GNOSIS 1/2008
Le ‘reti’ al servizio del terrorismo Internet e Al Qaeda due ‘reti’ per l'Islam |
Guido OLIMPIO |
E' difficile comprendere la capacità di penetrazione di Al Qaeda nel mondo islamico, la capillarità della sua propaganda, in assenza di contatti diretti, di incontri suscettibili di essere monitorati e ascoltati.
Con i leaders storici nascosti, le operazioni affidate a fazioni regionali e cellule spontanee, la vecchia guardia qaedista ha mantenuto una presenza e un controllo grazie ad Internet. Una cabina di comando con due leve. La prima, più forte, governa l'ideologia. La seconda, non sempre funzionante,attiva la fase operativa. Un meccanismo che, attra-verso Internet, ha comunicato l'idea di una perenne attività. A questo sono serviti i messaggi di Osama Bin Laden e di una lunga schiera di portavoce, alternatisi nel fare da megafono alla propaganda. Un'esplosione mediatica piuttosto articolata che ha spinto taluni ricercatori ad affermare che senza il web il fenomeno Al Qaeda sarebbe stato percepito in modo diverso. Certamente l'avremmo vista come una realtà lontana e meno minacciosa. Usando Internet i capi hanno potuto aprire un ombrello ideologico, pur senza avere contatti diretti con quanti poi hanno messo in pratica gli insegnamenti. Bin Laden, Al Zawahiri e Al Libi, Azzam l'americano, Abu Al Yazid e una schiera di ideologi minori - ma assai citati sul web - hanno assunto il ruolo di ispiratori. Così dall'Asia al Nord Africa gruppi cresciuti con caratteristiche legate ai rispettivi teatri hanno provato ad assumere una fisionomia transnazionale. Taluni vi sono riusciti sul territorio: è il caso di Al Qaeda nella terra del Maghreb, che dall'Algeria si è allargata a Mauritania, Mali e Tunisia. Attacchi a sorpresa, consolidati poi con una forte attività di proselitismo sul web. Altre fazioni si sono limitate all'azione di propaganda preoccupandosi di sottolineare il vincolo con la casa madre. Di nuovo, è stato Internet a garantirgli una copertura e a creare uno spazio comune virtuale. Uno scenario di guerra asimmetrica difensiva con i musulmani impegnati a rispondere alla presunta aggressione dell'Ovest. Gli ideologi islamisti hanno ripetuto questo concetto riuscendo a convincere settori delle opinioni pubbliche musulmane. Per fortuna non si è creata la rivolta di massa che Osama sognava, ma è un dato di fatto che sono tanti coloro che pur non essendo disposti a impugnare il fucile si considerano vittime di un attacco. Ogni crisi regionale - Palestina, Cecenia, Sudan per fare degli esempi - sono diventate il traino ideologico impiegato dai qaedisti. Nella loro narrazione la responsabilità è solo da una parte. E dunque qualsiasi forma di reazione nei confronti dell'Occidente è legittima. Agli ispiratori non rimane che trovare la giustificazione e, magari, il versetto religioso del Profeta più adatto: "Colui che vede qualcosa di sbagliato deve correggerlo con la sua mano, se non può allora con la parola e se non può ancora con il suo cuore". E’ l'esercizio del soft power, come nota l'israeliano Reuven Paz, uno tra i migliori ricercatori sul terrorismo. L'abilità di arrivare a risultati attirando e persuadendo altri ad adottarli. Con un effetto dilagante. E' iniziato come un fenomeno ristretto per poi ampliarsi progressivamente con il deliberato intento di incrementare il numero degli "spettatori". I qaedisti sono passati dai video amatoriali della grotta nel 2001 ad una catena di messaggi. Sono cambiati anche i canali di informazione. Nel 2001 erano soprattutto le tv satellitari a recepire il materiale, oggi sono i siti qaedisti. La sola "As Sahab", l'etichetta che cura i filmati e gli audio degli esponenti più in vista, ne ha distribuiti solo nel 2007 quasi cento. Al Qaeda ha aperto il suo primo sito - Al Neda - negli anni '90 registrandolo in Texas e a Singapore. Oltre dieci anni dopo si contano a migliaia - tra i sei e i settemila - e continuano a crescere in volume e qualità. Il professor Gabriel Weimann, docente in Scienza delle comunicazioni all'università di Haifa (Israele), ha calcolato che vengono aperti 900 siti jihadisti all'anno. In base ad un suo studio nel 1998 su trenta gruppi eversivi inseriti nella lista del Dipartimento di Stato americano solo 15 disponeva di un sito. Nel 2000 lo avevano praticamente tutti, quindi decine di fazioni dal Medio Oriente alle Filippine. Ovviamente molti siti hanno una durata ridotta. Appaiono, scompaiono, si trasferiscono, vengono rifondati. Una elasticità resa possibile dalla grande flessibilità della rete. Non sempre, però, i qaedisti sono puntuali. Parlano di Iraq quando magari c'è un evento più sensibile in un altro scacchiere. Perdono anche le "occasioni": un'elezione, la scelta di un presidente. Difficile spiegarne le ragioni. Possono essere tecniche oppure legate ad esigenze di sicurezza. Ma viene il dubbio che spesso i terroristi vogliano solo "far rumore", consapevoli che i loro sermoni avranno comunque un risalto nell'arena internazionale. La Jihad della parola, oltre a surrogare quella armata, ha risposto ad una intuizione dello stesso Osama e di un cerchio ristretto di complici. In una lettera, sequestrata dagli americani in Afghanistan e precedente all'11 settembre, Bin Laden spiegava al capo dei talebani, il mullah Omar, che la battaglia si sarebbe svolta al novanta per cento sul terreno della propaganda. Analisi che ha trovato d'accordo il suo consigliere, l'egiziano Ayman Al Zawahiri. In un libro diventato famoso tra i jihadisti - "Cavalieri sotto lo stendardo del Profeta" - il dottore scrive: "Noi dobbiamo trasmettere il nostro messaggio alle masse della nazione e rompere l'assedio mediatico imposto al movimento della Jihad. Questa è una battaglia indipendente che dobbiamo lanciare al fianco di quella militare". I qaedisti hanno imitato quanto fatto alla fine degli anni '70 dall'ayatollah Ruhollah Khomeini, un oscurantista ma innovatore nella propaganda. Costretto all'esilio in Francia, l'imam iraniano registrava infuocati discorsi su cassette che venivano poi fatti ascoltare agli iraniani. Comizi a distanza che rappresentarono uno sprone per la nascente Rivoluzione Islamica che nel 1979 porterà alla cacciata dello Scià. Esperienze fatte proprie da ribelli e terroristi. A metà degli anni '90 il movimento palestinese Hamas è tra i primi ad usare videocassette. I suoi attentatori suicidi vi appaiono sorridenti prima della missione e registrano il loro testamento politico. Una moda che diventa tendenza. In quell'epoca, dopo i palestinesi, sono i militanti islamici in Bosnia, Algeria, Cecenia e Kashmir a documentare le loro operazioni. Immagini truculente, con agguati e gole tagliate ai soldati nemici, girate per sostenere la causa. Le cassette vengono consegnate a qualche reduce dai conflitti che le contrabbanda in Europa dove sono mostrate per reclutare giovani adepti. Oggi, le stesse immagini, più curate, con sottotitoli e interventi dei capi, trovano il loro teatro ideale su Internet. Con un successo senza precedenti. Nell'analizzare il fenomeno, in continua crescita, gli esperti dell'antiterrorismo hanno individuato alcune linee guida. Intanto il teatro. Gli estremisti vivono in paesi dove la libertà di parola è limitata, la stampa spesso imbavagliata. Internet diventa rifugio, fonte di informazione alternativa e podio dove un qaedista può esprimersi senza paura. Inoltre il simpatizzante, come il potenziale terrorista, stabilisce contatti con persone che vivono al di fuori dei confini e che la pensano allo stesso modo. Internet favorisce, dunque, la diffusione di un'idea transnazionale agganciata alle predicazioni di Osama. Formidabile è poi la proiezione esterna. I siti islamisti sono divenuti una fonte primaria per i mass media tradizionali che non riescono "a staccare la spina" e rilanciano i messaggi. Il risultato è doppiamente vantaggioso per i qaedisti che aggirano eventuali censure e ottengono che la loro propaganda si propaghi con l'aiuto dell'Occidente. Ciò porta al gradino successivo. Se non lanciano attacchi, i terroristi incutono paura con le minacce e il veicolo è Internet. Il monitor può essere "vuoto", nel senso che è rappresentato solo da parole. Oppure viene riempito con scene raccapriccianti di vecchi attentati o gesti sanguinosi. La decapitazione di un ostaggio è la perfetta quanto angosciante interpretazione di questa logica. Abu Musab Al Zarkawi in Iraq ne è stato il più fedele esecutore, ma lo avevano preceduto altri qaedisti trucidando nel 2002 a Karachi, in Pakistan, il giornalista del Wall Street Journal, Daniel Pearl. Secondo una ricostruzione il delitto e le mutilazioni sono filmate due volte in quanto la prima "non era venuta bene". E, in seguito, sono state diffuse le foto dell'ostaggio con la pistola puntata alla tempia. Avendo perso molte basi in seguito all'offensiva alleata su Kabul, i seguaci di Osama hanno inventato la scuola coranica globale dove viene svolto l' indottrinamento virtuale. E' ancora Internet a fare da sponda insostituibile. Uno dei responsabili del Global Islamic Media Front, sigla che ha spesso firmato i documenti qaedisti, ha spiegato come funziona. "Sin dall'operazione contro la Uss Cole (nave militare Usa attaccata da un kamikaze nello Yemen, novembre 2000, ndr) e dai gloriosi eventi di Manhattan centinaia di musulmani, provenienti da tutto il mondo, si sono uniti all’università della Jihad globale, dove studiano ogni tipo di attività, regola… Si tratta di un'università non centralizzata, senza confini geografici, presente in qualsiasi luogo e aperta ad ogni persona credente. L'università ha una propria presidenza, il cui ruolo è incitare, guidare, indottrinare, incoraggiare la coscienza dei mujaheddin. La presidenza è sotto la leadership di Osama Bin Laden". Ma il vero trampolino che ha proiettato ad altezze siderali la campagna mediatica è stato il conflitto iracheno. Ribelli e terroristi si sono rivelati abili quanto con le armi. I video degli attacchi, le classifiche delle "migliori esplosioni", le gesta dei cecchini hanno riempito Internet, invadendo spazi come Youtube o Liveleak. La sofisticazione del prodotto ha sorpreso tutti ed ha fatto scuola, al punto che oggi qualsiasi fazione deve avere sito, logo e musiche per corredare le proprie azioni. Altrimenti rischia di non essere presa sul serio. Rispetto al materiale offerto dalla vecchia Al Qaeda, i terroristi iracheni sono più concreti. Le parole sono solo la cornice e non la sostanza, il tema preminente nei video iracheni è l'atto militare. Il grande spazio concesso da giornali e tv - sia occidentali che arabi - alle missioni dei mujaheddin hanno fatto il resto. Quando filmano l'esplosione di una bomba al passaggio di un convoglio in un remoto villaggio sunnita i militanti sono consapevoli che quelle immagini non solo porteranno supporto ma anche instilleranno inquietudine. E per giunta senza pagare un centesimo. I terroristi non devono comprare spazi nel palinsesto di una emittente, la loro clip "promozionale" viene trasmessa comunque e gratuitamente. La proliferazione dei messaggi ha fatto sorgere un dibattito tra quanti ritengono che esista un legame con i successivi attentati e coloro che preferiscono considerarli delle mere indicazioni, con confini molto ampi, su cosa bisogna colpire e dove. Partiamo dai numeri. Nel 2005 "As Sahab", la casa di produzione qaedista, ha diffuso 15 video, nel 2006 è passata a 58, nel 2007 ha superato di gran lunga i 90. Ai filmati con il logo si sommano le centinaia di altri realizzati da formazioni affiliate. Tra i più esperti gli algerini "Al Qaeda nella terra del Maghreb", che hanno segnato una serie di operazioni terroristiche alzando il volume della propaganda su Internet. Ma non sono stati da meno il movimento somalo Shebab, i mujaheddin dello "Stato Islamico" iracheno, i talebani afghano-pachistani. Considerano Osama un simbolo immortale, si associano ad un disegno globale pur essendo impegnati in un conflitto locale. Loro si offrono in dote alla casa madre e Al Qaeda risponde dando la sua approvazione preventiva o postuma. Quando non esisteva Internet e si ricorreva al fax potevano passare giorni prima che il presunto link emergesse, adesso l'interazione è veloce. Come lo è la rivendicazione di un gesto: quanto all'attendibilità serve una grande cautela. La presenza di un video non rappresenta la prova del nove, bensì segnala la volontà di un gruppo o di un leader di intervenire. Passiamo ad un esempio. Nella notte del 19 marzo è stato lanciato sul web un audio attribuito ad Osama. Un frammento di cinque minuti con il quale Bin Laden attacca il Papa, l'Europa e promette una punizione severa per la vicenda delle vignette sataniche. Il giorno dopo sui forum islamisti la notizia viene interpretata come il segnale di un attentato imminente nel cuore dell'Europa. Reagiscono anche il Vaticano - per respingere le accuse - e gli apparati di sicurezza per dire che il monito non viene sottovalutato. Grande spazio sui siti, nei notiziari di tv e radio. L'operazione ha funzionato e nell'ottica qaedista l'audio ha rappresentato una rivendicazione preventiva per un eventuale attacco. Sia che scatti per un ordine preciso, sia che venga pianificato in modo autonomo. foto Ansa Le incursioni mediatiche provocano una discussione permanente che si sviluppa sopratutto nei blog. Di nuovo l'idea è quella di un gran parlare in termini generali, con il gruppo algerino o quello iracheno che si assumono il compito di fare. Secondo il centro di ricerche Intelcenter dal 1998 al 2007 possono essere attribuiti alla "vera" Al Qaeda appena 62 attentati. Sono calcoli che non hanno alcun valore scientifico e possono essere contestati. Però rappresentano un parametro da tener presente per comprendere come - per fortuna - alle bordate verbali non corrispondano sempre quelle reali. I qaedisti, invece, rivendicano di tutto - dal black out che sconvolse New York agli incendi estivi - e cercano di infilarsi in qualsiasi crisi investa la comunita' musulmana. Michael Scheuer, ex responsabile dell'unità che dava la caccia a Bin Laden, ha osservato che, tuttavia, una qualche aderenza tra minacce e attacchi esiste. Ben 23 dei paesi citati dal 2001 da Osama sono stati vittime di attentati: all'interno dei confini (Spagna, Gran Bretagna, Pakistan per fare tre esempi) o altrove, come l'Italia a Nassiriya. Ma di nuovo il rapporto deriva da una sottomissione ideologica di chi ha compiuto l'attentato e non da un ordine gerarchico impartito in modo diretto. E' evidente che l'ambiguita' del quadro lascia la porta aperta a valutazioni contrastanti e favorisce le speculazioni. Prendiamo la strage di Madrid dell'11 marzo 2004. I terroristi potrebbero aver preso spunto da un documento di 42 pagine, intitolato "Jihadi Iraq, speranze e pericoli" che raccomanda attentati contro le "forze" spagnole a ridosso delle elezioni. Il testo, pubblicato sul sito islamista "Global Islamic media front" nel dicembre 2003, sarebbe stato redatto dal cosiddetto "Comitato media per la vittoria dei mujaheddin in Iraq", definito anche Centro servizio dei Mujaheddin. Una sigla che richiama alla memoria l'ufficio creato dai seguaci di Osama per coordinare l'afflusso di volontari islamici in Afghanistan. A scovarlo sono stati due ricercatori norvegesi, Brynjar Lia e Thomas Hegghammer, secondo i quali l'autore del testo potrebbe essere Yusuf Al Ayiri, esponente di Al Qaeda in Arabia Saudita e tra i più convinti sostenitori dell'uso di Internet. Fino alla sua uccisione, nel 2003, l'islamista ha prodotto un gran numero di articoli pratici destinati a quanti volevano aderire alla Jihad. Il documento prospetta una teoria del ‘domino’, da applicare contro le forze che partecipavano, nel 2003, alla coalizione multinazionale in Iraq. L'obiettivo è quello di colpire un paese dopo l'altro per provocare crisi nelle opinioni pubbliche e isolare progressivamente gli Stati Uniti. In particolare l'autore, mostrando una buona conoscenza delle dinamiche politiche occidentali, prende in esame Polonia, Gran Bretagna e Spagna. Proprio quest'ultimo paese è stato al centro - e continua ad esserlo - del bersaglio della propaganda qaedista che invita a liberare l'Andalusia araba. Il testo è la prova del legame? In termini politici la risposta è affermativa, altra cosa se esaminiamo i risvolti "militari" in quanto i criminali hanno goduto di un’ampia autonomia. E' diverso, invece, il quadro delle bombe di Londra dell'estate 2005. Il commando ha agito in completa solitudine, ma alcuni dei suoi membri hanno avuto un contatto operativo con esponenti qaedisti in Pakistan. E la Al Qaeda centrale è riuscita a gestire, anche se con un po’ di ritardo, la fase mediatica. Il 31 agosto la televisione Al Jazeera ha trasmesso un video in due parti: nel primo vi appariva il presunto capo della cellula, Mohammed Siddique Khan, nel secondo Ayman Al Zawahiri, ideologo di Al Qaeda, che afferma: "Il benedetto raid di Londra è uno schiaffo in faccia agli arroganti crociati. Noi lo abbiamo ripetuto tante volte e ora vi stiamo avvertendo ancora. Tutti coloro che prendono parte all'aggressione in Iraq, Afghanistan, Palestina. Noi risponderemo nello stesso modo". Il 6 luglio di un anno dopo, nell'anniversario del massacro, viene diffuso un video con Shehzad Tanweer, un altro dei kamikaze, che pronuncia una frase ricorrente nel vocabolario estremista: "Noi amiamo la morte nel modo in cui voi amate la vita". Nella clip spunta ancora Al Zawahiri che sostiene che i due militanti hanno frequentato un campo di addestramento di Al Qaeda. Rispetto a quanto avvenuto in Spagna, il caso britannico appare più omogeneo ad Al Qaeda. Ma in entrambe le situazioni - come spesso accade per questo tipo di terrorismo - restano ampie zone d'ombra che anni di indagini non sono riuscite a illuminare. La base virtuale Internet è stato trasformato in una grande base virtuale, in una accademia del terrore. Uno strumento utile e fondamentale per la vita civile è stato piegato per soddisfare le esigenze dei criminali. Sarebbe un errore imputare al web la "colpa" di quanto è avvenuto: al pari di altre innovazioni tecnologiche ha applicazioni buone e cattive. Detto ciò è innegabile che i terroristi siano stati capaci di sfruttarne tutti i vantaggi possibili, sostituendo con la rete telematica alcune importanti strutture logistiche e funzioni indispensabili per mantere in vita il movimento. Un semplice simpatizzante collegandosi ad uno delle migliaia di siti islamisti può entrare a far parte della comunità. E’ il primo passo verso l'arruolamento. Frequentando il sito ci si accosta alla realtà jiahdista, se ne colgono le motivazioni e gli obiettivi. E' quasi un bando di reclutamento, dove l'adepto può capire se ha i requisiti necessari. E per attirarlo gli mostrano, sempre su Internet, le immagini cruente di conflitti, i testi di indottrinamento, i pareri teologici, gli scenari di guerra tracciati dai leaders. E non c'è solo il volto di Osama a far da testimonial ma anche quelli di ispiratori minori però influenti. E' un'azione di proselitismo aperta, quasi sotto gli occhi di tutti. I siti piu' duri sono protetti spesso da parole chiave, ma per chi ha il desiderio di entrare nella Jihad non è arduo entrarvi. Questo permette a coloro che non possono recarsi nel santuario afghano o a quanti vivono in paesi dove i controlli di sicurezza sono severi - pensiamo ad alcuni stati del Medio Oriente - di affacciarsi alla finestra virtuale e di osservare quello che accade. Un'inchiesta di stampa pubblicata, nel febbraio 2008, dal quotidiano scozzese "The Edinburgh Journal" ha scoperto come elementi radicali abbiano utilizzato lo spazio "Facebook" per raccogliere universitari britannici che volevano seguire i precetti di capi jihadisti, quali Abu Qatada e Abu Hamza Al Misri. In un articolo si precisava come la "guerra santa" fosse un dovere individuale per qualsiasi musulmano, si legittimava l'uso del martirio, si sottolineava che "nessun permesso (dei parenti) è richiesto per poter aderire alla Jihad". I seguaci potenziali sono letteralmente bombardati da slogan e dottrina, da inviti all'azione e al martirio. Messaggi virtuali rivolti soprattutto a quanti non hanno la possibilità di arrivare dove si combatte. Sarebbe però superficiale e pericoloso considerare "terrorista" chi trascorre ore davanti al pc a consultare il web qaedista. Con Internet si entra in un primo cerchio, molto esterno, dove ci si conosce solo con pseudonimi e nomi di guerra. Servirà del tempo prima che il futuro militante possa entrare nel secondo, composto da quanti sono parte di un network diffuso. E non è detto che ci riesca. Con Internet ci si accosta ad un modo di pensare, di vedere il confronto con l'Occidente, di considerare l'adesione alla Jihad e non necessariamente ad Al Qaeda come la sola risposta ai problemi personali e del mondo. E' una comunione di intenti. Per costruirla, i propagandisti hanno a disposizione alcune carte che si rivelano spesso convicenti. 1. Il modello - Terroristi famosi, come Al Zarkawi o il saudita Al Moqrin, e anonimi guerriglieri sono presentati come un modello da seguire. A questo servono biografie dei caduti, discorsi, azioni. Le organizzazioni laiche o i partiti insurrezionali quando perdono un capo tendono a nasconderne l'uccisione mentre i qaedisti sono fieri nell'annunciare la caduta del mujahed. 2. Il sacrificio - L'esaltazione del martirio, la teologia della morte, contribuiscono a costruire un consenso sociale che spinge l'individuo a voler entrare in una organizzazione. Su Internet si ricrea l'ambiente che ha sostenuto, ad esempio, la tattica dei kamikaze nella società palestinese e in alcuni settori limitati di quella irachena. Immolarsi diventa la pratica comune che porta onore, rispetto, considerazione. Un comune senso fortificato con un uso sapiente di immagini e parole: il Paradiso, il verde delle montagne, la purezza dell'acqua, il coraggio del leone. 3. La sofferenza - I propagandisti raccontano le sofferenze dei musulmani nel mondo. I morti dell'intifada, le vittime in Cecenia, i civili uccisi in Iraq rappresentano una ferita sempre aperta. Per vendicare i "loro" morti i simpatizzanti possono decidere di passare all'azione. 4. Il complotto - Tutto ciò che accade è frutto di un complotto ordito dagli Stati Uniti, Israele, i "neo crociati", gli ebrei, gli ex colonialisti. L'idea è sempre quella di una Jihad difensiva, che permette le tattiche più sanguinose. Se un attentatore suicida provoca la morte di altri musulmani - evento ripetutosi centinaia di volte in Iraq e in Algeria - si tende a presentare queste vittime come dei "martiri inconsapevoli". 5. La Jihad - La lotta ha una dimensione religiosa, è benedetta da Allah. Un simpatizzante può redimersi compiendo un atto superiore e "nobile" legato alla causa. E chi ispira i militanti ha mille strade da indicare: l'Iraq resta la meta principale, ma ci sono anche l'Algeria, la Somalia, il Pakistan. L'addestramento Un buon numero di siti contengono informazioni di natura prettamente militare ed hanno l'ambizione - spesso eccessiva - di voler sostituire un vero campo di addestramento. Per non cadere nelle facili generalizzazioni si deve riconoscere che le applicazioni pratiche di quanto appreso sul web non sono automatiche. Non basta leggere un manuale o una rivista di armi "on line" e pensare di essere pronto a combattere. E' vero, però, che l'offerta è ampia. Vediamo in sintesi i caposaldi. 1) Uso delle armi da fuoco e caratteristiche delle stesse. 2) Tecniche di guerriglia: dalla preparazione di una imboscata alla creazione di rifugi. 3) Come si vive in un paese nemico. Grande enfasi è dedicata alle tecniche di contro-pedinamento e alle misure per evitare di essere intercettati. 4) Istruzioni per preparare trappole esplosive: con l'uso di veicoli, moto, pentole a pressione, bombole di gas. Alla base ci possono essere ingredienti militari (questo vale per teatri come l'Iraq, la Palestina) o civili (da usare in Europa). 5) Tecniche per l'eliminazione di un bersaglio. 6) Sicurezza delle comunicazioni: sono nati programmi criptati, in diverse versioni, per proteggere gli scambi di email. 7) Programma di informazione: alcuni militanti, basati in Scandinavia, hanno realizzato nel 2006 una guida per condurre ricerche sulla rete, per trattare le foto con i computer, per diffondere in modo tempestivo le notizie riguardanti i ribelli. 8) La ricognizione: i terroristi, in alcune occasioni, hanno cercato di utilizzare il programma di immagini satellitari "Google Earth" per studiare la zona di un agguato. Due esempi: gli estremisti algerini hanno pianificato un attacco contro un bus di tecnici stranieri alla periferia di Algeri; i membri delle Brigate Al Kassam di Hamas hanno usato le foto per i lanci di razzi contro Israele. 9) Contro-intelligence: elaborazione di studi su tecniche e comportamenti dei Servizi Segreti occidentali. Un esempio su tutti: le oltre 150 pagine scritte da un militante egiziano sul modus operandi della CIA. Alcune di queste lezioni hanno sicuramente maggiore impatto se il qaedista vive in territori, come quelli iracheno e afghano, dove può sperimentare e quindi passare all'azione. Il Pentagono ha più volte rilevato come ci sia stato un travaso di informazioni da un teatro all'altro. Uno scambio reso possibile sia dai viaggi di terroristi itineranti sia dalla diffusione di "materiale didattico" scaricato da Internet e inciso su cd rom. Tra le lezioni più diffuse quelle che insegnano a preparare ordigni con materiale reperibile sul mercato civile. Un ingrediente base è il fertilizzante, ma i qaedisti si sono industriati anche con altri prodotti rivelatisi letali. A Londra, nel luglio 2005, hanno usato degli zaini-bomba costruiti nel bagno della loro abitazione. Non diversa la tecnica seguita da un nucleo neutralizzato in Germania nel 2007. In entrambi i casi, però, almeno uno dei militanti aveva avuto contatti personali con gli artificieri di Al Qaeda in Pakistan. La minaccia delle bombe artigianali viene vista con una doppia lente. La prima tende a evidenziare la pericolosità di un'arma diffusa e semplice che riduce di molto l'aspetto logistico e i rischi di essere scoperti. La seconda, invece, tende a ridimensionarne la portata. La ricercatrice svedese Anne Stenersen ha sottolineato come le istruzioni fornite siano spesso velleitarie, con suggerimenti concreti ma molto rudimentali. La studiosa ha individuato almeno dieci manuali: sei per le armi chimiche, due sulle biologiche, una sulle radiologiche (bombe sporche) e uno, di ben 480 pagine, sulla bomba atomica. La sua collega olandese Marten Nieuwwenhuizen ha invece eseguito dei test tenendo conto delle informazioni offerte su Internet. A suo giudizio "non funzionano quasi mai". Ma l'esperienza insegna che con l'aiuto della tecnologia e con il tempo, si possono colmare le lacune. Sono considerati temibili i dossier dedicati alle operazioni suicide perchè si è visto che le diverse fazioni si copiano una con l'altra pur agendo a migliaia di chilometri di distanza. Le informazioni sono rintracciabili su Internet e, in alternativa, sul materiale di supporto costituito da videocassette, brevi clip e lunghe lezioni su cd rom. Molto "popolare" un filmato, sequestrato dai Servizi di Sicurezza israeliani, dedicato agli uomini bomba. Oltre alla meticolosa preparazione degli ordigni, viene mostrata una esercitazione. Gli artificieri del terrore hanno piazzato dei manichini dentro un vecchio bus ed hanno poi fatto detonare la carica. Nel video, l'istruttore si preoccupa di spiegare anche quale sia la posizione ideale per provocare un gran numero di morti. Per gli 007 la prova potrebbe essere stata eseguita in un campo di addestramento in Libano. Buona parte delle attivita' di propaganda e informazione sono gestite da piccoli team di persone. A volte non più di due o tre elementi, particolarmente bravi nell'uso del computer. Al Qaeda ne ha un disperato bisogno, al punto che in uno degli ultimi videomessaggi di Abu Al Yazid, considerato il nuovo general manager del movimento, ha rivolto un appello pressante agli esperti di informatica: unitevi a noi, è stato l'appello. Nel teatro iracheno, la filiale locale fondata da Al Zarkawi ha disseminato sul territorio numerose "centrali" che raccolgono i filmati, li rielaborano e poi li diffondono su Internet. Altrettanto ampio il network nelle regioni tribali pachistane. Queste postazioni rappresentano la fase terminale di un processo in tre atti. Il primo è la ripresa filmata dell'attacco: viene fatta con una videocamera o un telefonino. Il secondo è la rielaborazione del prodotto: la clip puo' essere "sparata" grezza, ma di solito preferiscono sottoporla ad un lavoro di editing. Si inseriscono altre scene, sottotitoli, colonne sonore. E' la fase che è cresciuta maggiormente in questi anni, grazie a quanto è offerto dalla tecnologia. Per alcuni esperti è evidente il tentativo dei militanti di costituire un parallelo con quanto trasmesso dalle grandi catene tv e dargli un tono internazionale. Con sempre maggiore frequenza i filmati sono accompagnati da trascrizioni in inglese, francese e tedesco. Il terzo e conclusivo atto è il lancio. I video "pesanti" vengono divisi, scaricati su chiavette Usb e poi rilanciati su Internet. Difficile rintracciare il responsabile. Oggi puoi acquistare, con l'equivalente di poche decine di euro, il dominio di un sito negli Stati Uniti e registrarlo con un'identita' falsa intestata a qualcuno che risiede a Mosca o a Singapore. Se la polizia si mette in caccia arriverà nella maggior parte dei casi solo ad un indirizzo e non ad una persona. E anche la chiusura del sito si rivela una misura relativa: è accaduto che sia stato riaperto nell'arco di 48 ore appoggiandosi ad un altro server. La facilità con la quale ci si può nascondere nella giungla virtuale ha spinto alcuni qaedisti a escogitare una forma di autofinanziamento. Organizzano truffe telematiche, rubano identità e vendono dati. La banda guidata da un giovane marocchino basato a Londra, conosciuto nell'ambiente come "Irhabi 007", è riuscita a incassare 3,5 milioni di dollari. Partito dal nulla, senza alcuna conoscenza nell'ambiente estremista, il nord africano è diventato uno tra i più importanti propagandisti del qaedismo. Un'abilità e un prestigio riconosciuti anche dalla fazione di Al Zarkawi che ne avevano fatto la sua sponda in Occidente. "Irhabi 007", tra l'altro, ha contribuito alla strategia della tensione ai danni dell'Italia alimentata con messaggi e minacce nell'estate del 2004. Un anno dopo il militante sarà smascherato in modo quasi fortuito: la polizia trova il suo numero di telefono nel corso di una retata di presunti terroristi a Sarajevo, in Bosnia. Il caso del nord africano racchiude la nuova forma di estremismo fatto di tastiera, video e collegamento veloce. I protagonisti presidiano la loro trincea virtuale, accontentandosi di vivere l'esperienza jihadista sul web. In alcuni casi trascorrono anni davanti al pc, fantasticando azioni, sognando il martirio, nutrendosi di tutto ciò che offre la rete. Possono rimanere in questa situazione di attesa per molto tempo: lo ha dimostrato l'indagine della Digos su un militante che aveva trasformato il suo appartamento nei pressi di Perugia in una scuola di terrorismo. Altri combinano teoria e pratica. E' la storia di Mohammed l'egiziano, arrestato a Milano e legato all'inchiesta sulla cellula madrilena. Era un mago del computer, dei collegamenti con i cellulari, si faceva ispirare via Internet, ma al momento opportuno poteva intervenire sul campo. Se la sfida del qaedismo si è frammentata in tanti fronti regionali e locali, quella su Internet proietta una minaccia globale. Ed è qui la sua forza, difficile da misurare. Come lo è la percezione. Le sortite possono essere considerate delle "bombe di carta", ingigantite dal sistema dei media e dal timore suscitato da un fenomeno che continua ad essere visto non in modo uniforme. Cambiano gli esperti, mutano le latitudini, pesano gli interessi e si oscilla tra quanti vedono il movimento di Osama in fase calante e coloro che ritengono sia pronto ad un grande ritorno. Guardando quanto è avvenuto nel dopo 11 settembre si e' spinti a dare ragione ai primi, esaminando il volume della propaganda sul web si opta per la seconda opzione. La risposta deve essere calibrata, lasciando perdere tendenze censorie. Sono controproducenti e inefficaci. Chiudi un blog, ne spunta subito un altro. Quando non possono usare il computer, si aiutano con il telefonino. L'ultima novità annunciata da Al Qaeda è il perfezionamento di software e il ricorso a cellulari in grado di ricevere file robusti. Si può intervenire mettendo fuori gioco dei siti, denunciando chi fa apologia del terrorismo. Ma costituisce solo un passo. Meglio creare siti civetta per disinformare gli estremisti. Lo fanno gli americani, gli inglesi e con buon successo anche taluni paesi colpiti dalla violenza politica. Infiltrarsi in un forum - a patto che sia provato il legame con l'eversione - equivale ad avere un informatore all'interno di una cellula. Ciò non significa che si stia monitorando un gruppo, bensì analizzando le tendenze. Si captano gli umori, si intercettano i temi sensibili. Può essere un lavoro tedioso, frustrante e a volte inutile. Ma è un punto di partenza, provato che infiltrare una vera cellula è quasi impossibile. E' sicuramente interessante sfruttare l'irresistibile tendenza degli estremisti a raccontarsi e a raccontare per intuire le prossime mosse. Durante gli anni di piombo bisognava aspettare le risoluzioni strategiche per delineare il futuro delle Br. Adesso queste linee le possiamo avere quasi in tempo reale. Va però mantenuta la freddezza necessaria nel raccogliere gli imput che trapelano dalla nebulosa, serve digerirli, senza trovarsi a inseguire tutti gli allarmi che i terroristi fanno risuonare. Perchè è esattamente la loro tattica. Se i criminali provano ad allargare lo schieramento delle forze di sicurezza - serve anche a questo la guerra delle parole - la contromossa deve essere quella di ridurlo. Con iniziative che spettano ai Governi. Togliendo pretesti non ai terroristi - che ne avranno sempre uno di riserva - ma a quegli ambienti che osservano incuriositi e a volte ammirati su Internet la propaganda osamiana. La sfida con Al Qaeda è su questo terreno. Quindi servono politiche che riducano la distanza dal mondo islamico. Dialogo e tolleranza, a costo di qualche sacrificio, non si traducono automaticamente nella svendita della sicurezza. Vanno aiutate quelle voci, oggi tremebonde, che magari sono diffidenti verso l'Occidente ma hanno poco da spartire con lo stragismo. La neutralità, vista la tensione Nord-Sud, sareb-
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