GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 1/2008
I nuovi "bisogni di sicurezza"

Intervista al Capo della Polizia Antonio Manganelli
a cura di Pio MARCONI


- Nato ad Avellino nel 1950, si laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Napoli e si specializza in Criminologia Clinica all’Università di Modena.
-Dagli anni ‘70 opera nel campo delle investigazioni legando il suo nome anche alla cattura di alcuni latitanti di spicco delle organizzazioni mafiose.
- E’ stato docente di Tecnica di Polizia Giudiziaria presso l’Istituto Superiore di Polizia ed è autore di numerose pubblicazioni scientifiche in materia di sequestri di persona e di tecnica di polizia giudiziaria, tra cui il manuale pratico delle tecniche di indagine ’Investigare’, Cedam, 2007, scritto con il Prefetto Franco Gabrielli.
-Ha diretto il Servizio Centrale di Protezione dei collaboratori di giustizia ed è stato questore di Palermo e di Napoli.
-Prefetto di Ia classe, è stato Direttore Centrale della Polizia Criminale, Vice Direttore Generale della Pubblica Sicurezza e, nel 2001, Vice Direttore Generale della Pubblica Sicurezza con funzioni vicarie.
-Dal 25 giugno 2007è il Capo della Polizia.


La paura del delitto, i sentimenti di insicurezza continuano a penetrare nella società italiana. Lo segnalano esperienza comune e sondaggi: non solo quelli effettuati in occasione di ricorrenti dolorosi eventi. Milioni di pagine hanno interpretato questi sentimenti. Le nuove paure sono il frutto di una trasformazione dei rapporti sociali? L'effetto della dissoluzione di certezze legate alla crisi del sistema di Welfare? Il timore delle grandi migrazioni? O la conseguenza di inadeguati investimenti pubblici? Le analisi sulle cause di un allarme sociale sono legittime, utili, lodevoli. Non sempre aiutano a trovare i rimedi. Oltre alle cause vanno esaminate le modificazioni, cioè la dinamica dei fenomeni. E oggi, in materia di allarmi sociali e di paure per il crimine si notano alcuni cambiamenti.
Il bisogno di sicurezza si è deideologizzato, non si manifesta come corollario di una visione della società. La sicurezza viene considerata un bisogno di base, privo di etichette, fondamentale per l'esistenza e la vita civile. Si manifestano inoltre nuovi atteggiamenti di reazione al crimine.
Il coraggioso risveglio degli imprenditori in un'area colpita dal crimine di mafia è un sintomo sicuramente apprezzabile. La richiesta di azione contro il crimine organizzato non è più semplice declamazione ma è diventata impegno collettivo. La società civile non si è limitata a chiedere interventi pubblici ma ha voluto reagire ed agire.
Nel nuovo contesto caratterizzato da una pluralità di minacce e dall'emergere di positive reazioni sociali qual' è lo stato della sicurezza? Come si può collegare una strategia della prevenzione ai bisogni sociali? Con quali azioni si può rispondere alle domande che vengono dalla società civile? E ancora: ci sono incognite che riguardano il contesto internazionale? La violenza politica può dirsi sconfitta ed emarginata dalla scena italiana? Sono adeguate le politiche e le norme che disciplinano la prevenzione e l’investigazione? Su tutto ciò ho posto molte domande ad Antonio Manganelli che dal 25 giugno 2007 è Capo della Polizia.




