioranza dei leader mondiali, ma da più parti si critica la mancanza di un vero coordinamento, indicato come necessario per uscire dalla recessione ed evitare conseguenze rovinose in futuro. Se è vero che la bolla speculativa cosiddetta delle ‘dot-com’, il fallimento della Enron, i ripetuti allarmi sui prodotti finanziari a rischio, oltre alla bancarotta dell’Argentina, sono stati campanelli d’allarme della crisi che ha poi coinvolto tutto il mondo, c’è da chiedersi cosa non abbia funzionato nei meccanismi di prevenzione e, soprattutto, quale strada si debba oggi percorrere per evitare danni più seri.
Molti economisti sostengono che il 2009 sarà l’anno in cui si avvertirà maggiormente la recessione, in cui l’economia reale sarà scossa da tragici eventi, come numerosi licenziamenti e che, anche in Italia, l’indice di crescita economica segnerà valori negativi. Nonostante le rassicurazioni e le politiche già avviate nell’Unione Europea, per alcuni Paesi il futuro è incerto. Tra questi, casi particolarmente interessanti, sono l’Ungheria e l’Estonia, che vivono il progressivo allontanamento degli investimenti esteri sui quali avevano basato la loro crescita. La Banca Centrale Europea è intervenuta per la prima volta anche nei Paesi Membri dell’Unione ma fuori dall’Eurozona. L’incognita che resta non è, però, solo economica. In gioco c’è anche la fiducia nelle Istituzioni nazionali ed europee e i progressi nel processo di integrazione. L’Europa potrebbe uscirne addirittura rafforzata ed espandere l’area di influenza dell’Euro, se sarà in grado di assorbire l’impatto con la crisi.


Ma la situazione è molto più complessa e sfaccettata. La prospettiva adottata nell’analisi cambia notevolmente a seconda del luogo geografico da cui si guarda alla crisi e la si vive. È per questo che abbiamo invitato a partecipare a questo Forum di discussione sulla crisi economica globale dei testimoni privilegiati che, con il loro contributo, gettano una luce importante sulle questioni fondamentali della crisi aiutandoci a coglierne la dimensione “globale” nella sua vera essenza. La questione eminentemente istituzionale è affrontata, in particolar modo, dall’On.le Adolfo URSO, Sottosegretario allo Sviluppo Economico; con l’economista Daniel GROS, Direttore del Centre for European Policy Studies di Bruxelles, guardiamo alla crisi dal punto di osservazione dell’Unione Europea; con il giornalista britannico David GARDNER, chief leader writer e associate writer del Financial Times e il giornalista Alberto NEGRI, inviato de Il Sole 24 ore, affrontiamo i temi generali della crisi e più in particolare i casi della Gran Bretagna e dell’Italia. L’economista estone Hardo PAJULA, analista per gli investimenti bancari, offre il punto di vista dell’Estonia, Paese membro dell’Unione dal 2004, su cui gli occhi del mondo sono puntati perché rappresenta un caso particolarmente interessante nel panorama dell’attuale crisi..



D. La crisi finanziaria attuale segna la fine del capitalismo o è la manifestazione della sua vitalità?

Daniel Gros
Questa crisi dimostra quanto i sistemi finanziari siano vulnerabili ai boom economici e quanto possano esplodere a causa di lunghi cicli di disponibilità di credito e ‘spiriti animali’. Resta aperta la questione se il costo dell’esplosione che stiamo vivendo ora sia maggiore o minore del guadagno che abbiamo avuto nei passati decenni di boom, che hanno portato a maggiori investimenti e, di conseguenza, ad una crescita più elevata.
David Gardner
Crisi periodiche sono intrinseche al capitalismo. I mercati possono passare il segno. Detto questo, ci sono aspetti della crisi attuale che dovrebbero offrire l’occasione per una grande pausa di riflessione. In primo luogo, la crisi segue molto da vicino quella causata dalla bolla speculativa sulle dot-com (in parte aggravata dall’11 settembre). Crisi con questo grado di frequenza, in secondo luogo, sottolineano il fallimento di un quadro normativo che era legato ad una irrazionale delusione collettiva, causata dalle banche e dalle loro attività sommerse. L’idea che i prezzi delle case possano solo aumentare, ad esempio, è risibile. L’idea che il rischio - come gli assets concessi per incanto a persone che non potevano permettersi di pagare i mutui - possa essere evitato se confezionato in pacchetti e diluito ampiamente, è irresponsabile. È improbabile che questa particolare sotto-forma di alchimia finanziaria si ripeta. Teniamo conto, tuttavia, che prima o poi una nuova generazione di stregoni bancari se ne verrà fuori con qualcosa di altrettanto tossico.
Hardo Pajula
Capitalismo è una parola difficile da definire con un grado ragionevole di precisione, secondo me. Un po’ come “democrazia”. Penso che entrambe queste parole verranno utilizzate molto frequentemente negli anni a venire, ma il loro contenuto, come concetti, cambierà sia nel tempo sia nei vari paesi. Per me la questione più rilevante è la relazione tra il capitalismo e la democrazia. Se questa capacità fosse seriamente danneggiata, la cornice politica basata su queste nozioni di coercizione limitata e di libertà personali ampie verrebbe anch’essa colpita. Ciò porterebbe ad un circolo vizioso di crescita lenta, alte tasse e alti livelli di interventi statali. Ma anche in questo caso quello che emerge è probabilmente ancora capitalismo - magari con una sfumatura diversa, più del tipo capitalismo statale.
Alberto Negri
La crisi recente ha colpito il capitalismo finanziario che ormai prevaleva da molto tempo su quello produttivo e manifatturiero. Il tracollo non poteva che iniziare negli Stati Uniti e ricadere sul sistema a livello globale. Questa crisi era stata ampiamente prevista e annunciata. è una crisi logica quando si consuma più di quanto si produce, quando si spende più di quanto denaro si abbia realmente, quando in sostanza gli Stati, le Istituzioni economiche e gli individui vivono a credito: nel momento in cui si percepisce che gli attori sul mercato non riescono più a ripagare i debiti, il sistema entra in crisi di fiducia e cominciano i fallimenti. è crollata la piramide finanziaria che reggeva una parte consistente del sistema, così come in Albania o in Serbia, negli anni Novanta, erano crollate le piramidi balcaniche trascinando nel disastro e nella rivolta piccoli Paesi: questa volta le piramidi hanno riempito con le loro macerie le economie mondiali.
La durata della crisi è imprevedibile ma è certo che siamo già costretti tutti a una poderosa cura dimagrante e chi stava già male starà ancora peggio. Si tratta di considerazioni banali ma l’economia è banale e il capitalismo, basato sull’accumulazione di capitale e il mercato, non sfugge a regole semplici ma ferree. Il capitalismo, di cui esistono nel mondo infinite declinazioni (quello cinese è l’esempio oggi più citato) non è un sistema, anche se noi lo chiamiamo così: è il continuo adattamento dell’uomo alla soddisfazione dei suoi bisogni, attraverso la produzione e il mercato. La regola è produrre o comprare a un prezzo più basso per vendere a un prezzo più alto: la Borsa di New York funziona esattamente sugli stessi principi del Bazar di Teheran. La sofisticazione del sistema capitalistico, se proprio vogliamo chiamarlo così, si introduce quando è necessario distribuire la ricchezza per dare da mangiare a tutti ed evitare il conflitto sulle risorse disponibili. Sono state le Istituzioni politiche a “inventare” il sistema capitalistico come metodo per la redistribuzione della ricchezza e l’amministrazione delle risorse: e infatti ogni qualvolta il sistema basato sul mercato è entrato in crisi di efficienza, la politica è intervenuta. In particolare l’intervento è forte quando si tratta di amministrare o di procurarsi risorse ritenute strategiche alla sopravvivenza: in alcuni casi si ricorre anche alla guerra e al colonialismo. La crisi può essere utile agli economisti e ai Governi per fare alcune riflessioni. Ci sono delle tendenze incontestabili. Uno dei cambiamenti più importanti avvenuti sulla Terra negli ultimi cent’anni è stata l’enorme crescita della popolazione e dell’economia che ha assorbito una quota sempre maggiore delle risorse del pianeta: terra, acqua, materie prime. La vera sfida è capire in che modo il nostro pianeta può sostenere questa crescita della popolazione, dell’economia e il consumo di tutte queste risorse in parte non rinnovabili. Una domanda interessante, ma che magari apparirà meno urgente, è se si manifesteranno, non si sa quando però, i primi segnali di ripresa: allora torneremo ottimisticamente ad affidare i nostri soldi ai broker di New York o a fare affari con i bazar di Teheran.


