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GNOSIS 2/2007
L'INTERVISTA

Riflessioni sul ‘77
del Presidente Emerito della Repubblica
Francesco Cossiga

a cura di Pio Marconi




1928: Nato a Sassari
1948: Laureato in Giurisprudenza
1959 - 1974: Docente in Diritto Costituzionale e Diritto Costituzionale Regionale
1958, 1963, 1968, 1972, 1976, 1979: Deputato al Parlamento
1966, 1968, 1969: Sottosegretario di Stato alla Difesa
1974: Ministro senza portafoglio
1976, 1978: Ministro dell'Interno
1979, 1980: Presidente del Consiglio dei Ministri
1983: Presidente del Senato
1985: Presidente della Repubblica
1992: Senatore a vita quale Presidente Emerito della Repubblica

A trent’anni dal 1977 c'è stato un moltiplicarsi di lavori, giornalistici e scientifici, dedicati alla ricostruzione di un periodo cruciale della storia contemporanea: gli anni settanta e soprattutto il 1977.
Gli anni settanta sono accompagnati da una grave crisi economica, sociale e politica dell'Occidente ma rappresentano anche un laboratorio capace di generare prodotti nuovi: sia innovativi sia regressivi.
Da un lato, in Italia e in Germania, si cerca di superare le grandi divisioni legate alla guerra fredda e agli antagonismi degli anni trenta. In Italia con il compromesso storico, in Germania con la Grande coalizione. Da un altro lato le larghe maggioranze si accompagnano alla moltiplicazione dei conflitti, e al radicarsi della violenza politica (di piazza ma anche esercitata da minoranze armate) che insanguina l'Europa e soprattutto l'Italia. La curiosità verso quegli anni e verso quell'anno non è dovuta soltanto all'arida ricorrenza del trentennale ma è rafforzata anche dal fatto che nel 1977 appaiono fenomeni sociali che accompagnano ancora le società sviluppate: la crisi e la "fine" del lavoro, l'emergere di nuovi soggetti sociali esclusi dallo sviluppo fordiano, l'incapacità del welfare di soddisfare nuovi bisogni.
Alcune ricostruzioni del 1977 sono state condotte con distacco storiografico e/o giornalistico: analisi delle fonti, storia orale (1) . In altri casi abbiamo lavori di ricostruzione/analisi prodotti da partecipanti (2) , ovvero forme di storiografia intrecciata con la memoria (3) . Vi sono infine rievocazioni che si collocano al confine tra la cronaca e la fiction (4) . Si tratta di un materiale ricco e capace di favorire utili riflessioni, orientate al passato ma anche al futuro.
I conflitti insanguinati, la crisi di quell'anno, sono ripetibili? Ci sono stati fattori, adiuvanti o scatenanti, di tale carica di antagonismo (e di violenza)?
E' apparso opportuno far sentire una voce ulteriore. La voce di un uomo politico che si è trovato ad affrontare quei fenomeni esercitando le funzioni di Ministro dell'Interno. A questi interrogativi risponde Francesco Cossiga, Presidente Emerito della Repubblica e Ministro dell'Interno nel 1977, in un incontro svoltosi nell'abitazione privata del Senatore, in un quartiere bello e spartano di Roma. Alle pareti dello studio due grandi librerie: non una raccolta, pignola, completa e indiscriminata di testi, piuttosto una scelta di novità e di classici raggruppati secondo molteplici e coerenti itinerari culturali. Distribuite con discrezione, su pochi scaffali, le foto di personalità che hanno accompagnato l'opera del Presidente e dell'uomo politico. Una foto di Aldo Moro, con una dedica che emoziona, le foto di due incontri con Benedetto XVI, immagini di: Papa Woitila, Margareth Thatcher, Bettino Craxi. Elisabetta II, Regina d'Inghilterra, Juan Carlos di Spagna e Baldovino del Belgio, cattolici ferventi e difensori inflessibili della laicità dello Stato; il Gran Maestro dell'Ordine di Malta, in una piccola foto, l'ancora soltanto Cardinal Ratzinger, che con un sorriso arguto, sorregge il braccio del Presidente Emerito.
Al termine dell'incontro, non per violare l'etica professionale ma in considerazione della natura della pubblicazione alla quale il colloquio è destinato, ho proposto al Presidente Emerito di sottoporgli il testo, prima della stampa.
- ‘Se lo fa, lo considero una offesa personale’.
- ‘Obbedisco’.