Perché tanto allarme nelle città, nelle periferie, nei piccoli centri, nelle strade, sui mezzi pubblici, nelle case? Che cosa fa paura? La quantità del crimine? La qualità? Gli autori?
Negli ultimi anni, soprattutto all'indomani dell'11 settembre 2001, si è diffuso, anche mediaticamente, un significativo senso di insicurezza che coinvolge tutti, spesso in maniera irrazionale e complessa. Siamo di fronte ad un fenomeno caratterizzato da una molteplicità di fattori: personali e collettivi, oggettivi e soggettivi, sociali, relazionali, culturali e psicologici. Un fenomeno, peraltro, non sempre perfettamente corrispondente alla realtà oggettiva di pericolo e di quella riconducibile ai dati sulla criminalità.
Le più importanti ricerche sociologiche concordano sul fatto che gran parte dei fattori maggiormente ansiogeni sono quasi sempre svincolati da veri e propri fenomeni criminali, quelli - in altri termini - inquadrabili in fattispecie penali. Si pensi alla precarietà del posto di lavoro, alla frequenza degli incidenti mortali sul lavoro, alla disoccupazione, alla c.d. dequalificazione di massa, alla minaccia terroristica generalizzata, alla questione pensionistica, a quella dei salari, all'insicurezza stradale, al bullismo nelle scuole, al degrado sociale, all'aggressività anche solo verbale, alle prepotenze, agli atti di inciviltà e così via. Se ci riflettiamo solo un momento ognuno di questi fenomeni è in grado di incidere sulla percezione di sicurezza che ciascuno di noi, quotidianamente, si costruisce nel proprio intimo.
Il villaggio globale in cui oggi viviamo è per se stesso generatore di insicurezza: nessuno inventa i pericoli, ma certamente i media li concretizzano, facendo violentemente entrare nelle case di ognuno di noi ogni genere di violenza verificatasi in qualsiasi parte del mondo.
È altrettanto indubbio che soluzioni urbanistiche ed architettoniche hanno talvolta determinato gravi conseguenze sotto il profilo della sicurezza e della vivibilità quotidiana. La costruzione, spesso poco razionale, di quartieri-ghetto ha concentrato in realtà fisiche sicuramente negative popolazioni già contraddistinte da problematiche di ordine sociale ed economico che difficilmente riescono a trovare una positiva soluzione in quei contesti.
Sicuramente la quantità, la qualità e le caratteristiche degli autori dei crimini costituiscono fattori importanti nella genesi della paura quotidiana, ma non dobbiamo dimenticare i tanti fattori, che potremmo definire "esterni" al mondo del crimine e che devono essere affrontati a 360 gradi con uno schieramento di attori evidentemente non confinabili solo a quelli del mondo delle polizie.


La prevenzione è unica in tutto il Paese od occorrono delle strategie differenziate? Considerando la quantità e la qualità del crimine, gli allarmi, i bisogni.
Intanto bisogna intendersi su cosa significhi prevenzione. Nel caso volessimo ricondurre tutto nell'ambito delle competenze normativamente attribuite alle Forze di polizia, allora la prevenzione si identifica essenzialmente nell'attività di controllo dei territori, sia fisici che virtuali, al fine di conseguire la piena conoscenza di ciò che vi accade e prevenire la commissione non solo di atti criminali, ma anche di manifestazioni di inciviltà o aggressività; queste ultime allo stesso modo in grado di produrre insopportabili tensioni sociali e sensazioni di insicurezza nella gente.
Così intesa la prevenzione - che potremmo definire "di polizia" - deve essere considerata compito primario delle Forze di polizia, da esercitare attraverso una presenza visibile e costante, che muove, ovviamente, da un continuo ed attento esame sull'adeguatezza della dislocazione delle forze sui diversi territori. Non credo tanto ad una diversificazione delle strategie, quanto ad un'azione di controllo che va quantitativamente calibrata secondo le diverse problematiche che esprime ciascun territorio e le risposte alternative e concorrenti che possono essere offerte dalle forze sane, istituzionali e no, dei vari contesti sociali.
La prevenzione "di polizia", però, si limita a rendere più difficile la commissione di un reato in una determinata situazione, ma non riesce a ridurre il numero delle persone disposte a commetterlo, non incidendo minimamente sulle cause che possono portare a questo eventuale comportamento. Il potenziale delinquente si sposta, anche solo di pochi metri, per colpire chi non sia protetto sul piano situazionale.
Dobbiamo allora fare riferimento alla c.d. prevenzione sociale; dobbiamo parlare della complessità degli interventi che la società civile è in grado di mettere in campo; questo concetto assume una connotazione di amplissimo respiro e coinvolge tutti gli attori in grado di incidere positivamente sul vivere quotidiano sotto il profilo sociale, politico, economico e culturale. Si pensi solo a quanto gli Enti facenti parte del c.d. "Sistema delle autonomie" sono in grado di fare in tema di vivibilità urbana, di scuola, di viabilità, di salute e così via.
Pur consapevole che non esiste una ricetta vincente, credo che occorra saper opportunamente "mixare" l'una e l'altra soluzione, adattandone gli strumenti alle diversità che caratterizzano i variegati territori del nostro Paese.


Che cosa si fa per rendere l'offerta di sicurezza adeguata alla domanda? Gli Enti Locali, le Regioni, le Associazioni vengono ascoltate? La composizione dei Comitati per l'ordine e la sicurezza è ancora adeguata? Non risente troppo di vecchie emergenze?
In ventisette anni di applicazione della legge 121, credo che si siano fatti notevoli passi in avanti per adeguare il "sistema sicurezza" del nostro Paese ai profondi mutamenti politici, istituzionali, sociali ed economici verificatisi.
Spetta ai poteri legislativo ed esecutivo individuare i necessari strumenti normativi ed amministrativi per aggiornare costantemente i ruoli che ciascuna Istituzione, centrale, regionale e locale, possono avere nel “sistema sicurezza” del nostro Paese. Io posso dire che esiste già un'ampia e fattiva collaborazione tra le Forze di polizia, da una parte, le Regioni, gli Enti locali e le varie Associazioni tematiche, dall'altra. Una collaborazione basata su un dialogo continuo che ha già prodotto momenti di intesa molto importanti: penso agli Accordi ed ai Protocolli stipulati con molte Regioni e con numerosi Comuni.
In ordine alla composizione dei Comitati per l'ordine e la sicurezza non credo che sia tanto un problema di adeguatezza dei possibili componenti, anche perché i Prefetti hanno la facoltà di invitare chi ritengono importante per affrontare le varie questioni all'ordine del giorno.
Piuttosto, esiste un problema di responsabilità che andrebbero meglio individuate ed attribuite ai soggetti istituzionali diversi dalle Forze di polizia, affinché si realizzi davvero un effettivo e concreto loro coinvolgimento