D. Quanto si può dire sia grave la crisi attuale?

Adolfo Urso
Si può dire che ormai il contagio della crisi finanziaria sull’economia reale è in atto. Una crisi questa provocata da due fenomeni: l’eccessiva deregolamentazione dei Mercati finanziari ove le contrattazioni sfuggono ad ogni forma di vigilanza e controllo; la crescita a dismisura delle cartolarizzazioni che hanno alimentato un mercato di derivati ad alto rischio di solvibilità, molto lontano dal mercato dei beni reali. La profondità di questa crisi, non ancora nota in tutta la sua gravità, ha colpito le economie occidentali e va pesando anche sui più dinamici Paesi emergenti con conseguenze sulla crescita mondiale che, nel 2008, non supererà il 4% e nel 2009 potrà scendere al 2,5%. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che il collasso finanziario supererà i 1.500 miliardi di dollari anche se ritiene improbabile un crollo analogo a quello del 1929 (Vds. la RUBRICA a pag 145) perché le politiche monetarie ed economiche oggi disponibili appaiono affidabili per contrastare la crisi e per stimolare la ripresa.


D. L’intervento dello Stato nella crisi finanziaria segna l’avvio di una fase di intensa regolamentazione?

Daniel Gros
Ci sarà certamente una fase di intensa regolamentazione dei mercati finanziari e, soprattutto, delle banche. Tuttavia, il ruolo dello Stato nell’economia non cambierà radicalmente, almeno in Europa, dove l’esistenza del mercato interno limita il potere dei Governi nazionali nell’intervenire nella loro economia.
Hardo Pajula
Ebbene, la maggior parte dei Paesi occidentali ha ora essenzialmente nazionalizzato il settore bancario e questo costituisce un cambiamento di regime importante il cui impatto si sentirà per anni a venire. Per quanto i mercati di credito privato siano ancora appena funzionanti, i Governi diventeranno più attivi nelle decisioni riguardanti l’assegnazione di capitali. Quindi, in tre, cinque anni probabilmente parleremo sempre più dei fallimenti dei Governi piuttosto che dei fallimenti del mercato.
David Gardner
Mi sembra che più rimaneggiamenti della regolamentazione dell’economia siano ormai inevitabili. Tutto ciò inizia, ma non finisce, con il semplice fatto che nelle principali economie, compresi gli Stati Uniti e il Regno Unito, lo Stato ha dovuto nazionalizzare banche leader in tutto se non nel nome. La regola del cosiddetto “tocco leggero”, vantata dalla City di Londra, l’abrogazione nel 1999 della legge Glass-Steagal negli Stati Uniti, tutto questo è stato screditato. La percezione comune è ora che le banche - che hanno causato questa distruzione - devono essere considerate alla stregua dei servizi di pubblica utilità. Questo sicuramente porterà a misure come l’intensificazione dei requisiti di adeguatezza patrimoniale, maggiore vigilanza internazionale sul rischio e così via. Più nell’immediato, se il sistema bancario non può essere persuaso a riprendere i prestiti, molte banche potrebbero finire col diventare di proprietà pubblica: questa è la parte facile; restituirle in mani private sarebbe molto più difficile.
Alberto Negri
L’intervento dello Stato è quanto mai presente da decenni nelle economie mondiali: basti pensare al prelievo fiscale diretto e indiretto su ogni attività umana. Una presenza tentacolare che regola qualunque nostro gesto quotidiano. Persino queste banali risposte alle sue domande sono tassate. Si tassano le opinioni, figuriamoci il resto. Mi sembra, quindi, persino superfluo prevedere una maggiore presenza pubblica nell’economia, visto che la maggior parte degli Stati e dei Governi occidentali vivono in base alla tasse che incassano. Gli altri sopravvivono sulla vendita delle materie prime come il petrolio: Stati rentier, in cui si pagano poche tasse e i cittadini, di conseguenza, non sono che comparse. Il problema è capire in termini di servizi e assistenza come gli Stati saranno in grado di restituire ai cittadini le tasse. Il sistema di redistribuzione delle ricchezze e dei redditi potrebbe entrare in crisi.


