GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 3/2008
Faida di San Luca
La fine di 'Ciccio Pakistan'


articolo redazionale


Francesco PELLE ('Ciccio Pakistan')
Boss della 'ndrangheta, arrestato a Pavia il 18/09/2008
Giorno di festa, il 31 luglio.
Ciccio festeggia la nascita di un figlio.
C’è uno spazio segreto di compiaciuta allegria, nella gioia paterna di un boss, ben oltre il sentimento di un padre: il ramo fiorisce dall’albero che è antico simbolo della ‘ndrangheta, per le sue radici forti nel terreno e per i suoi rami spessi come un abbraccio di fratellanza.
Un figlio è la gemma sul tronco, è la freccia per l’arco, è il pugno del futuro che le dita schiudono come una promessa.
Anche per questo, negli occhi di Ciccio rilucono le stelle di Africo, scie lunghe, sino a coprire San Luca, Benestare, la locride aspra…
Ciccio si sente forte, nodo più stretto di un piantone d’olivo.
Ha alle spalle la cruenta faida di San Luca, negli anni ‘90, con i Nirta-Strangio, è un sopravvissuto che ha salvato l’onore, tra croci vendicate e odi rappresi nel petto, senza lacrime, meritando l’indomito rispetto di chi spara, di chi fa il suo dovere e dimostra alla famiglia, come all’avversario, di poter essere un Capo.
Ora può mirare in alto.
Non è forse la moglie Nunziatina, una Morabito? Parallela linea che lo unisce, lui sanlucota, alla famiglia più potente dell’africese, anche se pure la più separata, dopo l’arresto del capo dei capi, Giuseppe “tiradritto”, che ha lasciato generi, nipoti e fratelli assetati di potere e pronti a far terra bruciata intorno all’affollata parentela.
Morabito Zappia, Scassaporte, Larè, Ramati… sono tanti gli aspiranti Morabito.
Cognome che, comunque, scuote le pietre e apre arcani segreti nei labirinti del potere ‘ndranghetista.
Ciccio, detto Pakistan, dal colorito assolato della pelle e forse, per qualcuno, per la furia talebana di distruzione, briga, osa, pretende, s’infila nei pertugi arroganti e dorati dei ‘lavori’, s’inventa più forte di quanto sia.
Un colpo squarcia la notte.
Luminaria che cerca la morte, sciogliendo le ombre di killer e le folgori di fuoco che riescono solo a spezzare la schiena della vittima, da allora reclusa in una carrozzella, per sempre.
Da Africo, già segnata da morti, il vento della faida si sposta verso San Luca, come venti anni prima: si riattiva il mai sopito rancore tra i Pelle-Vottari e i Nirta-Strangio.
Il gotha mafioso non vuole che si vìoli quel paese stretto tra povertà e ‘ndrangheta, eletto a centro della tradizione e della mediazione, necessario feticcio che possa limitare i danni di un modello criminale privo di apice, orizzontale, per questo litigioso e pronto al sangue.
I boss che contano conoscono l’insidia endemica delle faide, cercano di raffreddare gli animi, di sedare gli intemperanti, di circoscrivere gli iniziali danni.
Ciccio, però, tracima d’odio, per quelle gambe che non si muovono più, per la festa insanguinata del figlio che diventa, come accade nelle terre calabresi, memoriale di sangue e di sfregio.
Rivendica la pietà dei parenti e, quando s’accorge che non basta, allora fa leva sull’onore, sul debito che i cugini Vottari non gli hanno ancora saldato per essersi messo alla testa della famiglia al tempo della prima faida, vendicando i loro morti.
Francesco Vottari ha sposato Maria Pelle, la figlia di ‘Gambazza’ che ha avuto in mano ‘il crimine’ di San Luca e che non vuole la guerra. Un suo coinvolgimento sarebbe una ‘iattura’ per tutta la ‘ndrangheta, amplierebbe il conflitto in modo incontrollabile.
‘Gambazza’ è il sacerdote di pace cui si rivolgono i pellegrini ‘ndranghetisti che riconoscono in San Luca il luogo della sacralità mafiosa, testimone il santuario di Polsi e il foro eletto dove comporre le crisi tra gli uomini d’onore.
è in gioco la credibilità stessa del crimine, incaricato di pacificare gli scontri di tutta la Calabria e ora impegnato a sistemare le cose di casa propria.
Come monatti i boss s’aggirano per le carceri affollate di mammasantissima e i rifugi dei latitanti, cercando il consenso e l’unione di una forza che possa far desistere i combattenti.
Eppure non basta.
Ciccio sembra contagiare sottilmente i suoi parenti e il malanno prende i Vottari, i Giorgi e tutti gli affiliati armati che girano come soldati nelle notti sanlucote a rincorrere la spirale di morti e di vendette che insanguina l’intera area.
Il Natale 2006 diventa l’occasione di un giorno di festa da violare, per raccogliere il sangue sacrificale dei nemici Nirta, come massima offesa dissacratoria, nella loro stessa casa.
Ma il disegno ha troppe sbavature, l’assalto non riesce e viene versato per errore il sangue di una donna, Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta e sorella di Sebastiano Strangio, e quello di un loro nipotino di cinque anni.
è troppo anche per San Luca. Ora i Nirta-Strangio sono legittimati a colpire a loro volta, non solo per vendetta ma per una sorta di giustizia contro la morte di una donna, di un atto sprovveduto ed eccessivo.