La Confindustria in Sicilia ha lanciato un fermo messaggio contro pizzo e mafia. Non sarebbe opportuno coinvolgere periodicamente le organizzazioni dell'impresa, del lavoro, della società nelle grandi scelte di strategia della sicurezza?
Mi permetta di esprimere nuovamente il mio plauso in merito alla decisione adottata, lo scorso settembre, dal direttivo regionale degli industriali siciliani secondo la quale gli imprenditori che non si ribelleranno al racket delle estorsioni, pagheranno il pizzo o in qualunque forma collaboreranno con la mafia saranno espulsi da Confindustria. È un bellissimo esempio di reazione della società civile.
La mafia, infatti, non può e non deve essere considerata solo una questione di ordine pubblico. Questa netta presa di posizione contro il pizzo rappresenta un concreto passo avanti nella costruzione di un "humus sociale" capace di neutralizzare le organizzazioni mafiose, molto più efficacemente di quanto possano fare le Forze di polizia e la Magistratura.
Sulla necessità di mantenere e rafforzare il dialogo con le organizzazioni del mondo economico-sociale sono fermamente convinto. Il Dipartimento di Pubblica Sicurezza fa questo da anni. Il Programma Operativo "Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno", che investe fondi strutturali comunitari per il miglioramento delle condizioni socio-economiche delle regioni più svantaggiate del nostro territorio, viene reiterato da più di dieci anni proprio attraverso una collaborazione strettissima, oltre che con le Regioni e gli Enti locali, anche con il mondo dell'imprenditoria e delle rappresentanze dei lavoratori.


Il crimine commesso dagli stranieri fa paura. Modifica i caratteri di popolazioni tradizionalmente portate all'accoglienza. Che fare? Come adeguare le politiche degli ingressi ai problemi della sicurezza?
Anche nel nostro Paese si assiste ad una crescente inquietudine nei confronti di categorie e soggetti ritenuti tradizionalmente pericolosi, tra cui si collocano anche gli immigrati.
Molti italiani temono che la presenza straniera possa provocare un aumento della criminalità e molti legano l'esigenza di adeguate politiche di integrazione proprio al timore di un'immigrazione criminale.
Reputo queste opinioni in parte svincolate dalla realtà dei fatti: non è detto che effettivamente alle paure manifestate corrisponda una crescita della criminalità o che tra gli immigrati si registri effettivamente una maggiore attitudine al comportamento deviante.
È sicuramente vero che la devianza può rappresentare una delle possibili vie che si aprono di fronte agli immigrati in mancanza di possibilità di integrazione nella società di accoglienza; tuttavia, talvolta, l'approdo al comportamento deviante passa attraverso complessi percorsi che non portano necessariamente alla totale emarginazione, ma richiedono l'interazione con la società di accoglienza, sia pure con una componente marginale di essa rappresentata dalle persone dedite al crimine.
Occorre però anche dire che tra i possibili comportamenti devianti ne esiste uno che è caratteristico ed esclusivo della popolazione straniera: l'ingresso e il soggiorno illegale sul territorio italiano.
Probabilmente gli sbarchi clandestini di massa, che rappresentano, comunque, la punta di un iceberg, sono uno degli aspetti dell'immigrazione straniera che più colpiscono la sensibilità e l'immaginario collettivo, anche per la risonanza che ottengono sui mass media: sarà difficile per diverse generazioni di italiani dimenticare l'immagine delle navi relitto che portarono centinaia di profughi disperati nel nostro Paese.
Occorre dire, peraltro, che i principali flussi di immigrazione clandestina verso l'Italia sono costituiti spesso da migranti vittime dell'odioso fenomeno della tratta degli esseri umani, gestito da organizzazioni criminali di matrice etnica e finalizzato allo sfruttamento sessuale e del lavoro ovvero all'impiego di minori nell'accattonaggio. In tale attività sono coinvolti soprattutto gruppi criminali stranieri.
Non spetta certo al Capo della Polizia modificare le politiche degli ingressi, sia regolari che clandestini, degli extracomunitari.
Sono però fermamente convinto che un'azione di contrasto, piena e produttiva, al fenomeno dell'immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani non può che veder coinvolti sinergicamente tutti i Paesi dell'Unione Europea.
La nostra attività investigativa su tali organizzazioni criminali è condotta proprio attraverso la rete di cooperazione internazionale di polizia; su tale fronte l'adozione di specifici protocolli di collaborazione fra i Paesi di provenienza e quelli di destinazione nonché lo scambio di informazioni attraverso i canali Interpol e gli Ufficiali di collegamento hanno permesso di conseguire positivi risultati.