D. Di solito le grandi crisi finanziarie diventano crisi economiche poi sociali e quindi politiche: a quale stadio si fermerà la crisi in atto?

Adolfo Urso
Ai sostenitori di un intervento pubblico coerente con il mercato si apre una sfida senza precedenti per dimostrare come sarà possibile stimolare la crescita della domanda per consumi ed investimenti senza scadere in egoismi protezionistici o in spese pubbliche assistenziali o, ancor peggio, in eccessiva invadenza regolamentare. Se la visione smithiana del laissez-faire colloca il mercato in una equilibrata interazione con le Istituzioni governative, uno Stato attento e intelligente, ma non assente, dovrà sollecitare la domanda solo per il tempo necessario alla ripresa del ciclo economico.
Alle risorse pubbliche mirate al salvataggio del sistema bancario e alla garanzia dei risparmi delle famiglie vanno perciò affiancate politiche di sostegno degli investimenti, capaci di ancorare l’auspicata maggiore offerta creditizia con la nuova domanda che potrà nascere dalle imprese, liberando effettivamente il mercato del credito. Se questo obiettivo dovesse fallire, come potrà spiegarsi ai disoccupati che per salvare le banche si possono modificare le regole mentre per l’industria non si può procedere in modo analogo? Le misure sul fronte dei consumi dovranno affidarsi a sgravi fiscali sui redditi e, meglio, sugli acquisiti così da stimolare effettivamente i consumi rimpinguando per altro verso il gettito fiscale.
L’Italia deve anche impegnarsi più di altri Paesi sul fronte del coordinamento dei piani anti-crisi perché maggiore è la dipendenza delle sue possibilità di crescita dalla ripresa della domanda estera.
Se, quindi, è indispensabile che gli Stati facciano la loro parte intervenendo con profondità nei mercati finanziari e a sostegno della domanda interna, è altrettanto necessario che si impegnino a ritirarsi dall’economia reale ai primi segnali di ripresa.


D. Cosa ne pensate della strategia economica di molti Paesi – Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Belgio, Olanda e altri – che hanno elaborato pacchetti nazionali di misure specifiche per ristabilire la fiducia nel settore bancario? Sono misure adeguate? Sono le uniche possibili?

Adolfo Urso
Dopo aver affrontato la questione primaria del salvataggio del sistema bancario, i paesi e gli organismi internazionali più coinvolti vanno costruendo piani di dimensione eccezionale per scongiurare il fantasma della deflazione e per stimolare la domanda di consumi e investimenti. La ricetta monetarista, tutta incentrata sulla riduzione dei tassi di riferimento, mostra i suoi limiti quando la deflazione è il risultato di un crollo della domanda; e ciò anche perché i tassi sono già molto bassi e non potranno certo diventare negativi.
David Gardner
L’Europa inizialmente ha reagito perseguendo delle strade ad hoc, limitando la cooperazione transfrontaliera. Il salvataggio di Fortis da parte del Benelux nel settembre-ottobre 2008, ad esempio, si è verificato all’interno di una sotto-unità coesa dell’Unione Europea. Il salvataggio franco-belga di Dexia è stato una discreta operazione su scala ridotta. C’è voluto del tempo per l’Eurogruppo per iniziare ad agire in maniera coordinata e quando lo ha fatto, è stato per seguire Gordon Brown, il primo Ministro di un Paese notoriamente non-membro. L’aver posto l’enfasi sull’urgente bisogno di ricapitalizzare le banche da parte di Brown, era ovviamente giusto e, infatti, è stato seguito anche negli Stati Uniti. Se poi questo sarà sufficiente, è tutta un’altra questione.
Daniel Gros
In Europa il settore bancario è stato salvato, in extremis, da un’azione coordinata dei Governi dell’Eurozona più il Regno Unito. Dato che la crisi bancaria è solitamente e principalmente una crisi di fiducia, l’effetto-annuncio ne ha costituito la parte più importante. Le misure adottate sono state “adeguate”, nel senso che hanno impedito un crollo del settore bancario, perché hanno ristabilito un minimo di fiducia nelle banche stesse. Tuttavia, queste misure non sono state sufficienti per prevenire continue difficoltà nei mercati finanziari. Non sono state sufficienti per dare alle banche abbastanza capitale perché continuassero ad erogare prestiti. Agli Istituti bancari bisognerebbe dare più capitale per incoraggiarli a proseguire le attività creditizie. Sarebbe stato molto meglio (e meno oneroso) organizzare l’operazione di salvataggio del sistema bancario europeo attraverso un Fondo Comune Europeo, che avrebbe potuto essere istituito presso la BEI. In questo modo le banche sarebbero state molto più disposte a utilizzare i fondi pubblici, perché il fondo europeo sarebbe stato gestito con professionalità (ad esempio dallo staff della BEI) e, quindi, i Ministeri delle Finanze nazionali avrebbero avuto una molto minore influenza politica diretta. Questo è anche il motivo per cui ai decisori politici nazionali un simile piano non è piaciuto: avrebbe diminuito il notevole potere di patronato che attualmente esercitano sugli Istituti di credito.
Hardo Pajula
Devo ammettere che non ho grande familiarità con dettagli riguardanti singoli Paesi per esser in grado di fare un’analisi comparativa, ma mi sembra che tutti i Governi abbiano tentato di bloccare il panico nel mercato del credito e che ci siano, per lo più, riusciti. Adesso la domanda è, naturalmente, cosa avverrà poi? Fino ad ora le loro mani sono state veramente forzate, mentre ora c’è forse più tempo per pianificare i prossimi passi, e penso che il benessere economico dei Paesi dipenderà molto di più dalle azioni della prossima ondata di riforme.
Alberto Negri
I più svelti a intervenire sono stati gli inglesi. Non è un caso. Sono immersi fino al collo nel sistema capitalistico anglo-americano e Londra è la piazza finanziaria più importante del mondo. La Gran Bretagna vive non certo grazie alla sue industrie ma alla capacità magnetica di attirare capitali da tutto il mondo nelle sue banche e nelle sue Istituzioni finanziarie. Basti pensare che a Londra sono nati alcuni dei fondi sovrani più importanti: la Kuwait Investment Agency (con il Kio) è sorta qui alcuni anni prima che venisse proclamata l’indipendenza del Paese. I bilanci di molti Paesi africani e asiatici si fanno in Gran Bretagna e non negli Stati di origine.