Sul 1977 in Italia, in occasione del trentennale, le rievocazioni si moltiplicano. Memoria, storia, analisi socioeconomica, letteratura, critica, persino autocritica. Le riflessioni ruotano attorno ad alcuni interrogativi. L'antagonismo nasce dalla struttura sociale? O dalle culture politiche? Oppure dalle chiusure della politica ufficiale?

Coloro i quali ritengono che l'inizio, la madre del 1977, sia stato il '68, sbagliano. Che alcune delle idee, alcune delle persone del '68 siano poi venute al '77, in varie forme, questo è vero. Ma ciò perché il '68 italiano era una grande contestazione dell'esistente in una speranza del futuro; anche se non ebbe quello slogan eccezionale che fu lanciato in Francia: "l'immaginazione al potere".

Anche il '68 aveva però una forte carica di antagonismo politico.

Salvo qualche sporadica e direi fisiologica manifestazione di violenza (non vorrei però essere frainteso) il '68 non si manifestò in modo cruento. E si estinse. La cosa strana è che il '68 fu guardato con attenzione dalle organizzazioni cattoliche e fu guardato da quelle socialiste; ma con interesse culturale. Fu guardato diversamente dal Partito Comunista: che ne fu deluso, perché pensava di poterne fare uno strumento per la propria politica. Lo pensava, sbagliando. Se c'è una cosa che non può aver nulla a che vedere con la disciplina ferrea propria del marxismo leninismo stalinismo è lo spontaneismo. Non dimentichiamoci che il marxismo, ortodosso, comunista, condannò Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht perché li considerava spontaneisti. Lo spontaneismo è una deviazione classica. E il '68 era un modello di spontaneismo.

Gli attori del '68 fruivano anche di un'appartenenza sociale diversa da quella dei protagonisti del 1977.

Il '68 fu essenzialmente un movimento intellettuale, studentesco. I temi che agitava erano di élite. Qualche operaio specializzato, autodidatta che studiava, poteva esserci. Ma il '68 non era cosa da fabbriche. Era cosa da figli della borghesia che desideravano diventare padri. Il '68 ruotava attorno alle occupazioni universitarie.

Ci sono stati però dei cambiamenti. L'autunno caldo, i grandi scioperi dei metalmeccanici. Si poteva dire che gli studenti avessero influenzato la fabbrica. Nel ‘77 l'itinerario è inverso.

Dopo il '68 si manifestano alcuni fenomeni diversi. C'è il movimento che era ispirato in maniera confusa ai principi del socialismo e del comunismo, molto influenzato dal sudamericanismo, dal guevarismo. Poi ci sono i movimenti e infine l'Autonomia.

Un mix di questi fattori provoca le occupazioni delle università. Senza, in un primo momento, una reazione istituzionale.

Mandare per disoccupare le università, come poi mandai, i blindati dei Carabinieri e della Polizia e sfasciare i cancelli che erano stati chiusi, sarebbe stato un fatto molto forte. A partire dall'insurrezione di Vienna del 1848, nella storia del liberalismo c'è la questione dell'immunità delle università; anche se non sta scritta in nessuna legge!

La CGIL e il PCI pensano quindi di svolgere un ruolo "sussidiario". Mandano Luciano Lama alla " Sapienza" occupata.

Io da parte mia e Ugo Pecchioli da parte sua scongiurammo Lama di non andare.
Ma bisogna tener conto dell'autorità morale e politica del sindacato in quel tempo, e di quella di Lama stesso. Nessuno - egli pensava - avrebbe avuto il coraggio di contestarlo.

Lama non veniva dalla tradizione del PCI e parlava senza reticenze.

Era un giovane socialista poi diventato comunista. Ed era politicamente un moderato. Andò all'università dove non c'era la Polizia ma dove già sorgeva qualcosa. Ad accoglierlo trovò l'Autonomia, trovò i movimenti ad essa collegati, trovò i militanti dell'ex Potere Operaio quelli di Lotta Continua che si era disciolta. Sugli scontri c'è il bellissimo libro della mia amica Lucia Annunziata che racconta di come lo hanno aggredito, come lo hanno costretto a scappare. Lucia Annunziata racconta anche che in borsetta portava un...

Sampietrino?

Porfido, un cubo di porfido. Cubetti che 'come ti pigliano ti ammazzano' dice Pasquale Chessa. Lì e in quel momento cominciano i grossi scontri di piazza.

Il PCI che si sforza di capire il 1968 si chiude a riccio nel 1977.

C'è il rifiuto. Il PCI considera l'estremismo una malattia infantile del comunismo. Ancor più, quello che agita le proteste del 1977 va contro il principio gerarchico. Nella tradizione comunista si può compiere anche l'atto più duro se e quando è necessario alla causa. Ma si deve prima riunire la Direzione! Il Partito Comunista non è il partito dell'iniziativa spontanea ma della discussione prima dell'azione e dell'obbedienza. Vanno riletti alcuni scritti di Lenin sul terrorismo. Persino il terrorismo è legittimo ma se organizzato dal Partito e solo per innescare la rivoluzione.

Ma c'è anche una ostilità di base.

Di quadri. L'ostilità è di quadri. L'avversione è ancora maggiore perché i quadri temono l'infezione della classe. I superiori di un seminario i cui studenti sono affascinati dal modernismo, non gli debbono far leggere neanche Leone XIII, la Rerum Novarum! Al massimo Pio V, Gregorio XVI, Pio IX. Nulla di più!

Nel 1968 non c'è questa ostilità da parte del PCI.

Non c'è perché il '68 non era un movimento politico. Si capiva che non poteva diventare qualcosa di politico. Il PCI in Italia ci si infiltra per cercare di utilizzarlo; così alcuni dei ragazzi del '68 sono diventati comunisti; ma in piccola parte. Dal '68 in Francia invece nessuno è diventato comunista. Cohn Bendit è diventato verde ma non comunista. A ben vedere il '68, con il suo spontaneismo, è la negazione del comunismo. L'immaginazione al potere è quanto di meno marxista, di più lontano dalla pretesa scientista del marxismo, che si possa pensare.

Con la rottura si accelerano anche gli itinerari verso la lotta armata.

Li ho conosciuto quasi tutti. Sono andato a trovarli quando non ero più Presidente. Cosa che non è stata apprezzata da molti. La lotta armata ha due inneschi. Il primo è ideologico. I protagonisti erano e si proclamano tutti comunisti. E sono tutti marxisti leninisti. Anzi affermano di essere marxisti leninisti non deviazionisti. Non sono stalinisti. Sono dotati di intelligenza e di forte cultura comunista. Pensiamo a Gallinari, contadino ed operaio, autodidatta. Il secondo innesco è storico, sta nella Resistenza. Si parte dalla memoria storica della Resistenza tradita e della Resistenza interrotta. La Resistenza doveva, per trascinare le folle, essere una guerra patriottica, poi doveva essere una guerra civile antifascista, infine, come è avvenuto nell'Est, una rivoluzione di classe.

Una guerra di classe che si ferma nel 1945.

Togliatti, che aveva tutt'altri piani, datigli dall'Unione Sovietica come conseguenza degli accordi di Yalta, bloccò la rivoluzione di classe. Questo non impedì dopo il '45 il triangolo rosso. Anche gli antifascisti fucilati! Anche i partigiani fucilati!

Come si manifesta la continuità?

Uno di loro, comunista che uscì dal Partito e si dette alla lotta armata, mi riferì che un partigiano gli consegnò il mitra che aveva conservato dicendogli, "continua da dove ci hanno fermato". Il mito è la Resistenza incompiuta. L'idea di resistenza tradita serpeggia nel PCI e nella sinistra lungo il dopoguerra. Tutto precipita poi quando il PCI si allea con la DC. Si pensi che cosa deve essere stato per alcuni di loro l'alleanza con la DC.

Gli anni '70?

Il compromesso storico. Quella è stata la scintilla. E anche il fatto che il sindacato diventa una forza stabilizzatrice.

Nell'antagonismo del '77, quello che si manifesta nelle piazze, nei quartieri, in qualche fabbrica, c'è molto disagio sociale, emarginazione; nella lotta armata si percepisce invece politica e cultura politica.

Tra i brigatisti pochissimi gli operai poco qualificati, quelli collocati ai livelli più bassi. Contadini quasi nessuno. Salvo l'autodidatta Gallinari, che poi diventa operaio. Lo conosco benissimo. Alla televisione abbiamo presentato il suo libro assieme. Il prefetto Mosino si è scandalizzato ed è uscito dalla stanza. Nella lotta armata erano tutti tecnici, studenti, classe operaia superiore.

Nell'Autonomia invece, un mondo diverso.

E' un mondo disperato che nella politica non vede risposta. Che sconvolge Bologna. Il comunista fa l'insurrezione per occupare il Palazzo d'Inverno. Per un disegno politico. I comunisti fanno la rivoluzione quando si impadroniscono delle caserme e quando hanno un settore dello Stato a loro favore. Non occupano l'Università di Bologna, assaltano la sede della DC, saccheggiano ristoranti. Non scrivono Cossiga con la K, quando era a favore del compromesso storico! L'assurdo era questo: Kossiga che manda i blindati, col consenso del PCI e di Zangheri piangente.

La violenza del partito armato è invece strategica.

Le armi e la violenza vengono usate dalle BR non per compiere l'azione esemplare. Che è cosa da anarchici. Essi non credono al valore politicamente esemplare dell'atto. Giustificano la lotta armata come la guerra dei poveri contro i ricchi, dei deboli contro i forti, dei disarmati contro gli armati. Usano giustificazioni riprese dalle resistenze europee. Solo la Jugoslavia trasformò la resistenza in una lotta di tipo convenzionale. Con le brigate regolari. Con le armi mandate da inglesi e americani. Le altre erano resistenze di minoranza.

La violenza va interpretata.

Per me ha grande affetto e grande amicizia Fausto Bertinotti. Perché? Bertinotti è stato Segretario della Camera del Lavoro, a Torino. Io ci vado, pochi giorni dopo l'uccisione di Casalegno, come Ministro dell'Interno e lui viene a trovarmi. Tornato a casa dice alla moglie, "abbiamo il Ministro dell'Interno più democratico della storia della Repubblica. Mi ha chiesto se potevo spiegargli, io che vivo tra gli operai, per quale motivo c'è la lotta armata". Il Segretario della Camera del Lavoro era colpito da un Ministro dell'Interno che si occupava di sociologia della lotta armata. Il contrario di tutta la storia della DC, delle immagini di Scelba.

A quale logica rispondeva la lotta armata?
La lotta armata mirava ad alzare il livello dello scontro. A intimorire lo Stato. A disarticolarlo. Ma sempre con la grande speranza del Partito Comunista. I brigatisti non hanno mai creduto di sostituirsi al Partito Cmunista. Solo i pazzi di Lotta continua ritenevano di fare, con Adriano Sofri, un grande partito alternativo. I brigatisti cercavano di elevare il livello dello scontro per provocare una reazione indiscriminata. Un morto ucciso nella fabbrica. La Polizia interviene e picchia tutti gli operai. Speravano di innescare una grande risposta di lotta.

Nel '77 oltre all'antagonismo c'è molto anticomunismo.

C'è un atteggiamento anti PCI. Molti guardavano piuttosto ai socialisti. Un movimento di massa spontaneo può andare d'accordo col socialismo. Col comunismo e il marxismo leninismo mai. Perché se non c'è l'ordine di Partito non sei autorizzato neppure a dire "abbasso Agnelli". E abbasso Agnelli non l'hanno mai detto. La forza che ha sempre difeso la FIAT e che ha salvato la FIAT sono i sindacati. Si capisce, erano posti di lavoro.

Nella lotta armata non c'è spontaneità, piuttosto progetto.

Volevano compiere atti di terrorismo per elevare il livello dello scontro. Provocare la repressione e cercare di fare rinsavire il Partito Comunista.

Proprio il PCI che li condanna come provocatori e criminali!

Il Partito Comunista ha fatto di tutto all'inizio per calmarli. Uno di loro riferisce che quando era già in clandestinità un esponente del partito, l'on. Malagugini, un bravo avvocato e un comunista dell'ala riformista che sarà poi giudice costituzionale, cerca contatti con loro. Non per usarli. Ma per convincerli a rientrare nella normalità. Altrimenti c'era il rischio che il Governo - a secondo di chi lo guidasse - potesse fare di ogni erba un fascio. Nei primi tempi, nel PCI dicevano "le cosiddette Brigate Rosse". Il messaggio non era diretto allo Stato, era diretto ai comunisti perché temevano che il brigatismo infettasse la base.

Le politiche di ordine pubblico erano adeguate? Non erano eccessive?

Era nulla rispetto al periodo precedente, in cui si sparava. Modena. E c'è una spiegazione. I movimenti di piazza di allora erano opera dei sindacati e guidati dal PCI. Non si capiva ancora bene se i comunisti avessero rinunciato o meno alla rivoluzione. E Scelba faceva sparare. Io l'ordine di sparare non l'ho mai dato.

Dobbiamo riconoscere che Scelba non condivide la scelta del governo Tambroni e il fuoco aperto a Reggio Emilia, nel luglio 1960.

Scelba era antifascista. Era stato il segretario di don Sturzo.

I controlli erano, secondo me, eccessivi, spesso controproducenti.

Però non si sparava. Si è risposto al fuoco, ma contro le Brigate Rosse. Mi fu chiesto di andare a trovare in carcere Gallinari. Si temeva che morisse, soffriva di cuore e poi nel conflitto con la Polizia era stato colpito al cervello. Io andai e prima del colloquio mi disse, "chiariamo una cosa: io sono e sarò sempre comunista, lei per me, sarà sempre il Ministro dell'Interno; io sono un povero autodidatta, non sono un uomo colto come altri che lei ha visitato in carcere". Chiarito questo, ci sediamo. E lui mi da atto del fatto che io non ero mai ricorso a metodi sporchi. Come in Francia per l'OAS. Si arrestavano parenti. Si "maltrattavano" le figlie. I francesi, sempre figli della rivoluzione e della ghigliottina sono!

Cosa volevano i militanti della lotta armata?

Non ritenevano di riuscire a conquistare da soli il potere, ma di smontare una perfida alleanza, provocando una reazione degli apparati statali tale da convincere i comunisti e i sindacati a rinunciare alla loro politica. In realtà il loro obiettivo, l'obiettivo da punire non avrebbe dovuto essere Moro ma Berlinguer. Però, siccome erano tutto fuorché stupidi e volevano sempre riconquistare la massa che era comunista, avevano presente il fatto che il sequestro e l'uccisione di Berlinguer avrebbe portato nelle fabbriche i comunisti a dare la caccia ai sospetti brigatisti. I quali sarebbero stati ritrovati dentro gli altiforni! Il Partito Comunista era sempre il loro Partito di riferimento. Andando a votare, mica avrebbero votato Lotta Continua, avrebbero votato Partito Comunista.

Ma anche l'Autonomia e la "sponteneità" venivano criminalizzate.

L'Autonomia è finita con Bologna. Io volli e consentii che si svolgesse il Convegno Internazionale sulla repressione. Quello dei 40 mila. Ricordo la telefonata di Scalfari, mi disse che ero pazzo. Ricordo la telefonata del Cardinale di Bologna che mi ricordò la coincidenza con il Corpus Domini, anzi con il Congresso Eucaristico, in San Petronio. "Eminenza, a che ora la funzione?", domandai. Il mio Capo gabinetto prospettava di far arrestare e espellere gli intellettuali francesi. Dissi di lasciarli venire. Finita le manifestazione, li avremmo rispediti. E la manifestazione ebbe la possibilità di svolgersi, libera. Alla fine dissi: aprite le autostrade, organizzate i treni, lasciateli andar via, a chi fa il matto però botte da orbi. E lì fu la morte dell'Autonomia.

Una linea di tolleranza garantista depotenzia la violenza.

Riflettendo su tutto questo si arriva a capire una mia famosa intervista alla televisione che ha meravigliato tanti, il dubbio e lo scrupolo che poi ho avuto. Non sarà che l'aver impedito le forme di violenza, a bassa e a breve intensità e di massa, abbia favorito la lotta armata? Quelli che partecipano alle manifestazioni di massa poi devono andare a casa a mangiare. Se tu usi metodi forti invece li trattieni e li attiri.

Il divieto di manifestazioni nella primavera del 1977 era necessario? Le organizzazioni del lavoro rinunciarono al 1° maggio in piazza.

Mentre non l'accettò Pannella. Io lo pregai in ginocchio e dissi che il divieto lo avevano accettato i sindacati i quali hanno un servizio d'ordine che isola i violenti, magari li pesta e poi li consegna alla Polizia, e che agisce d'accordo con la Questura. Gli dissi, "guarda che tu sarai infiltrato". E il 12 maggio successe la tragedia di Giorgiana Masi. Quando avevo parlato dei divieti coi sindacati questi subito avevano detto che non era il caso di creare problemi. Avevano un servizio d'ordine ma non potevano escludere un'infiltrazione armata. E accettarono di rinviare le loro manifestazioni. Allora i sindacati erano una cosa ben diversa. Non erano sindacati di oggi. I sindacati dei pensionati. Con più del 50% degli iscritti fatto di pensionati. Io facevo i comizi da Ministro dell'Interno, accompagnato da Franco Marini e col servizio d'ordine della CISL, che era fatto di ferrovieri e di operai tessili.

E si sentiva sicurissimo.

Più che con la Polizia. Quelli menavano senza guardare in faccia nessuno. Giustificati anche dall'identità di classe.

Perché vietare una manifestazione proprio il 12 maggio, la ricorrenza della conferma col referendum della legge sul divorzio?

Il divieto fu deliberato nel Comitato Interministeriale per l'Informazione e la Sicurezza, poi me ne assunsi io la responsabilità dopo che Franco Evangelisti mi disse che non avevo neanche il coraggio di proibire un corteo di Pannella. E lì successe il dramma. Di quel divieto, tanto lo considerava un banale incidente, non c'è neppure traccia nel diario di Andreotti. Con le grane che avevamo perché avremmo dovuto ostacolare una manifestazione dei radicali per l'anniversario del divorzio! La Democrazia Cristiana aveva privilegiato l'alleanza con i laici e con i socialisti all'indissolubilità del vincolo matrimoniale. La legge sull'aborto fu firmata da Andreotti. Noi votammo contro, ma ritenemmo più importante per il Paese prima l'alleanza di centro e poi quella di centro sinistra, piuttosto che opporsi al divorzio. Se i cattolici avessero detto che non avrebbero fatto nessun governo se i laici avessero votato quelle leggi, la coalizione si sarebbe sfasciata, ma aborto e divorzio non sarebbero passati.

Oggi molto è cambiato.

L'errore commesso oggi è di aver fatto firmare il disegno di legge sui Dico oltre che da una laica, ex comunista, come Barbara Pollastrini da Rosy Bindi.


(1) Cfr. C. Vecchio, Ali di piombo, BUR, Milano, 2007; S. Cappellini, Rose e pistole. Cronache di un anno vissuto con rabbia, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 2007; M. Grispigni, 1977, Manifestolibri, Roma, 2006.
(2) Cfr. S. Bianchi e L. Caminiti, Gli autonomi,la storia, le lotte, le teorie, Derive Approdi, Roma, 2007. Sono state riproposte in occasione del trentennale due opere apparse nel 1997: AA.VV., Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del 1977, Odradek, Roma, 1997; S. Bianchi e L. Caminiti, (a cura), Settantasette. La rivoluzione che viene, Derive Approdi, Roma, 1997. E' anche riapparso in libreria un classico per la interpretazione dei movimenti di quell'anno, N. Balestrino e P. Moroni, L'orda d'oro, 1968-1977, SugarCo, Milano 1988, poi Feltrinelli, Milano 1997.
(3) Un esempio di questo tipo di ricostruzione è L. Annunziata, 1977. L'ultima foto di famiglia, Einaudi 2007.
(4) Cfr. P. Pozzi, 1977. Insurrezione, Derive Approdi, Roma, 2007. Un modello di ricostruzione letteraria del 1977 in Germania ci è offerto da P. J. Book, L'autunno tedesco. Schleyer-Mogadiscio-Stammheim, tr. it., Derive Approdi, Roma, 2003.

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