L'immigrazione, la coabitazione di etnie diverse, nell'occidente contemporaneo ha in un passato anche recente favorito l'insorgere della violenza politica o dell'estremismo nazionalista? Ci sono oggi in Italia sintomi di intolleranza, di razzismo, di violenza etnica? La violenza anti-immigrati manifestatasi in alcuni quartieri è un episodio passeggero o un sintomo che deve destare preoccupazione?
Nell'aprile dello scorso anno un giovane nomade, Marco Ahmetovich, alla guida del suo furgone ed in evidente stato di ebbrezza alcolica, provoca la morte di quattro ragazzi ad Appignano del Tronto. L'episodio genera grande sdegno e commozione nella popolazione, suscitando immediate reazioni in ambito locale, culminate con l'incendio del "campo" - abbandonato la sera precedente per paura di ritorsioni dai circa 40 residenti - dove viveva ed un'iniziativa di piazza con corteo. Il clamore mediatico dato alla successiva concessione degli arresti domiciliari all'Ahmetovich - detenuto per una pregressa condanna - e la preannunciata ipotesi di sfruttarne l'immagine per promuovere una linea di abbigliamento, finirono con l'innescare ulteriori manifestazioni di intolleranza con atti intimidatori nei confronti del legale del nomade, del magistrato che ne aveva disposto la scarcerazione e del titolare dell'appartamento occupato dall'Ahmetovich.
Nell'ottobre successivo, a Roma, Giovanna Reggiani viene aggredita da un giovane rumeno, Nicolae Mailat, e muore a seguito delle violenze subite. L'episodio fece registrare in più parti d'Italia un significativo incremento di episodi di intolleranza verso cittadini rumeni di chiara natura emulativa e numerose furono le scritte murali di stampo razzista e xenofobo. Il giorno seguente alla morte della Reggiani un gruppo di giovani aggredì alcuni rumeni nel parcheggio di un centro commerciale in una zona periferica della capitale. Per tale episodio il 26 febbraio scorso sono stati arrestati alcuni elementi di destra responsabili, tra l'altro delle devastazioni avvenute l'11 novembre, giorno della morte di Gabriele Sandri.
Paradigmatici nella loro evoluzione sostanziale, i due episodi evidenziano chiavi di lettura alquanto significative. Nel secondo caso emerge come gli atti di violenza avvengano in località già interessate da degrado ambientale proprio dei grandi centri urbani. E d'altronde le oggettive difficoltà di realizzare tempestivamente lo sgombero di insediamenti abusivi, con il conseguente aumento di presenze irregolari, è visto come una sorta di abbandono da parte delle amministrazioni pubbliche al quale si può far fronte solo con un "intervento diretto": va però precisato che la quantità di insediamenti rispetto al numero di episodi di intolleranza verificatisi, denota la mancanza di un vero e proprio atteggiamento razzista.
L'episodio avvenuto nella sana provincia ascolana rafforza, da parte sua, la considerazione in virtù della quale il generale quadro positivo, che deriva dalla ridotta entità degli eventi, non deve indurre a sottovalutare il rischio connesso al possibile coinvolgimento di gruppi o singoli estremisti che invero, sfruttando strumentalmente l'onda emotiva, potrebbero innalzare il livello delle condotte criminose cercando sempre maggiore visibilità mediante azioni di forte impatto.
E' di chiara evidenza come la percezione di insicurezza (che aumenta in maniera esponenziale in tali circostanze) venga facilmente cavalcata da gruppi già ideologizzati in chiave razzista ed anti-immigrati, che alimentano la protesta delle popolazioni cercando di acquisire consensi.
Se ne trae, allora, l'opinione che le azioni anti-immigrati non siano radicate ma si manifestino, in forma anche violenta, in occasione di eventi delittuosi che destino particolare emozione nella collettività.
Ma c'è di più. La crescente presenza (soprattutto nelle grandi città) di stranieri che, tendenzialmente, sono orientati ad aggregarsi per gruppi etnici omogenei, finisce col costituire un ulteriore elemento di criticità tale da implementare, esasperandolo, il livello di insicurezza percepita in alcune comunità: emblematici sono i casi del lancio di bottiglie incendiarie all'interno di campi nomadi della capitale, delle provincie di Genova e Lecco nonché contro centri culturali islamici dell'hinterland milanese.
Aspetto, quest'ultimo, che rischia di produrre, nel tempo, processi di isolamento ed emarginazione dai quali possono poi inevitabilmente svilupparsi condotte radicali e violente.


Le manifestazioni violente della criminalità organizzata si allargano. Dilagano in Campania e in Calabria. Sono sufficienti i mezzi ordinari per contrastare quei fenomeni o è auspicabile tornare a terapie d'urto quali un inasprimento delle norme, un nuovo 41 bis, una riedizione dei vespri siciliani?
Sicuramente il fenomeno del crimine organizzato mantiene nel nostro Paese caratteristiche di pericolosità che necessitano una costante azione di prevenzione e di contrasto esercitata sempre ai massimi livelli, tenendo conto anche delle peculiarità che caratterizzano le diverse tipologie di manifestazioni criminose associative.
La mafia siciliana, ad esempio, continua ad essere condizionata dall'organizzazione mafiosa Cosa Nostra che mantiene una struttura fortemente gerarchizzata in senso verticistico, perseguendo una linea strategica di "basso profilo" e di "pacificazione interna" orientata a non modificare gli equilibri raggiunti.
Anche la 'ndrangheta è sempre altamente competitiva e sempre più orientata alle attività criminali transnazionali, prima fra tutte il traffico di stupefacenti, in particolare di cocaina.
Diversamente, la camorra si presenta ancora oggi non come struttura di tipo verticistico ma come pluralità di aggregazioni criminali, ora alleate, ora in conflitto tra loro, anche se tale caratteristica non ne riduce affatto la potenzialità offensiva né la sperimentata capacità di concludere affari con gruppi criminali esteri.
Altrettanto pericolosa appare la criminalità pugliese, organizzata in tante consorterie, spesso in sanguinoso conflitto tra loro.
Né possiamo dimenticare che nel nostro Paese operano, da diversi anni, anche aggregazioni criminali costituite da cittadini extracomunitari, che presentano caratteristiche proprie a seconda dell'etnia di cui sono espressione e che interagiscono non solo con le organizzazioni di riferimento nei Paesi d'origine ma anche con i sodalizi criminali dei Paesi di transito e di destinazione dei traffici illeciti internazionali cui si dedicano.
Mi permetta però di ricordare che l'azione delle Forze di polizia è sempre più forte ed incisiva: soltanto negli ultimi due anni e, in particolare, negli ultimi mesi sono stati catturati moltissimi pericolosi latitanti ancora a capo di organizzazioni di tipo mafioso importanti.
Addirittura dodici facenti parte dell'elenco dei trenta più pericolosi boss sono stati assicurati alla giustizia dopo anni di latitanza: pensiamo a Pasquale Condello della 'ndrangheta, al camorrista Vincenzo Licciardi o, ancora, ai mafiosi Salvatore e Sandro Lo Piccolo, per finire al "capo dei capi", Bernardo Provenzano.
Non credo quindi alla bontà di particolari terapie d'urto, meno che mai all'intervento dell'Esercito. La città sicura non è la città blindata, la città militarizzata (che anzi alimenta la tensione e la percezione di uno stato di insicurezza permanente), ma la città vissuta.
Credo nell'affinamento delle tecniche investigative, degli strumenti di aggressione ai proventi illeciti, dell'azione di prevenzione, ma soprattutto nel riscatto della società civile e produttiva che deve reagire con iniziative simili a quella prima citata di Confindustria siciliana.