D.Quale ruolo giocano le Istituzioni europee e che effetto avrà la crisi sullo scenario economico europeo?

Adolfo Urso
Anche in Europa l’attenzione dei Governi si incentra su misure straordinarie, per ridare ossigeno alla domanda interna, e sono rese possibili dalla maggiore flessibilità nei parametri di Maastricht. L’Italia si muove lungo la duplice strada dell’aumento della capacità di acquisto delle famiglie meno abbienti e del sostegno pubblico alle opere pubbliche coinvolgendo anche il capitale privato. E da noi il rilancio dell’economia è relativamente avvantaggiato dalla minore vulnerabilità rispetto agli altri Paesi avanzati perché più contenuta è l’esposizione debitoria complessiva. Pur dovendo subire il fardello di un elevato debito pubblico (104% del Pil), il debito aggregato delle famiglie italiane non supera il 30% del reddito nazionale: un’esposizione complessiva del 104%. Invece il debito complessivo dei maggiori responsabili della crisi è ben più alto: gli Usa raggiungono il 166%, il Regno Unito il 144%. In Francia e Germania l’indebitamento totale supera di una volta e mezzo il PIL. In Spagna, additata a campione della crescita, raggiunge il doppio del PIL, l’Olanda addirittura lo sfora. E, sempre, per la smisurata crescita dei debiti delle famiglie. L’oculatezza degli italiani ha contribuito alla minore vulnerabilità del nostro sistema e ci aiuta a disegnare percorsi mirati per il rilancio della domanda interna, tenendo conto che gli investimenti sono previsti in caduta del 6,7% nel 2008 (Isiae) a fronte di prezzi al consumo che restano elevati (+3,8% ad ottobre secondo l’Istat) erodendo il potere di acquisto delle famiglie. Più credito e più consumi sono gli imperativi da realizzare.
David Gardner
La Commissione europea è uno spettatore in tutto questo. In una Unione con quasi nessuna competenza comune e poco coordinamento fiscale, come potrebbe essere altrimenti? La BCE, da parte sua, è limitata alla politica monetaria (e, diversamente dalla Federal Reserve statunitense, ad esempio, non ha “doppio mandato” per promuovere sia la crescita sia la stabilità dei prezzi). La BCE ha agito audacemente nel fornire liquidità quando la crisi dei sub-prime scoppiò per la prima volta durante l’estate del 2007. Un anno dopo, tuttavia, non ha saputo valutare la gravità della crisi finanziaria per l’economia reale ed ha aumentato i tassi di interesse - una politica che ha da allora invertito. Lo stimolo fiscale in tutta l’UE, annunciato finora dagli Stati membri, in coordinamento con la Commissione, è penosamente inadeguato, data la profondità della potenziale recessione che abbiamo di fronte. Se vogliamo una risposta più proporzionata, potremmo dover rivedere il Patto di Stabilità e Crescita.
Hardo Pajula
Sul piano europeo, penso che la questione più problematica sia la relazione tra le politiche monetarie e quelle fiscali. Presto o tardi i decisori politici dovranno affrontare la questione: è possibile avere una politica monetaria comune senza avere una politica fiscale centralizzata? La risposta a questa domanda porta naturalmente alla futura forma politica dell’Unione, i transfers tra i Paesi e altro. Questioni che richiederanno un notevole sforzo per essere risolte.
Daniel Gros
Le Istituzioni dell’UE (Commissione, Presidenza dell’Eurozona), di norma responsabili di questo settore, non hanno svolto alcun ruolo di rilievo nella risoluzione della crisi. La loro inattività durante questo periodo cruciale di crisi avrà implicazioni negative per l’integrità del mercato bancario europeo, che viene ora nazionalizzato, poiché i Ministeri delle finanze nazionali e le banche centrali nazionali esercitano in modo efficace il controllo sul loro sistema bancario, ognuna operando secondo approcci legati alle priorità nazionali. Tuttavia, durante la crisi, la presidenza dell’UE ha ampliato il proprio ruolo consueto e ha fornito un ingrediente fondamentale: la piattaforma per i decisori politici nazionali per accordarsi su un approccio ragionevole al problema. Ma questo ruolo ampliato è dipeso dall’attività di una sola persona (il Presidente di turno Sarkozy) e potrebbe non funzionare con una diversa Presidenza. Lo scenario per l’economia europea è piuttosto desolante. L’unico problema è quanto incisivo sarà il rallentamento. Si possono avere pochi dubbi sul fatto che durerà a lungo perché due sono i fattori che terranno l’economia europea (e globale) sotto scacco per un po’ di tempo: a) la crisi, in corso, dei prezzi delle case: l’esperienza dimostra che i cicli immobiliari durano facilmente un decennio o più; b) il processo di deleveraging che tiene le banche in uno stato precario fino a che il loro capitale base non sarà rinforzato più di quanto non sia stato fatto finora.
Alberto Negri
Più che il ruolo dello Stato nell’economia cambia la nostra percezione dell’intervento pubblico. Ci eravamo abituati al fatto che il mercato facesse e disfacesse le fortune delle imprese e che le Istituzioni pubbliche fossero estranee ai grandi trend dell’economia.
L’economia prevale sulla politica è stato il leit motiv di questi ultimi decenni. In realtà il mercato si è mostrato inefficiente e inadeguato a gestire i fallimenti e ora la mano pubblica, cioè tutti noi, siamo chiamati a intervenire per salvare imprese e posti di lavoro. Finanzieri e manager spregiudicati erano diventati i veri eroi della modernità, i politici passavano in secondo piano. Questo significa un ritorno a una gestione più “politica” dell’economia? Probabilmente, ma i politici, soprattutto negli Stati Uniti, hanno salvato dal fallimento proprio quella classe manageriale e di banchieri d’affari da cui provengono diversi esponenti dell’Amministrazione, sia repubblicani che democratici. In realtà, e questo avviene anche in Europa, politici, manager, banchieri, sono alleati non avversari: è così che “funziona” il sistema. L’impressione è che si tratti più di un’oligarchia che di una classe dirigente vera e propria. I cittadini, americani ed europei, cominciano a dare segnali di nervosismo e i politici sono chiamati a interpretare questo disagio.


