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GNOSIS 2/2008
STORIE VERE, ANEDDOTI E LEGGENDE

Il delitto di Stato come arte ai tempi della Serenissima


Alain CHARBONNIER

L'omicidio politico come scorciatoia per assicurare stabilità interna ed esterna allo Stato è pratica diffusa soprattutto nei regimi autoritari. Del resto, "salus rei publicae suprema lex esto", affermava Cicerone per giustificare l'uccisione di Catilina nel carcere Mamertino. Nel Rinascimento, epoca di intrighi e di delitti, l'omicidio di Stato viene di fatto istituzionalizzato. Nelle corti dell'epoca si trama e si uccide: a Firenze come a Milano, a Parigi come a Roma. Ma è nella Repubblica di Venezia che la pratica assume forme e raffinatezze senza precedenti, senza distinzione di classe e di censo. E in nome degli interessi della Serenissima i suoi sicari non si fermano neppure davanti a Re e Papi.



Dipinto di F.Hayez del 1867 raffigurante la decapitazione del
Doge Marin Faliero decretata dal Consiglio dei Dieci
Correva l'anno 1419 e a Venezia il sole di maggio faceva splendere le cupole dorate di San Marco. Il Consiglio dei Dieci era riunito per esaminare una questione che si trascinava da anni e stava diventando vitale per gli interessi della Serenissima: l'ostilità di Re Sigismondo d'Ungheria. Il sovrano era diventato un "nemico" da quando era stato costretto ad accantonare ogni speranza di signoria sulla Dalmazia, acquistata da Venezia dieci anni prima, per 100.000 ducati, dal Re di Napoli Ladislao D'Angiò-Durazzo. Ma oltre che in Dalmazia, Sigismondo tramava per contrastare i veneziani in Istria e in Friuli, ponendo in forse i traffici con il Medio Oriente e la "Romania". Ecco allora che per Venezia l'uccisione del Re d'Ungheria "non solo est bonum, sed necessarium", rispondendo all'interesse e alla salute della Serenissima.
Quel 24 maggio i Dieci esaminavano dunque la proposta di tale Micheletto Mudacio che si era offerto di assassinare il sovrano nemico. Non era il primo, c'era stato un tentativo nel 1415, e non sarebbe stato l'ultimo, anche se nessuno riuscì nell'impresa.
Del resto, se la prostituzione è il mestiere più antico del mondo, lo spionaggio certamente viene subito dopo. E non si tratta solo di carpire informazioni, ma anche di intervenire per manipolare il nemico, per azioni di sabotaggio e per quelle che saranno poi definite "operazioni bagnate", vale a dire le eliminazioni mirate, ciniche scorciatoie per ottenere risultati che la diplomazia o la guerra non sono in grado di cogliere.
I servizi segreti dei Medici, nella Firenze rinascimentale, non esitano a inseguire i loro bersagli in ogni Stato d'Europa. Non sono da meno gli agenti "con licenza di uccidere", che il Consiglio dei Dieci della Repubblica di Venezia invia all'estero per colpire traditori, mastri vetrai fuggiti con i segreti di Murano, persone sospettate di fomentare congiure e ribellioni ai danni della Serenissima. I sicari penetrano le corti europee, non rispettano conti, marchesi, principi, sacralità di re e santità di papi. A Venezia l'omicidio di Stato è pratica corrente e nessuno può dirsi al sicuro, se suscita i sospetti del Consiglio dei Dieci o degli Inquisitori.
Nel suo documentatissimo libro "I servizi segreti di Venezia", edito da Saggiatore nel 1994, Paolo Preto dedica numerose pagine alle operazioni "cum quel più cauto, destro et secreto modo".
Scrive Preto: "A parte l'ipotesi di un avvelenamento di papa Alessandro VI (1503), tramite il cardinale Adriano di Cornet, sostenuta dal Lamansky, sia pure con pochi elementi obiettivi, e quella di un'offerta non accettata contro Giulio II nel 1504, i grandi Re europei contro i quali, con assoluta certezza, Venezia medita e approva attentati mortali, oltre Sigismondo di Lussemburgo Re d'Ungheria, sono: Carlo VIII, di cui è accettata il 28 giugno 1495 un'offerta di assassinio dell'ingegnere vicentino Basilio Scola e contro cui Pietro Giustiniani ricorda anche un'offerta di morte del friulano Tristano Savorgnan, a suo dire respinta perché contraria ai costumi bellici della Repubblica; Luigi XII, del quale il 27 ottobre 1511 è accettata un'offerta di uccisione da parte del medico personale".
Sono almeno dodici i tentativi e i progetti di assassinare il Sultano dei Turchi, promossi dal Consiglio dei Dieci, dalla caduta di Costantinopoli fino al 1647.
Ogni mezzo è lecito per perseguire la conservazione e l'ampliamento dello Stato e a Venezia "quello che per autorità aborrisce l'humanità nella conditione privata è ricercato et ammesso dalla ragione del governo politico nella pubblica amministrazione". Per cui sono ritenute "lecite e buone e necessarie e doverose e cristiane" le offerte di morte, facendo bene attenzione a ricercare il sostegno nell'autorità di teologi e giuristi.
Ma non sempre a Venezia il segreto resta tale. La Serenissima pullula di spioni, confidenti, referendari, rapportatori al servizio del Sultano, dell'Impero, della Chiesa. Orecchie attente, pronte a cogliere ogni sussurro e a riferirlo al loro committente. Anche i progetti omicidiari trapelano dalle segrete stanze del Consiglio dei Dieci o degli Inquisitori.
La "ragion di Stato" impone di allontanare con sdegno ogni sospetto di delitto segreto. E quando si diffondono voci di un tentativo di avvelenamento del re d'Ungheria, esse sono pubblicamente e ufficialmente definite: "vane et temerarie calunnie, aliene da ogni verità diffuse dagli alemani contro questo innocentissimo stado".
Politica della doppia morale e grande capacità di "disinformazione", per mascherare delitti commessi e progettati.
Scrive ancora Paolo Preto che per Venezia l'assassinio del Sultano dei Turchi è senz'altro "salus Christianitatis, salus et pax populi Christi, optima et christiana dispositio", darà "maximum fructum" alla Repubblica e tutta la cristianità e semmai ci si deve assicurare che il veleno colpisca davvero l'infedele e non qualche cristiano: se poi l'offerta di un'"opera sì pietosa et fructuosa ugualmente dovesse fallire, ne resterebbe offesa la pubblica sempre sostenuta integrità".
Veleno, pugnale, corda, schioppettata, annegamento o qualunque altro mezzo è buono. I sicari veneziani non vanno per il sottile e la Serenissima bada ai risultati. Per chi sbaglia non c'è perdono, non c'è luogo in cui la longa manus degli Inquisitori non possa arrivare.
"Homo morto non fa guerra" è detto corrente a Venezia. E di morti i Dieci e gli Inquisitori se ne lasciano dietro una lunga scia, nobili e umili, principi e prelati, come si legge nei documenti conservati negli archivi. Tutti vittime della grandezza della Serenissima. Fino al 1797, quando la pace di Campoformio mise fine alla storia della Repubblica di San Marco.



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