Il grande terrorismo internazionale ha colpito a partire dal 2001 gli USA, la Gran Bretagna, la Spagna. Siamo immuni? Quali sono i rischi?
La spirale criminale che colloca gli attentati di New York, Londra e Madrid all'interno di un unico, globale messaggio di terrore, non può ancora dirsi interrotta.
Gli esiti delle indagini con le quali, anche in Europa, sono state sventate progettualità terroristiche grazie alle sinergie delle strutture di intelligence ed antiterrorismo inducono a non ritenere alcuno stato occidentale immune "a priori" da attacchi di matrice estremistica.
A fronte dei successi conseguiti, va purtroppo rilevato come Al Qaeda e le formazioni a questa riconducibili, in particolare quelle operanti nel Nordafrica, abbiano dimostrato un'organizzazione, una capillarità delle proprie articolazioni ed una capacità di comunicare soprattutto sul web tali da sconsigliare ogni abbassamento del livello di guardia.
Specifici motivi di preoccupazione vengono proprio dai sempre più frequenti processi di radicalizzazione che vedono coinvolti cittadini di Stati dell'Unione Europea, spesso immigrati di 2a generazione alle prese con problemi identitari e che rifiutano qualunque integrazione, divenuti facili target per la propaganda jihadista.
Il virus del fanatismo religioso non risparmia nessuno: come non ricordare che gli attentati di Londra e Glasgow del giugno 2007, che solo per una fatalità non hanno provocato vittime tra i civili, sono stati ideati e realizzati da due medici poco meno che trentenni, uno di origine irachena e l'altro indiana, radicalizzatisi in un tempo relativamente breve nonostante, dal punto di vista delle società occidentali, il loro iter di integrazione potesse dirsi completato?
Non essendo stato ancora scoperto un vaccino per immunizzare le nostre società da un virus del genere, la sfida cui sono chiamate le Agenzie di sicurezza, e più in generale di tutte le istituzioni, è quella di intercettare i percorsi di radicalizzazione nel loro divenire, diffondendo quanti più sensori possibile e stimolando la capacità di diagnosi del fenomeno.


Tra i Paesi sviluppati l'Italia è l'unico che, a partire dal 1999, ha visto una ripresa omicida della guerriglia urbana. Le Brigate Rosse hanno vissuto una nuova, breve, stagione. Ci sono minacce di ripresa della violenza politica? All'estrema sinistra? All'estrema destra?
All'indomani delle operazioni condotte contro le Brigate Rosse di Galesi e Lioce, costati come sappiamo un carissimo contributo di sangue, e dell'arresto dei loro epigoni del Partito Comunista Politico-Militare, di quella formazione cioè che ha raccolto l'eredità dell'ala movimentista delle B.R., abbiamo registrato diverse iniziative di solidarietà, talvolta anche violente, che testimoniano il perdurare di fermenti potenzialmente eversivi.
Riveste un ruolo decisivo nella radicalizzazione della protesta il contributo fornito dagli Irriducibili che dal carcere continuano a orientare, in termini di spunti ideologici e programmatici, il dinamismo dei soggetti interessati a sviluppare un percorso rivoluzionario.
Tra queste realtà emergenti, voglio ricordare in particolare l'attivismo del Fronte Rivoluzionario per il Comunismo, sigla che ha recentemente fatto circolare un documento in cui si delinea una rigenerata strategia della guerriglia.
Segnali poco rassicuranti vengono anche dal versante dell'anarco-insurrezionalismo, al cui interno è sempre molto attiva la componente che si propone di innalzare il livello dello scontro con lo Stato ed abbracciare la lotta armata.
Tra l'altro, non va trascurata la possibilità che intorno a specifiche campagne di lotta, come il fronte anticarcerario, possano realizzarsi pericolose saldature tra individualità anarchiche ed ambienti marxisti-leninisti, suscettibili di sfociare in attività operative comuni.
Volgendo lo sguardo alla destra eversiva, registriamo una certa qual effervescenza dell'ambiente, specie durante manifestazioni di piazza. Ad oggi, tuttavia, ancora non si colgono indicatori di una possibile ripresa di attività terroristiche.


Nella Ia Repubblica la lunga permanenza di partiti omogenei al Governo aveva garantito una continuità delle politiche della sicurezza. Dopo il 1994, con l'avvento di un sistema di alternanza, il tema della sicurezza è entrato pesantemente nel conflitto politico. La sicurezza a volte non sembra essere un obiettivo condiviso ma l'oggetto di dure controversie, di strategie confliggenti. Il decreto sulla sicurezza dell'autunno 2007 non è stato mai convertito in legge. Che cosa si potrebbe fare per neutralizzare la questione sicurezza dalle controversie, dalla competizione politica?
Credo che il tema della sicurezza da tempo si collochi al centro del dibattito delle società occidentali, indipendentemente dalle forme e dai sistemi politico-istituzionali di governo, soprattutto perché, in un mondo che rispetto a cinquant'anni fa gode di condizioni di benessere sicuramente maggiori, la sicurezza è qualità della vita dei cittadini.
Cittadini che, contestualmente all'aumento dei livelli quantitativi e qualitativi di partecipazione ai momenti decisionali di gestione della cosa pubblica, sono sicuramente e, direi giustamente, più esigenti in tema di sicurezza, allargando tra l'altro questo concetto ad una serie di condizioni di vita che spesso non sono riconducibili alla violazione di fattispecie penali.
Ritengo anche che la sicurezza costituisca un obiettivo condiviso da tutte le parti politiche e che, sostanzialmente, gli strumenti normativi ed amministrativi individuati ed individuabili dai vari schieramenti per conseguirlo non siano poi così distanti tra loro.
Ecco perché dico che non dobbiamo "neutralizzare" la questione dal dibattito politico, perché proprio questo confronto di idee, se correttamente e fattivamente declinato, può servire a favorire e a rafforzare quella cultura della legalità che considero elemento irrinunciabile se si vogliono veramente ottenere risultati significativi e duraturi.