D. Per la prima volta la BCE ha stanziato un prestito eccezionale a un paese come l’Ungheria, che pure è fuori dalla zona Euro, per salvare il Paese da una crisi rovinosa ed evitare ricadute nella Regione. Come si rifletterà un simile precedente sulla politica della Banca e come potrà essa rispondere ad eventuali altri paesi che chiedessero un simile aiuto?

David Gardner
La risposta della BCE per l’Ungheria – membro della UE, ma non dell’Euro – è allo stesso tempo significativa e proporzionata alla crisi. è assolutamente categorico che una crisi che si è generata nelle economie più avanzate (in particolare gli USA) non trascini anche le economie emergenti – che hanno fatto molto per riformarsi strutturalmente. Quindi, la Federal Reserve degli Stati Uniti ha, in effetti, aperto linee di credito (scambio di valuta per alleviare la carenza di dollari) con le banche centrali in Brasile, Messico, Corea del Sud e Singapore. Questo ha allentato la pressione sulle scorte di emergenza limitate – di circa 200-250 miliardi di USD – a disposizione del FMI per aiutare le economie in via di sviluppo. Alcune di queste economie, come la Turchia, non sono piccole e, quindi, sia la BCE sia la Fed è probabile che, ad un dato momento, debbano fare di più.
Daniel Gros
Il prestito da parte della BCE all’Ungheria ha dimostrato che la BCE è consapevole della necessità di mantenere la stabilità nei mercati finanziari. Tuttavia, questo non incide realmente sulla politica generale della BCE. In termini economici la periferia europea (ovvero i nuovi Stati membri più i Balcani e la Turchia) è troppo piccola per contare. Ciononostante, sebbene queste non siano grandi economie, possono essere importanti per i mercati finanziari. Ogni crisi in questa parte di mondo può alterare l’equilibrio bancario dell’UE e, quindi, la stabilità nella zona Euro.
Hardo Pajula
Forse la questione potrebbe riguardare la relazione tra i Paesi all’interno e all’esterno dell’unione monetaria. In tal senso gli episodi dell’Ungheria e della Lettonia costituiscono davvero dei precedenti interessanti. Per quanto riguarda le implicazioni più a lungo termine, difficile dirlo.


D. Tornando all’Ungheria, per esempio, sia l’FMI sia la Banca Mondiale hanno concesso prestiti senza precedenti e la Banca Mondiale ha promesso aiuti anche ai Paesi Baltici. Quale il ruolo dell’FMI e della Banca Mondiale nella ricerca della risoluzione della crisi?

Daniel Gros
Il problema della periferia europea avrebbe dovuto essere affrontato dall’Unione europea, perché le banche europee sono esposte al massimo ai rischi in questa Regione. Tuttavia, data l’incapacità di agire delle Istituzioni europee (fatta eccezione per la BCE), questo non è avvenuto e l’FMI ha dovuto fare il suo ingresso sulla scena.
Hardo Pajula
Gli aspetti critici della risoluzione della crisi hanno, secondo me, a che fare principalmente con l’abilità dei Paesi recipients di impegnarsi in modo credibile in politiche economiche ragionevoli, e dei paesi creditori di monitorare e aumentare le capacità. L’FMI dovrebbe aver accumulato una considerevole esperienza in questioni come questa, proprio il motivo per cui è stato il negoziatore principale in Ungheria e Lettonia.


D. La recessione sta seriamente colpendo Paesi come la Lettonia, l’Estonia, la Bulgaria, giovani membri dell’UE. Secondo voi la crisi influenzerà il modo di intendere l’integrazione economica europea? In che modo?