Si scatena una guerriglia inesausta nel Paese ormai diviso a metà, in cui tutti vivono assediati e nella notte escono solo ombre di killer in sortite schioppettanti come fuochi d’artificio.
La diplomazia è inebetita, s’affanna.
Si cerca nella rete delle famiglie nemiche qualche nodo che abbia comuni legami, qualche parente di entrambi i contendenti che, nella trama intrecciata dei matrimoni, abbia la possibilità di connettersi e ricucire una parvenza di pace. Almeno per il tempo necessario a tacitare gli sbirri che sembrano spiriti vaghi alla ricerca di un bottino: qualche latitante, qualche arma, qualche rifugio segreto e... chissà, anche qualche carta o qualche conto in banca che li porti alla vena d’oro delle cosche.
Ciccio dalla sua sedia a rotelle sembra non piangere la sua disgrazia, mai sazio dei sacrifici che grondano sulle strade.
A Ferragosto, nuova ricorrenza nel martirologio ‘ndranghetista, i Nirta-Strangio dedicano ai propri morti una tra le più violente stragi avvenute nell’ambito delle faide reggine, peraltro in terra tedesca, sino ad allora ritenuta solo un mercato per gli affari delle cosche.
Sei affiliati dei Pelle-Vottari, mentre escono dal ristorante in cui hanno appena consumato un ‘santino’ e promesso una giovane vita alla ‘ndrangheta, sono uccisi con fredda violenza, svegliando la Germania e l’Europa con l’incubo della mafia.
è l’atto tragico che non può essere che definitivo.
Dal picco di tale violenza le cosche rotolano. Lo Stato reagisce. Sono catturati latitanti e killer, sono scoperti quei bunker che animano una città sotterranea, infernale come gironi, in cui gli affiliati sopravvivono nei momenti di difficoltà.
Si muovono non solo ‘gli sbirri’ ma anche quella diplomazia che ha perso la faccia e ora cerca di non compromettere definitivamente il portafoglio.
In ogni paese dell’area sussurra la gente di mafia. Scuote il capo. I killer hanno sbagliato.
Non stupisce né irrita l’entità dell’agguato, perché nessuno può dimenticare l’errore di Natale che reclama sangue.
Ma non avrebbero dovuto commettere quel delitto eclatante in territorio tedesco, luogo di lavoro, d’appoggio logistico e di riciclaggio, che ha garantito silenti e pervasivi affari.
Nella memoria breve dell’antimafia, tuttavia, si comprende che Duisburg è un macigno greve, difficile da rimuovere.
La ‘ndrangheta guarda allarmata e San Luca sembra cadere in un’apnea d’attese e di paure.
Solo quando le strade s’affollano di nuovo, i figli tornano a scuola, le donne fanno la spesa e vanno in Chiesa, allora s’intuisce che la mediazione ha funzionato, si può sperare in un tempo di pace, anche se falso e momentaneo, come i fuochi sotto la cenere.
Falso, perché Ciccio sulla carrozzella non placa il suo tormento.
Perché Sebastiano Strangio deve incontrare i nipoti e deve potergli dire che la loro madre è stata vendicata.
Anche questo è l’insegnamento delle cosche di San Luca.
Perchè i rami continuino a sfidare la gravità dell’albero della mala.
Quando gran parte dei latitanti sono catturati e la rete mafiosa è arrotolata nei cortili del carcere, Ciccio è ancora fuori.
Con la sua carrozzella sfida gli sbirri che lo cercano e, ancor di più, i suoi nemici… finanche gli amici che ben conoscono la sua responsabilità e potrebbero punirne l’indomabile arroganza.
Vuole camminare. Ha ancora la furia talebana, la voglia di rispetto e di potere per cui si è affacciato troppo nel baratro ‘ndranghetista, precipitando insieme a quanti l’hanno sostenuto, come i Vottari, per affetto, forse, per vizio di ‘mal’onore’.
Non s’arrende.
Il 17 settembre è davanti al suo computer, tra codici e cifre, alla ricerca ossessiva di strumenti moderni di sicurezza e d’intercettazione, per studiare da Capo, da stratega.
Come un generale che abbia perso la guerra ma non la voglia di vincere.
Vuole essere un Capo moderno.
Vuole essere quell’avanguardia che già in tante cosche avanza con intemperanza, che vuole modernizzare salvaguardando la tradizione ma non quelle gerarchie vetuste che chiudono ogni possibile progressione.
Vuole cavalcare i tempi, stringere tra le dita le leve del potere, le mani degli amici potenti, gli assegni e le concessioni che danno una faccia pulita e tanti soldi.
Ha la febbre della fretta.
Come tutti i reduci che non vogliono più attendere.
Nella clinica di Pavia il verde è diverso da quello aspromontano, ma il profumo degli alberi è lo stesso.
Anche la voglia di metter radici e fronde, di affratellare con rami spessi come quelli di San Luca.
Anche in Lombardia, pensa Ciccio, c’è un po’ di quella Calabria che si può fare ‘ndrangheta.
In questa terra umida e nebbiosa, pezzi delle cosche sono sparsi come dadi, come i dadi sembrano mirare allo stesso gioco di sempre: vincere e guadagnare.
Non sorride, Ciccio, quando l’arrestano.
Una nuvola grigia attraversa il cielo lombardo e oscura palazzi e scavi in atto, confondendosi con il fumo di una betoniera.
Sembra abbia il profilo appuntito delle vette di San Luca.



© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA