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GNOSIS 1/2008
Guida alla polveriera balcanica

Kosovo: le due facce della luna


Ennio REMONDINO

E’ il 17 Febbraio 2008 e il Kosovo proclama unilateralmente la propria indipendenza. Un evento storico che l’autore racconta con una sorta di cronaca in diretta proponendo ombre e luci, tra passato “presente e futuro” di quel spaccato d’Europa nel quale la stabilità non sembra ancora raggiunta.



foto Ansa

Leggere i fatti attraverso ciò che vedi sul campo dovrebbe essere la regola di tanti mestieri. Poiché pratico il giornalismo televisivo, è la mia regola. Occupandomi di Kosovo e seguendo la politica internazionale, ho però l'impressione di aver spesso guardato la faccia sbagliata della luna Kosovo. I volti dei protagonisti che ho impressi nella memoria, la gioia degli uni che determinava il dolore degli altri, come le diverse facce dei fatti che, da dove li vuoi guardare, si possono addirittura rovesciare. Io vedevo una faccia della luna kosovara e sentivo le cancellerie di mezzo mondo raccontare di un'altra luna, o della faccia opposta alla mia luna. A Prishtina, il 17 febbraio 2008, ho visto i volti accaldati nel gelo atmosferico di quel giorno che volevano scrivere la Storia, quella con la S maiuscola, della loro indipendenza. Indipendenza vigilata o protetta che sia, esattamente come deve sentire la libertà vigilata uno che esce dalla galera. Le bandiere sventolate ovunque disegnavano l'identità di tanta gioia. Quella etnica dell'aquila albanese su campo rosso e quella ideale di stelle e strisce che ai festanti di piazza Skanderbeg sembravano stelle filanti di un carnevale da quaresima e di breve durata.
Come per ogni libertà vigilata, per loro vi è stata presto la presa d'atto che i problemi della libertà reale non sono semplicemente star fuori da una prigione. L'impatto di una tale svolta epocale, con i disordini a Mitrovica, le dimissioni di Kustunica, le prese di posizioni tra UE, Russia e USA, ha già dimostrato quanto sia complessa la situazione. Un più accorto amico kosovaro albanese, nei giorni della dichiarazione d'indipendenza mi confidava le sue paure: "Sino ad oggi avevamo un solo problema: ottenere l'indipendenza. Da oggi di problemi ne abbiamo mille, senza nessuno in grado di risolverli".
I dettagli che sfuggono al racconto epico dell'evento Indipendenza sono molti. Un Kosovo che si fa Stato etnico senza ancora una Costituzione che stabilisca in patto solenne che vincola i suoi cittadini. La Magna Carta in realtà è stata scritta da un gruppo di studiosi di diritto internazionale presieduto dall'italiano Maia, ma il percorso della sua approvazione non è ancora concluso.
Uno Stato privo ancora di un codice penale e civile, laddove le poche leggi esistenti erano jugoslave e le sole leggi rispettate erano quelle tribali albanesi scritte da Lek Dukajini sul diritto alla vendetta di sangue. Le due facce della luna Kosovo. Uno Stato dove la politica, anche se ormai in doppiopetto, si aggrega e si confronta nel compromesso tra poteri clanistici contrapposti che alternano la dialettica parlamentare all'eventuale raffica di kalashnikov. Dove il libero mercato è inteso come libertà di trafficare in tutto quanto procuri profitto. Tutto.
L'altra faccia dell'indipendenza si chiama secessione, che vuol dire un'indipendenza contro. Contro la Serbia, chiaramente. Contro i serbi kosovari che ho trovato già il giorno dopo asserragliati a Mitrovica, parte nord, a protestare dietro i simboli di un orgoglio nazionale logorato da quindici anni d'abusi commessi dai Miloševic, dai Mladic, dai Karadžic. Da questa parte del fiume Ibar la Storia, sempre maiuscola, la leggono con parecchi secoli di vantaggio. Il Kosovo come culla del primo Stato serbo medioevale, la cristianizzazione dei Balcani, i loro monasteri del 1200. Storia che pesa. Era stato Churchill, lo statista inglese della seconda guerra mondiale, a dire che i Balcani producono più storia di quanto riescano a consumare. Secoli di convivenza alternati a prepotenze incrociate tra serbi e albanesi di questa terra, con il conto finale che per ognuno è sempre dispari a suo svantaggio.
Settimane addietro Claudio Magris ci ricordava come l'identità sia un valore "caldo", mentre lo Stato sia un valore "freddo". Le due identità kosovare allo scontro sono calde, caldissime. Le due diverse lingue, le due storie spesso contrapposte e sempre adattate alla convenienza, le due diverse religioni o tradizioni religiose, i cibi, le diverse canzoni popolari attraverso cui commuoversi.
Lo Stato, in queste terre, quando è esistito, s'è tradotto nel via vai degli occupanti, dagli imperi Ottomano ed Asburgico, alle legioni del fascismo italiano e del nazismo tedesco. Poi l'esperienza del socialismo federativo jugoslavo. Tempi sostanzialmente felici, ricorda qualche vecchio albanese nel confessionale di qualche bicchiere in più. Poi, nel dopo Tito, l'accentuazione di una prepotenza maggioritaria albanese che chiama in campo la prepotenza di Stato serba da parte di Miloševic. Infine l'arbitro Onu che permette alla tifoseria americana, organizzata negli ultras della Nato, l'invasione di campo dei bombardamenti 1999. Vince la squadra albanese in un campionato balcanico dove il Moggi di turno ha altri nomi. Per dirla alla Magris, vincono i sentimenti caldi dell'identità. Peccato che, senza i valori "freddi" delle leggi dello Stato, ci sarà qualcuno, in Kosovo, che non potrà cantare, commuovendosi, le sue canzoni calde.
Nel resto del mondo, ora, tutti a chiedersi come andrà a finire di fronte ad una politica internazionale tanto incerta quanto confusa. Un Kosovo albanese per Washington e uno serbo per Mosca? E' già una realtà. Un Kosovo per l'Italia e l'altro per la Spagna? Un Kosovo unito, che non vedremo mai, ci ha regalato l'evidenza di un'Europa unita soltanto di nome. Confusione di obiettivi e di interessi truccata da nobili principi.
Gli Stati Uniti che pensano alla loro super-base militare kosovara di Camp Bondsteel, la Russia che soccorre i fratelli ortodossi di Belgrado come strumento per contrastare i progetti americani di Scudo Stellare in Cechia e Polonia. Qualche affare per Gazprom che si aggiunge, sul percorso inarrestabile dei petro-rubli, insaporisce il piatto. Potremmo anche dire che l'Europa si prende il Kosovo e la Russia mette più di una mano sulla Serbia. Fossimo soltanto nel campo degli affari, non pare un gran risultato. In realtà è molto peggio.
Nel Kosovo vero ho visto le facce contrapposte delle ragioni e dei torti, nell'alternarsi tra le parti: nella fuga prima, durante e dopo i bombardamenti Nato del 1999; nel ritorno dei molti per scacciare i pochi rimasti; nella ritorsione contro di chi ha provato a resistere; nel prevalere dei numeri rispetto alle ragioni ed ai diritti degli altri. Anche le parole, in questo Kosovo a due facce, si sdoppiano, quasi fossero a loro volta albanesi o serbe, americane o russe. Indipendenza che diventa secessione, guerriglia che prima era terrorismo.
Guerra umanitaria o guerra e basta, giustizia o vendetta, democrazia o prepotenza? Parti in commedia anche per molti protagonisti, a cominciare dal plenipotenziario europeo per la politica estera Xavier Solana: il Solana segretario generale Nato delle bombe 1999, o il Solana mediatore in nome e per conto di un'Unione disunita? Un Kosovo etnico contro, destinato a fare da luna-specchio alle divisioni altrui.
Letture contrapposte anche su regole e arbitri. Una risoluzione Onu, la 1244, che ognuno traduce a modo suo. La premessa che riconosce il territorio kosovaro come parte della Serbia, scritta a chiare lettere, o l'artifizio di attribuire all'obiettivo di arrivare ad uno "Status" futuro, il riconoscimento dell'autoproclamazione d'indipendenza della parte albanese? Meschino oltre che patetico.
Quale delle due interpretazioni debbono garantire i militari anche italiani della Nato? Vale il primato arbitrale delle Nazioni unite o vale di più l'Alleanza atlantica con gli Stati Uniti? Alla fine, fosse mai esistito il dubbio, la legge che prevale è quella antica della giungla, quella del più forte. Portando avanti la nostra curiosità, esiste una politica estera dell'Unione europea alternativa alla generale adesione Nato dei 27 stati membri? Quale Kosovo vede l'Unione europea? In quale metà della luna sta per mandare la sua nuova missione Eulex, in nome e per conto di chi, e come sarà accolta?
A Mitrovica nord e nelle altre enclavi serbe, Eulex semplicemente non sarà accolta, salvo non voler passare dalle sassate delle manifestazioni quotidiane alle bombe a mano.

foto Ansa
Per il doppio Kosovo già si prefigura quindi un doppio "garante" internazionale, con la sola sintesi unitaria dei soldi, una marea, che usciranno tutti dalle casse di Bruxelles. Una missione direttamente UE per il Kosovo albanese e l'attuale Unmik, come sola presenza accettata da quella parte del Kosovo che si tiene stretta la risoluzione 1244.
A voler ridere, come accade spesso nelle situazioni più tragiche, potremmo giocare per un attimo sulle sigle di tanti arzigogoli politico-militari internazionali. Già la parola "Eulex", pronunciata nello yankee imperante, diventa il suono di qualche lassativo. Qualche bello spirito ha inoltre immaginato la sigla per la missione Onu nel Kosovo serbo: "United Nations Transiction Administration Kosovo", Untank. Macabra ma senz'altro meno pesante della "United Nations Kosovo Administration Zone", di cui lascio a voi trarre l'acronimo.
Sulla doppia lettura degli stessi fatti kosovari, mi ero già occupato anni addietro, nella impegnativa occasione dell'Assemblea parlamentare della Nato, dove fui imprudentemente invitato come relatore. Parole semiclandestine le mie, quel 28 ottobre 2005, nella solenne biblioteca del Senato italiano, che credo rientrino perfettamente nel nostro attuale viaggio tra le due facce della luna Kosovo. Utili da rileggere.
Dicevo allora, di aver trascorso più di 15 anni della mia vita professionale in una regione europea che ritenevo essere i Balcani, mentre, ascoltando politica e diplomazia, scoprivo di aver vissuto su una sorta di "Isola che non c'è". Parlai allora quindi dei "miei Balcani immaginari", e mi trovo a parlarne ancora oggi, riproponendo qui paradossalmente quegli stessi pensieri rivisitati alla luce degli eventi.
Ho seguito la vicenda Bosnia dal '92 al '96, vivendo fra Sarajevo, Pale, Mostar e Banja Luka. Nel 1997 ho aperto una redazione Rai a Belgrado. Ho vissuto il Kosovo da Prishtina per tutto il 1998, ho visto nascere l'Uçk sul campo e la guerra a Rambouillet. Ho ricevuto le bombe Nato del '99 a Belgrado, a Prishtina, Prizren, e Peja (1) . Quindici anni nei Balcani, e più conosco, meno capisco. Ancora una battuta esemplificativa. Sono arrivato nella ex Jugoslavia non conoscendo una lingua condivisa, e ne esco oggi non conoscendone almeno sette di lingue, tra cui il "montenegrino", il "bosgnacco" e l’"erzegovese". Dev'essere il destino del giornalista, quello di non riuscire a capire.
Quello che ritengo utile dire, è che il presente su cui ci troviamo oggi a discutere è basato su un passato "ufficiale" ormai definito a livello internazionale soprattutto nell'ambito dell'Alleanza Atlantica. Quella che potremmo definire la "base del ragionamento" su cui, a mio avviso, sarebbe invece opportuno, necessario, elevare dubbi. Ridiscuterla.
Serve a qualcosa insistere col passato? Si, se sul passato si costruisce oggi una percezione del presente deformata. Gli esempi nella storia sono infiniti. Possiamo immaginare l'attuale Germania, senza la lacerante rivisitazione della barbarie nazista? O l'Italia democratica, senza la dolorosa ammissione delle colpe del fascismo?
Il problema dei Balcani, uno dei maggiori, è che nessuno dei protagonisti ha mai voluto affrontare seriamente questo confronto col suo passato, con le responsabilità oggettive attraverso cui iniziare e definire un futuro possibile. Il perchè e il come quanto accaduto sia potuto accadere.
Non lo sta facendo la Serbia democratica che nasconde ancora oggi le sue colpe oggettive dietro un accentuato vittimismo da trame internazionali. Il "Cattivo Unico" subito ieri, diventa alibi per non diventare compiutamente i buoni oggi. Intanto il governo del moderato Vojslav Kostunica si è sostenuto finora sul voto determinante del partito che fu di Miloševic, e non ha retto alla Dichiarazione Unilaterale d'Indipendenza del Kosovo, tanto che Kustunica si è dimesso e ora la Serbia dovrà andare alle urne.
Non lo fa compiutamente la Croazia delle antiche simpatie di convenienza occidentale e dell'accesso all'UE, quando ancora si lacera al suo interno sulla figura di Ante Gotovina, per alcuni criminale ricercato e latitante, per molti eroe e patriota da proteggere.
Non lo fa il Kosovo che iscrive in blocco fra gli eroi nazionali e partigiani combattenti, anche banditi di strada e trafficanti da galera. Intanto il dibattito politico interno si regola spesso a colpi di kalashnikov, con buona pace degli "standard" internazionali di legalità e di tutela dei diritti umani.
Non lo ha fatto nessuna delle tre nazionalità bosniache che 10 anni fa abbiamo legato fra loro nella piccola Jugoslavia degli accordi di Dayton e di Parigi, e che continuano oggi a sostenere al loro interno la rappresentanza politica più separatista e integralista.
Non lo fa l'indeterminata entità detta "comunità internazionale", che di volta in volta si esprime attraverso aggregazioni variabili e con regole incerte. Ora l'Onu, ora gli Stati Uniti, ora il Gruppo di Contatto, ora l'Osce, ora la Nato, ora l'Unione europea. Sul chi comanda veramente, il giudizio nei Balcani è a sua volta variabile, tifoso nei confronti dell'interlocutore più comodo. Ma su questo vorrei tornare fra poco, con un po' più di cattiveria.
Non lo fa il "Potere terzo" del Tribunale internazionale dell'Aja sospettato di aver regolato le sue incriminazioni sulla base delle opportunità "politiche" più che sulle prove. Sull'argomento mi limito all'apertura della procedura di ammissione della UE di Croazia e Turchia. L'Austria vincola il suo Sì alla Turchia, al Sì di Bruxelles alla Croazia. L'allora procuratrice Carla Del Ponte, che una settimana prima aveva accusato Zagabria di proteggere il ricercato Gotovina, ci ripensò in tutta fretta e cambiò al volo la pagella europea della Croazia.
Il problema potrebbe essere quello di capire di quali Balcani stiamo parlando. E di quale "comunità internazionale", e di quali regole parliamo, se ci sono delle regole condivise e se valgono in maniera eguale per tutti. Nei miei Balcani ho visto di tutto e di più. Ho visto il naufragio della credibilità dei caschi blu dell'ONU a Srebrenica, e ho visto l'indignazione internazionale a intensità variabile fra quello che sembra essere un "sonno" quadriennale nei confronti della Bosnia, e la frenesia umanitaria per il Kosovo.
In Kosovo, perché è di questo che dobbiamo parlare oggi, ho avuto l'impressione di assistere alla accurata composizione di un puzzle le cui singole tessere fossero predisposte da tempo a realizzare il disegno della guerra.
Ho visto in Serbia un regime dispotico e traballante, quello di Miloševic, trarre forza e sostegno interno da quello che era percepito come un accerchiamento internazionale.
Ho visto in Kosovo una terra sofferente amalgamata sino ad allora dalla pratica dell'opposizione non violenta, venire armata e organizzata per la guerra.
Ho scritto del "Gandhi dei Balcani", il non violento Rugova, e ho memoria e registrazione di quando, nella primavera del '98 egli sostenne che la nascente Uçk era una creatura dei servizi segreti di Belgrado. Mi pento e chiedo scusa per quel Gandhi citato a sproposito.
Ho visto i carichi di armi del governo Berisha passare la frontiera albanese con la Serbia. Ritrovo ora Berisha a Tirana e mi interrogo nuovamente sul Kosovo.
Ricordo quando ascoltavo il "capo del governo clandestino del Kosovo" Bukoshi, nel suo ufficio di Tirana, che mi spiegava l'impegno finanziario della diaspora kosovara e albanese in Germania e Stati Uniti, per la creazione di un esercito di liberazione del Kosovo.
Ho visto, con la missione KDOM (Kosovo Diplomatic Observers Mission), spie e istruttori militari diventare diplomatici, e la diplomazia vera fare da palo all'inganno.
Ho visto l'Osce dell'ex ambasciatore William Walker, ottenere il miracolo di Lazzaro a Racak, dove avvenne la tristemente nota strage: stranamente i morti nella notte camminano e si esponevano alla indignazione televisiva mondiale il mattino dopo. Non ho visto in tempo utile le perizie dei periti finlandesi, che qualcosa chiarivano.
Ho visto da lontano Rambouillet, e da cronista smaliziato, di fronte alle evidenti forzature dell'allora Segretario di Stato americano Madeleine Albright, ne ho approfittato per attrezzarmi alla guerra imminente.
Ho visto l'uso disinvolto dei media nel creare consenso o riprovazione, a comando. Ho imparato che esistono le sofferenze "buone", quelle da esaltare nei telegiornali, e le sofferenze da nascondere.
Ho visto governi e diplomazie, costruire "verità" sulla convenienza del momento ma quel che è peggio, ho visto costruire analisi e progetti politici internazionali successivi sulle precedenti verità artefatte.
Il problema che intendo porre, non è in realtà quello della rivisitazione storica del passato, quanto piuttosto di trarre lezione da troppi equivoci per ottenere chiarezza sul presente e sul futuro.
Tre semplici questioni: 1) Esistono delle regole e quali sono?; 2) chi le decide e chi le deve far rispettare?; 3) sin dove arrivano i Balcani?


Le regole

Esistono, e quali sono? Per la Bosnia furono quelle della inviolabilità dei confini statuali della vecchia federazione jugoslava. Nell'ambito di quelle regole ebbero luogo le tragedie di Vukovar, delle Krajne serbo-croate e il macello della Bosnia. Oggi, forse più assennatamente, per il Kosovo cambiano regole del gioco e arbitri. Sarà opportuno a questo punto pensare a convincenti argomentazioni con cui rivolgerci ai croati di Mostar, ai serbi di Banja Luka, agli albanesi macedoni di Tetovo, e per quelli montenegrini di Dulcigno, e persino agli ungheresi della Vojvodina.
Per quanto riguarda il temuto "effetto domino" del Kosovo su tutti i Balcani, non credo esistano oggi le condizioni di un nuovo stravolgimento bellico dell'area. Credo invece nella possibile accentuazione della condizione di instabilità, con la possibilità di focolai di violenza di "bassa intensità". Colpisce oggi, a dieci anni dalla fine del conflitto, l'assordante silenzio attorno agli accordi di Dayton sulla Bosnia. Un caso o un ripensamento?
Sulla questione frantumazione della vecchia Jugoslavia, non credo sia saggio sottovalutare quello che è accaduto in Montenegro e Macedonia. La separazione fra Podgorica e Belgrado è avvenuta con una quasi naturalezza, senza destare preoccupazioni. Dovrebbero suscitare preoccupazione, se mai, i meccanismi attraverso cui quella separazione è avvenuta e quelli su cui il Montenegro si regge oggi.
L'attuale assetto Macedone, e l'apertura del nuovo governo di Skopje al dialogo interetnico, temo risulti ancora oggi minoritario nel comune sentire delle comunità nazionali bulgaro-slava e albanese. Da Tetovo ad Ohrid, il confine nord della Macedonia è già da oggi quello di un Kosovo nazionale, con un interscambio politico-commerciale che non credo possa rientrare nelle regole di globalizzazione condivise dalla comunità internazionale.
Mi sembra necessario annotare come, rispetto al demonizzato frazionamento nazionale nei Balcani del recente passato, si faccia oggi troppo conto sulla salvifica ricomposizione dei frammenti jugoslavi nel corpo nell'Unione europea. E se l'Unione scoprisse di non essere presto più in grado di metabolizzare altri allargamenti?


Gli arbitri

La questione è dirimente, e non può essere liquidata con una lezioncina di diritto internazionale. Non nei Balcani. Quale Onu, ad esempio, o quale Nato, quale Unione Europea, o quali Stati Uniti? Provo a spiegarmi.
Quale Onu? L'arbitro Onu della vergogna di Srebrenica, oppure l'Onu marginale che mette il cappello ex-post all'intervento Nato per il Kosovo con la risoluzione 1244 finita da subito in carta straccia? L'Onu dell'Unmik del marzo 2004 che fa finta di niente, o l'Onu Unmik della fine 2005 che abbiamo appena sentito pieno di buone intenzioni?
La Nato. Chiedo scusa ai padroni di casa, ma quale Nato? La Nato delle bombe intelligenti sulla Jugoslavia e delle "bugie" di James Shea da Bruxelles, o la Nato della valorosa interposizione in Bosnia e attorno alle enclavi serbe in Kosovo? Una Nato che libera tutti i kosovari, o una Nato che ne libera soltanto una parte, lasciando che in certe zone i più scannino i meno? La Nato della vergogna degli incendi di Prizren, o la Nato che difende e salva i monasteri di Decani e di Peja?
Anche per gli Stati Uniti, occorre capire, a partire dal loro ruolo chiave nella Nato e in Kosovo in particolare. Basta percorrere il Boulevard Bill Clinton a Prishtina per capire. C'è persino il bar Hillary, e la mini statua della libertà sul tetto dell'hotel Victoria. Mi riesce difficile immaginare una prossima piazza intitolata a José Manuel Barroso. C'era un bar Berlusconi, ma a Tirana, ed è stato abbattuto perché era una costruzione abusiva.
La questione Stati Uniti (quali? Quale politica), si intreccia con quella delle regole. Nel 2002 sono nati i cosiddetti "Standard". Fu l'allora rappresentante speciale Steiner a racchiudere la sua proposta nella sintesi "standards before status". Verifica degli standard di democrazia, legalità, tutela delle minoranze e rispetto dei diritti umani, prima di iniziare a discutere del futuro status del Kosovo, cioè di indipendenza, che gli USA hanno sostenuto da sempre. I disordini organizzati della primavera dello scorso anno cancellano molte illusioni. Oggi si parla di "Standard and status".
Il buonsenso impone oggi il confronto diretto e indispensabile fra albanesi e serbi. Ma se anche questa formula non funzionasse? Abbiamo iniziato con "before", poi "and". "Status without standards"? Il rischio delle regole elastiche è che alla fin fine è sempre quello di far vincere chi le regole non le vuole rispettare mai o chi sa di avere "santi in paradiso" talmente forti da disdegnare le regole valide per gli altri.


I Balcani

Ultima questione. Ma i Balcani esistono davvero? Il mio amico Predrag Matvejevic, letterato e scrittore croato che s'è esiliato dalla guerra civile prima a Parigi e ora a Roma, se lo chiede spesso. Metternich, il grande ministro austro ungarico diceva che i Balcani iniziavano subito a sud di Vienna. A Ljubliana se li chiami balcanici si offendono. Vai a Zagabria e se chiedi dei Balcani ti indicano la Pannonia e Belgrado. Da Belgrado, l'indicazione è ancora verso sud, verso il Kosovo e l'Albania. Di balcanico nei Balcani sembra esserci soltanto il tentativo di non esserlo.
Un aneddoto, per esprimere una preoccupazione culturale e politica rispetto alle analisi presenti. Il mondo s'è confrontato e ha punito il progetto politico di "Grande Serbia" che fu cavalcato da Miloševic. Anche la Croazia del despota scomparso Franjo Tudman ha sognato un tempo la sua "Grande Croazia" provando a spartirsi la Bosnia con Miloševic.
Più a sud, l'attualità dell'ipotesi di "Grande Albania". Non un progetto politico articolato, esplicito, ma semplicemente la realtà dirompente dell'espansione demografica.
Troppe analisi sui progetti politici veri o presunti, poche riflessioni sulla geografia e demografia dei fatti, è il mio sospetto.
Su quali Balcani occidentali dobbiamo per esempio riservare attenzione,prima di elaborare progetti. Esiste una unitarietà di problemi legata ai Balcani slavi (che non sono soltanto Serbia e Croazia, ma anche Bosnia e Montenegro e Sangiaccato), come esiste una unitarietà di problemi dei balcani albanesi
che non sono soltanto Kosovo, o Albania, ma assieme sono parte di Macedonia, Montenegro e Grecia. L'esperienza personale è che nei Balcani, quando credi di aver sistemato un muro qui, ti cade una casa là. Tiri su una casa qui, e ti finisce in frantumi una città là. Se i Balcani esistono, sono un unicum molto frequentato. Forse basterebbe decidere una segnaletica comune iniziando a discuterne con tutti e ripeto tutti, i protagonisti. Pensare oggi ad una Costituente internazionale balcanica, appare un azzardo folle. Non cominciare a pensarlo potrebbe rivelarsi domani una catastrofe. A meno che, non mi sia ritrovato, ancora una volta, a parlare dei miei Balcani personali, che non esistono. Se è così, vi chiedo scusa.Gli eventi degli ultimi anni non consolano.

foto Ansa
Il governo serbo è ancora più frantumato e debole, con le dimissioni di Kostunica, - che pendola sempre tra il "buono" Tadic ed il "cattivo "Nikolic" - a portare la Serbia a dover ridiscutere il suo destino recandosi alle urne il prossimo 11 Maggio.
Intanto il ricercato Ante Gotovina è finito nel carcere internazionale di Scheveningen, in Olanda, ma non è finito l'equivoco croato sugli anni di Tudman.
Il nome di Rugova, di cui ho parlato, non è mai uscito dalle labbra dell'attuale premier Hashim Thaçi, che lo cita come "padre" del Kosovo indipendente: riposi in pace anche lui, Gandhi o non Gandhi sia stato.
Il Montenegro è oggi indipendente dalla Serbia e sta per celebrare il ritorno ai vertici del discutibile Ðukanovic.
In Macedonia è finita la breve stagione d'intesa nazionale e sono tornati al potere le espressioni più integraliste della due parti.
Salvo questi dettagli, quanto dissi all'assemblea parlamentare Nato nel 2005 resta valido. Peccato che nessuno tra quegli autorevoli interlocutori d'allora ne abbia tenuto minimamente conto.


(1) Cito qui i nomi delle città o dei luoghi in Kosovo nella dizione albanese, sottolineando che però ciascun nome ha un corrispondente in serbo.

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