Alberto Negri
L’impressione sull’Europa è la solita quando si presentano grandi crisi economiche o politiche. Quando discutono su come potrebbero fare insieme qualche cosa le quattro maggiori potenze, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia, raramente dimostrano di mettersi davvero d’accordo. Al massimo “si coordinano”. Di iniziative comuni sostanziose sul piano economico e finanziario non mi pare ce ne siano ancora state. Certo la Banca Centrale Europea ha abbassato i tassi reagendo, per altro, con molto ritardo alla crisi. Poi ha aiutato l’Ungheria, fuori dalla zona Euro, e i Paesi Baltici: i crediti concessi dall’Unione e dal Fondo monetario agli Stati della Nuova Europa sono stati un atto di necessità: Budapest era sull’orlo del fallimento e il 70% del suo sistema bancario appartiene a Istituti europei; gli Stati baltici hanno clamorosi deficit di bilancio e un sistema bancario fragile. Si è trattato di interventi indispensabili per allontanare il pericolo di gravi crisi politiche, peraltro ancora nell’aria, dentro l’Europa e ai confini con la Russia. Non è un caso che il Fondo monetario abbia sostenuto anche l’Ucraina. Ma questi interventi, forse, non saranno sufficienti a salvare l’integrazione economica europea secondo i parametri stabiliti a Maastricht: è evidente che il Trattato deve essere rivisto. Si possono però intuire o sperare sviluppi positivi: se l’Unione con l’euro regge alla crisi, la Ue diventerà una soluzione ancora più attraente per un vasto numero di Paesi dell’area mediterranea. è auspicabile, in questo senso, l’avanzamento del processo di integrazione della Turchia. Se, poi, andrà avanti il processo di pace in Medio Oriente e avremo i due Stati, israeliano e palestinese, l’Europa sarà in posizione privilegiata per inglobare economicamente questa vasta e importante area del mondo. Tutto questo naturalmente richiede circostanze favorevoli e, soprattutto, una visione strategica condivisa. Per l’Italia si presenta l’opportunità di rafforzare il suo ruolo di potenza regionale: siamo rilevanti partner economici, politici e anche nel campo della sicurezza di buona parte dei Paesi del Mediterraneo, dei Balcani e del Vicino Oriente. Questo versante del mondo rappresenta la nostra “profondità strategica”.
Hardo Pajula
Nei casi dell’Estonia e della Lettonia il risultato più positivo che si potrebbe ottenere nelle attuali circostanze sarebbe una loro maggiore integrazione nell’area economica nordica. Si verifica ora un notevole scollamento tra la struttura del settore finanziario – che è quasi completamente posseduta da banche scandinave – e una cornice di supervisione che è una nebbiosa palude di giurisdizioni, che si sovrappongono con conseguenti inefficienze e indeterminatezze. Questo scollamento è rappresentativo di ulteriori problemi, che derivano dal fatto che questi due Paesi non sono realmente Paesi, nel senso macroeconomico del termine ma, piuttosto, delle città allargate. Questo potrebbe significare da un lato, probabilmente, che non avrebbe senso per loro avere un apparato completo di infrastrutture di mercato, ma che sarebbe meglio prendere in prestito parti di mercato dai vicini. Dall’altro, ciò darebbe adito ad una miriade di problemi legali e politici. Con un po’ di rafforzamento, le posizioni in termini di competitività di questi Paesi possono migliorare significativamente.
David Gardner
Molti membri recenti della UE si sono trovati nella sfortunata posizione, spesso, che deriva sia dal dover far bilanciare i pagamenti sia dal sistema fiscale debole. Anche membri forti sono implicati in questo, se pensiamo all’esposizione delle banche svedesi nei Paesi Baltici. Per il momento, la principale ricaduta di ciò sembra essere un nuovo atteggiamento ansioso dei non-membri riguardo l’introduzione dell’Euro. Se l’Euro continuerà ad essere considerato un rifugio sicuro man mano che la recessione progredisce, è un’altra questione. La scala di adeguamento richiesta a membri-Euro come Spagna e Irlanda, ad esempio, potrebbe essere brutale, senza peraltro l’opzione di svalutare la moneta.
Daniel Gros
L’integrazione economica non verrà toccata realmente, con una grossa eccezione: i mercati finanziari. Le grandi banche dell’UE, proprietarie dei sistemi bancari locali nei nuovi Stati membri sono state definitivamente indebolite. Ciò porterà i Governi dei nuovi Paesi membri a controllare le loro filiali locali molto più da vicino. Inoltre, vi è il rischio (non una elevata probabilità, ma comunque un rischio) che la grande crisi finanziaria porti a una combinazione di crisi di valuta e crisi del sistema bancario nei Paesi Baltici e/o nei Balcani. Ciò, probabilmente, porterà questi Paesi ad imporre restrizioni sul cambio estero, facendo crollare il mercato dei capitali dell’UE.


D. Da più parti si auspica una nuova Bretton Woods. Non sarebbe più opportuna – in ambito europeo – una nuova Maastricht?

David Gardner
Le speranze per una Bretton Woods II sono sempre sembrate un po’ gonfiate anche se, chiaramente, vi sarà una riforma delle regole e una maggiore vigilanza internazionale. Ma questa è – o certamente dovrebbe essere – un’opportunità per rivedere il Patto di Stabilità e Crescita. Questa crisi dovrebbe convincerci della necessità non solo di meccanismi di disciplina fiscale, ma di armi per combattere le forze di recessione che potrebbero gettarci nella depressione. Questo richiede con forza un coordinamento della politica fiscale e meccanismi concordati sulla spesa in disavanzo e un nuovo livello di cooperazione, con alcune implicazioni per le sovranità. Non è affatto ovvio che ciò sarà possibile, ma non farlo comporterebbe rischi per la coesione dell’Unione europea e per l’Euro stesso.
Daniel Gros

Non ci sarà nessuna nuova Bretton Woods. Il massimo che si può ottenere è un migliore coordinamento della vigilanza sui mercati finanziari a livello globale. Né c’è bisogno di una nuova Maastricht. Quello di cui c’è bisogno in Europa è chiaro: a) un supervisore per le grandi banche europee; b) un Fondo Europeo per ricapitalizzare ulteriormente le banche; c) una comune rappresentanza unica della zona Euro, del Fondo Monetario Internazionale e delle altre Istituzioni finanziarie internazionali.
Adolfo Urso
Bretton Woods che pur per 60 anni ha resistito a fluttuazioni monetarie, all’eliminazione della parità aurea ed a diverse turbolenze finanziarie, non è in grado di governare un sistema non più “dollaro-centro” ma dominato anche da altre aree monetarie (euro e yen), da valute tradizionali (sterlina, franco svizzero) e da new entry (valute dei paesi BRIC). Il ritorno alle parità fisse è impensabile, ma si dovrà far chiarezza nei cambi perché se prevarrà, come auspicabile, la tesi sulla flessibilità, essa dovrà applicarsi a tutte le principali valute. Nel mercato dei capitali occorrerà considerare il ruolo crescente dei paesi emergenti per disegnare un’architettura condivisa, fondata su principi ispirati alla trasparenza, evitando spinte protezionistiche ormai sepolte dalla globalizzazione dei mercati.


D.Cambierà il ruolo del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), considerando che alcuni degli Stati membri hanno registrato dei deficit record nel budget?

Daniel Gros
Il Patto di Stabilità e Crescita contiene comunque delle clausole che consentono alle Nazioni di avere un deficit molto superiore al 3% in circostanze eccezionali. Per il momento (per i prossimi anni), il Patto sarà quindi irrilevante. La questione fondamentale è: che cosa accade quando l’economia si normalizza? Può essere utilizzato il PSC per forzare i Governi a ridurre i disavanzi in fretta? Questo non dipende dalla formulazione del Patto di Stabilità e Crescita (che è elastico), ma dalla volontà politica.
Hardo Pajula
Penso che il Patto di Stabilità e Crescita non avrà il suo momento migliore nel prossimo paio d’anni perché gli imperativi della politica costringeranno i decisori a concentrarsi altrove. D’altro canto, ci sarà ancora bisogno di politiche ragionevoli. È solo questione di ridefinire cosa vuol dire ragionevoli. Alla fine ci sono due parti in ogni sistema economico, ovvero chi presta e chi prende in prestito. Ho la sensazione che – mettendo da parte l’attuale paura di deflazione – è chi presta che perderà la battaglia, così che alla fine enormi pile di debiti accumulati verranno semplicemente soffiati via. Ecco perché non penso che il Patto di Stabilità e Crescita avrà un gran futuro.


D. Come si svilupperanno nello scenario post-crisi le relazioni con gli USA e con le economie emergenti?!

Adolfo Urso
Barack Obama sembra abbandonare i toni protezionistici che avevano caratterizzato la sua campagna elettorale annunciando una squadra di governo di indiscutibile qualità, improntata alla continuità e di ispirazione liberista. Affidare il timone dell’economia a Timothy Geithner, che ha collaborato con Henry Paulson e Ben Bernake (capo della Fed) al piano di sostegno al sistema finanziario, il Consiglio per la Sicurezza economica a Larry Summers, ex segretario al Tesoro con Clinton e fautore delle aperture al mercato, apre alla speranza che non prevarrà la linea protezionistica nel piano che riverserà altri 700 miliardi di dollari di spesa pubblica per stimolare il mercato interno. Non dovrebbero esserci assegni in bianco per l’auto, le misure fiscali dovrebbero agevolare il rilancio dei consumi interni e degli investimenti senza discriminazioni settoriali. L’ingresso nella squadra a capo del comitato di consulenza economica del Presidente del Council of Economic Advisers della stimata economista di Berkeley Christina Romer è un ulteriore segnale di moderazione dello staff presidenziale in chiave liberista, che dovrebbe ridar vigore al negoziato WTO sulla riduzione delle barriere al commercio. Sul fronte internazionale il rinnovato impegno in sede G20 deve essere mirato ad un nuovo accordo internazionale che, dalla definizione di nuove regole per la politica monetaria, si estenda al mercato dei capitali e ai commerci. In merito al coordinamento delle politiche economiche e fiscali, l’invito lanciato dal direttore del Fondo Monetario, Dominique Strauss-Kahn, è stato raccolto dal G20 e va impegnando nei fatti i Governi occidentali, fin qui seguiti anche dalla Cina con un piano di rilancio del mercato interno di circa 570 miliardi di dollari.
Daniel Gros
Per il momento si può dire che il partenariato transatlantico diventerà più importante perché le due parti dovranno fronteggiare problemi simili.
David Gardner
Finora, durante la crisi, vi è stato un notevole grado di coordinamento UE-USA. L’adozione della ricapitalizzazione bancaria come arma principale ne è un esempio. I tagli coordinati dei tassi d’interesse effettuati da FED, BCE e Banca d’Inghilterra (e altre banche centrali), e una generale tendenza verso un allentamento monetario ne costituiscono un altro esempio. Le due parti hanno anche adottato strategie di questo tipo verso le economie emergenti. La cooperazione chiaramente deve continuare, se vi deve ancora essere una significativa supervisione del rischio transfrontaliero. Ciò sembra molto più fattibile dopo l’elezione di Barack Obama e la sua scelta di mandare in prima linea consulenti economici, compreso l’ex Presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, il cui mandato sarà presumibilmente relativo agli aspetti normativi.
Alberto Negri
La crisi ha portato ancora più alla ribalta i rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina. E la crisi americana minaccia di produrre un serio rallentamento anche nella regione asiatica. Washington e Pechino sono obbligati, per ragioni ormai note a tutti (industriali e finanziarie), a cooperare (la Cina ha in cassa quasi 520 miliardi di titoli del debito estero Usa) ma è evidente che gli Stati Uniti soffrono di una crisi di credibilità. Il modello cinese, un misto di capitalismo e autoritarismo, potrebbe diventare alternativo, nei Paesi in via di sviluppo, a quello americano. Del resto, da un decennio, di questo si discute dall’Africa al Medio Oriente, all’Asia. Sviluppo economico, consumismo e democrazia “controllata” (cioè quasi niente democrazia): questa è la formula che accarezzano molti regimi partner di Washington.


D. Quali misure devono essere prese per contrastare le conseguenze peggiori della crisi?

Adolfo Urso
Le strategie di contrasto alla crisi finanziaria sono state in gran parte definite e concordate anche in ambiti sopranazionali ma alcuni importanti aspetti ad esse collegati non sono stati ancora né affrontati né tantomeno risolti, quali l’eventuale contrasto a comportamenti meramente speculativi. Oltre a badare alla salvaguardia del sistema bancario, gli Stati dovrebbero preoccuparsi di eliminare le cause che hanno provocato una crisi di dimensione impressionante. Dovrebbero contrastare comportamenti ispirati solo alla speculazione finanziaria, rivedendo le molteplici forme di contrattazione prolificate al di fuori di ogni forma di controllo. Tante le proposte sul tappeto: quella dell’associazione tra le principali borse valori mondiali sembra cogliere nel segno, perché mirata a limitare le cartolarizzazioni e il mercato delle assicurazioni sui derivati (credit default swaps) trasferendone le contrattazioni ai più regolamentati mercati borsistici.
è poi importante l’introduzione di procedure di trasparenza per favorire la mobilità dei capitali – il riferimento particolare va ai nuovi fondi di ricchezza sovrana che si affacciano sui mercati mondiali dei capitali come nuovi e silenti protagonisti, forti di patrimoni valutati in più di 3.500 miliardi di dollari. Alcuni Paesi temono il loro ingresso e ne vorrebbero limitare l’azione in settori strategici. Altri, tra cui l’Italia molto interessata all’attrazione di capitali stranieri, sostengono la proposta di “soft governance” del FMI di un codice volontario di condotta articolato in pochi e condivisibili principi. Su questa posizione dovrebbe convergere anche la nuova amministrazione statunitense ricordando che Larry Summers ha auspicato una decisa apertura ai fondi sovrani limitandosi senza degradare in veti, controlli o inutili burocratismi.


D. Volendo ora entrare nel merito di alcuni casi particolari, partiamo dalla Gran Bretagna. Quali sono gli aspetti più significativi dell’attuale crisi? Quale la strategia del Governo, tenendo conto dei rapporti della Gran Bretagna sia con l’UE sia con gli USA? Come rassicurare la cittadinanza inglese? Il Governo britannico pensa di riuscire a ricreare un clima di fiducia?

David Gardner
Le particolarità del caso specifico del Regno Unito sono, in breve: la rigidità dell’adeguamento dei prezzi immobiliari; il pesante livello di indebitamento delle famiglie; l’alta porzione strutturale – opposta a quella ciclica – del deficit di bilancio. Se il deficit raggiungerà l’8/9% del PIL nel prossimo anno fiscale, probabilmente 5,5 punti percentuali di questo saranno di natura strutturale. D’altra parte, il debito totale è relativamente basso per gli standard europei e statunitensi (lasciando da parte i Giapponesi) e si assesta a circa il 40% del PIL. Le misure adottate dal governo Brown sono plausibili, ma non sappiamo ancora se funzioneranno. Come già accennato, ricapitalizzare le banche era ovviamente la cosa giusta da fare, ma una vera e propria funzione di credito ipotecario non è stata ancora ripresa perché le banche tentano ancora di riparare i propri bilanci. Era certamente ciò che si doveva fare per dare uno stimolo fiscale, ma potrebbe non essere abbastanza. L’esplosione dei prestiti – che presto aumenterà l’indebitamento pubblico a quasi il 60% del PIL – è giustificata dalle circostanze. Ma molto dipende dagli investitori, ovvero se coloro che investono nelle imprese britanniche crederanno che il governo abbia intrapreso un percorso credibile per tornare a qualche forma di equilibrio fiscale. La Sterlina non è il Dollaro. C’è un certo revival del dibattito sull’entrata nell’Euro – ma non da trattenere il fiato – e sul riconoscimento del fatto che l’Europa ha dovuto affrontare questa crisi in modo compatto. Più ampiamente, Brown e il Labour Party hanno colto la crisi al balzo per dimostrare che, al passo coi buoni fondamentalisti del mercato, lo Stato è necessario. Il rischio è che creino aspettative che lo Stato – particolarmente nella sua attuale condizione di prostrazione budgetaria – non è in grado di soddisfare. E questo, naturalmente, non è limitato alla Gran Bretagna e dà adito alla preoccupante possibilità che la destra populista risorga.


D. E per quanto riguarda l’Estonia?

Hardo Pajula
Penso che, in ultima analisi, l’evolversi della crisi avrà profonde ripercussioni su una molteplicità di aspetti della vita politica ed economica del Paese. Per me i due settori importanti sono forse le relazioni con la popolazione di lingua russa all’interno del Paese e il pessimo stato del nostro sistema di istruzione (io preferirei chiamarla industria dell’istruzione, per farne meglio cogliere l’arretratezza). Finora, vale a dire da quando il vento in poppa che dal 2000 soffia dall’integrazione europea e più tardi il boom del credito, hanno portato a una sensazione di prosperità (immaginaria, come si è rivelata). Anche allora, come gli episodi violenti per la faccenda della statua bronzea del soldato russo nel mese di aprile del 2007 hanno dimostrato che c’è una notevole quantità di cattiva volontà tra le due comunità che popolano questo Paese, Estoni e Russi. Ora che il tasso di disoccupazione è destinato ad aumentare, questo insieme di animosità può essere sfruttato da chi, per un motivo o per l’altro, è interessato ad una destabilizzazione della situazione politica nei Paesi Baltici (simili problemi vengono affrontati anche dalla Lettonia e, in misura minore, dalla Lituania). Per quanto riguarda l’industria dell’Istruzione le cose sono davvero poco positive. Ci sono persone che provengono dalle nostre scuole secondarie che sanno a malapena scrivere in estone (coloro che si suppone siano estoni) o russo (coloro che si suppone siano russi) e per i quali le operazioni aritmetiche di base sono forse ancora più confuse di tutte quelle arcane nozioni che sono i sostantivi, i verbi, le virgole e i possibili significati che le loro combinazioni possono trasmettere. Questo input viene poi trasformato dalle nostre Università in una massa amorfa di sciocchi presuntuosi.
Non credo nelle grandi strategie a livello di Nazione, dove l’unica possibile linea d’azione è un rimescolamento delle carte. Finora abbiamo avuto un relativo successo in tal senso. La crisi (almeno per quanto si riferisce alla economia reale) è ancora nelle sue fasi iniziali. Finora i cittadini estoni sono stati relativamente euro-entusiasti. Dal momento che la disoccupazione aumenta, questo entusiasmo sta probabilmente declinando. Ma mi auguro che sia rimasto un po’ di senso del realismo nella cittadinanza, che le permetta di rendersi conto che qualsiasi carenza possa mostrare l’Europa – e probabilmente verranno presto fuori – non ci sono altre opzioni geopolitiche interessanti per noi. Questa, del resto, è forse la terza questione chiave per i prossimi anni.



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