Da quasi vent'anni l'Italia si è data un nuovo Codice di procedura penale. Il testo ridisegna i rapporti tra accusa e Polizia Giudiziaria e attribuisce alle procure centralità nelle indagini. Il nuovo processo ha influito sulle indagini, sull'efficacia della prevenzione? Occorrono dei correttivi?
Il codice di procedura penale è un buon testo, all'avanguardia tra i Paesi occidentali. Certamente, qualsiasi testo normativo e, in particolare, quelli che regolano le procedure di accertamento e di sanzione delle fattispecie penali, necessita di un costante adeguamento dei relativi strumenti, soprattutto di indagine e di prevenzione, alle esigenze che una società moderna e fortemente in evoluzione prospetta.
Credo che sia molto importante che sui problemi della giustizia si formulino proposte concrete che servano, innanzitutto, a far recuperare la fiducia nello Stato, che cerchino di tranquillizzare la gente e diminuire quel senso di insicurezza di cui abbiamo parlato.
Un punto ritengo assolutamente centrale in ogni proposta di modifica del Codice di procedura penale: la certezza della pena. Chi viene assicurato alla giustizia e condannato definitivamente deve effettivamente scontare la pena comminata; altrimenti, la giustizia non è più giusta, saltano le regole, diventa più conveniente l'illegalità, la gente non ci crede più, l'insicurezza dilaga.
Un altro aspetto fondamentale: la durata dei processi. Recenti studi fatti dalla Corte di Cassazione ci dicono che il tempo che occorre per percorrere tutte le fasi ed i gradi del giudizio supera gli otto anni. Non sta a me indicare le soluzioni - certamente difficili - da individuare per risolvere la questione. Anche questo è un grande problema che rende la giustizia un po' meno giusta.


Nel dibattito sul federalismo emerge con ricorrenza il tema delle Polizie regionali. Grandi democrazie come quella inglese o quella americana integrano Agenzie nazionali e Polizia locale. Ci sono delle controindicazioni per l'Italia?
Ho più volte affermato che la sicurezza è un bene che appartiene a tutti e da tutti deve essere ricercata e difesa, con ogni strumento, lecito, che consenta, in un quadro di regole certe, armoniche e condivise, di adeguare costantemente l'azione di Polizia, della Magistratura, degli Amministratori centrali e locali, delle organizzazioni rappresentative della società, globalmente intesa, alle reali esigenze che la serena convivenza civile prospetta.
Il sistema di sicurezza di un Paese deve, ovviamente, essere adeguato alla specifica forma di Stato; le esperienze straniere sono importanti, da osservare con attenzione, ma certo non da imitare acriticamente. In Italia, con l'attuale forma di Stato, non credo possa essere immaginato un federalismo della sicurezza.
In un quadro di riferimento, in cui la sicurezza assume connotati diversi in relazione alla diversità dei territori italiani e delle loro differenziazioni socio-economiche e culturali, le Polizie locali sono giustamente entrate a far parte dell'insieme degli attori deputati alla gestione della sicurezza dei cittadini ed alla garanzia del livello minimo di convivenza all'interno delle nostre comunità.
Credo che si debba sempre più affermare un sistema di "sicurezza partecipata ed integrata", con il Ministro dell'Interno che, in qualità di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, coinvolge le altre Istituzioni pubbliche e private, nazionali e locali, in un impegno corale per produrre più sicurezza e migliore vivibilità quotidiana dei "territori" e degli ambienti di vita e di lavoro.
Nel nostro Paese la sicurezza è la risultante di un sistema saldamente unitario, ma, al contempo, particolarmente complesso e variegato. Se l'unitarietà rappresenta la caratteristica essenziale della nostra Carta Costituzionale, la complessità è il prodotto dell'evoluzione socio-economica che richiede un approccio alle problematiche sempre più multidisciplinare, sia sotto il profilo giuridico-amministrativo, sia sotto quello applicativo-operativo.
Molto si è fatto e si sta facendo. Basti pensare ai vari accordi stipulati tra Stato e Regioni che, sulla base della forma costituzionale, attuata con la legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, servono a disciplinare forme di coordinamento tra dette Istituzioni in materia di sicurezza urbana.
Tali accordi costituiscono "cornici di riferimento unitario" ai fini di una azione coordinata e programmata sui temi delle politiche integrate di sicurezza per tutti gli attori pubblici impegnati, alle quali si devono ricondurre ed ispirare anche i numerosi Protocolli d'intesa ed i Contratti di sicurezza sino ad oggi stipulati dai Prefetti con i Responsabili degli Enti locali.
Sul piano concreto le intese sottoscritte con le Regioni mirano a realizzare, in particolare, sistemi informativi integrati, l'interconnessione delle Sale Operative delle Forze di polizia e dei Corpi di Polizia municipale, nonché l'aggiornamento professionale congiunto delle Forze di polizia a competenza generale e dei Corpi di Polizia municipale della Regione.


Una questione ricorrente riguarda la Polizia di prossimità, l'Agente di quartiere. Ci sono state esperienze nei Corpi nazionali e locali di polizia. Se ne può fare un bilancio? Se ne può ricavare qualche suggerimento per l'organizzazione futura della sicurezza?
La "polizia di prossimità" è una realtà già ben presente in diversi paesi europei all'interno del contesto sociale ed è oggetto di costante valutazione. In Italia la "polizia di prossimità" non è una specialità ma esprime una filosofia di intervento, è un contenitore entro il quale inserire iniziative tutte improntate ad una nuova metodologia operativa maggiormente impostata su più decisi caratteri di attenzione alle esigenze del cittadino.
L'iniziativa senz'altro più significativa, quella intorno alla quale si registra una forte aspettativa da parte dell'opinione pubblica è il "poliziotto ed il carabiniere di quartiere".
Come ho già detto il concetto di sicurezza è oggi collegato non più, o non soltanto, all'aspettativa della collettività di non rimanere vittima di un fatto-reato, ma viene inteso come fattore strettamente collegato alla qualità della vita e come insieme di condizioni che disciplinano la vita quotidiana.
L'esperienza e la riflessione di studio del fenomeno sin qui condotte hanno attestato come la soluzione che offre maggiori garanzie di successo alla domanda sempre più pressante di sicurezza sia rappresentata innanzitutto dalla vivibilità delle strade e dall'identificazione del cittadino con il proprio territorio.
In questo contesto le Forze dell'ordine costituiscono certamente lo strumento funzionale di maggiore e più spiccata incisività, ma resta evidente come il delicato compito di produrre sicurezza non possa rimanere demandato unicamente ad una rete di controllo formale (magistratura, Forze di polizia), a quest'ultima dovendo affiancarsi soprattutto un controllo sociale informale e spontaneo (solidarietà, senso civico, volontariato, educazione alla legalità).
Non più, dunque, una risposta soltanto d'ordine e burocratica, caratterizzata dall'impiego di uomini e mezzi e da una decisa militarizzazione, ma una nuova strategia operativa impostata su una logica più strettamente di servizio.
Il “Poliziotto ed il Carabiniere di quartiere”, figure ben distinte dalla tradizionale pattuglia appiedata, nascono esattamente per essere quell'anello mancante sul territorio che sia vicino alla gente comune per capirne e prevenirne le insicurezze.
Esprimono un nuovo servizio integrativo del dispositivo per il controllo del territorio, volto ad effettuare un "monitoraggio conoscitivo" dell'ambiente più penetrante e costante, che si affianca al "controllo fisico" sviluppato dagli altri moduli operativi già in atto, come le volanti, le pattuglie moto, quelle a cavallo, i camper ed altri.
Il “Poliziotto ed il Carabiniere di quartiere” con il loro ruolo di "antenna" di una determinata zona, superano pertanto il dualismo tra polizia di prevenzione e polizia di repressione, coniugando in una posizione di equilibrio entrambe le funzioni e dando nuova dimensione alla missione delle Forze di polizia.
La gente comune e le varie categorie socio-produttive hanno decisamente apprezzato la presenza del poliziotto e del carabiniere nel loro quartiere: é una conferma della validità del modello adottato ma anche il più pressante stimolo a nuove e più complesse verifiche.
Rileviamo che sono fortemente aumentate le richieste di assistenza rivolte dai cittadini al loro poliziotto o carabiniere di quartiere, il che evidenzia che la richiesta di sicurezza non si limita più ad una mera repressione di illegalità, ma si estende sempre di più alla collaborazione per risolvere problemi più complessi.
La loro forza sta nella posizione di osservatori privilegiati della realtà sociale che permette loro di constatare episodi e fatti in prima persona e di dare impulso all'intervento dei partner più idonei alla soluzione del singolo problema.
L'esperienza che nel nostro Paese stiamo traendo dal “Poliziotto e Carabiniere di quartiere" e dalle altre iniziative di prossimità evidenzia l'ineludibile necessità che le Forze di polizia provvedano ad ampliare progressivamente la gamma delle loro prestazioni, individuando e proponendo una serie di altre possibili soluzioni che releghino il momento repressivo a vera e propria "estrema ratio".



da www.poliziadiStato.it



© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA