STORIE DI CASA NOSTRA Imprenditoria e mafia la 'santa alleanza' |
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Il racconto di fantasia raccoglie alcuni spunti che, senza la pretesa di voler essere esaustivi, tuttavia lumeggiano le contraddizioni che lacerano taluni contesti criminali siciliani e riguardano i rapporti collusivi che alimentano il potere di Cosa Nostra. Ne esce un ritratto grigio, ambiguo, che cerca di isolare esperienze di contiguità e di indagarne il senso, anche sotto l'aspetto umano. Senza indulgere nell'agiografia del protagonista, il fine è di ridurre lo stigma mafioso alla sua quotidiana ferocia, banale e legata al gioco del potere cui mira non solo l'organizzazione criminale. Il titolo, peraltro, richiama lo statuto di Cosa Nostra di usare la violenza necessaria al conseguimento dello scopo, ‘serbando la pezza quando il pertugio’ impone un intervento congruo, alternando le scelte di inabissamento e tolleranza al ricorso alla violenza, secondo l’opportunità e la convenienza. da www.mafianews.it/ Don Calogero è uno di quegli uomini cui non si può dare un'età. Incanutito, il viso scavato, rughe profonde che si sovrappongono sul collo e sembrano voragini sotto la camicia, di solito di una taglia in più. Il corpo esile e scattante, gli occhi vispi e azzurri di segreti geni normanni dietro l'indolente palpebra arabo-sicula, tradiscono uno spirito giovanile e forse anche un'anagrafica distanza dalla vecchiaia. Calogero, insomma, ha l'indefinita età del potere, gravata dalle responsabilità ma anche dal primato sui suoi simili. Nell'afa sciroccosa di luglio, supera con passo deciso la sala d'aspetto e, tradendo un'abitudine consolidata, si avvia sulla sedia del settecento vicino alla scrivania, monumento di storia e di comodità. La segretaria è intimidita, ma pronta alla gentilezza. "Ho fatto 'arrivare' la vostra granita". La donna deve ancora abituarsi a questi incontri insoliti, predisposti in segretezza, cui il suo capo pone tanta importanza, pretendendo l'anticipato sgombero dei queruli questuanti. Le mani lunghe ed eleganti come fusi stringono la gonna, tirandola più giù, per coprire quel barbaglio oleoso di gambe che, da complice vincolo con il suo capo, invece davanti all'ospite, per rispetto o per paura, oppure per entrambi, diventa inopportuno e sembra esporla a chissà quale malanno. Calogero nota con piacere quel brigare infantile… un po' perché gli ricorda fremiti di febbri lontane… Un po' perché gode di quel vulnerabile imbarazzo che è silenzioso riconoscerne il ruolo, soprattutto in quei giorni nervosi, resi insopportabili dall'afra sensazione di ricercato. Non avrebbe mai immaginato, nei giorni giovani di santini bruciati, di diventare un capo e… maledizione… soprattutto un capo latitante. La latitanza è un cancro che ti divora le viscere. Scioglie il tempo nell'ansia di fuga. Nel passato, era stato clandestino, protetto da una vita parallela che scorreva semplice, in una falsa normalità, all'interno di un cerchio protettivo tanto ampio da poterci ballare dentro. Quella clandestinità era diversa dalla latitanza che ora lo logora, con la vita che, non più sdoppiata, si consuma rapida, in un quotidiano di guerra che non consente riposo. Tra tane abbandonate, amici sempre meno affidabili, cerchi che si spezzano, catene di pochi anelli cui aggrapparsi. Il mondo aulico e mitologico di Cosa Nostra, una sorta di Olimpo rovesciato, in cui c'erano dissidi e scontri feroci ma dove mai s'era messa in dubbio l'impermeabilità, oggi appare un inferno di diffidenze, di tradimenti, di patti con il nemico. Anche gli sbirri sono cambiati. Prima i loro piedi si massacravano di passi tra rocce e tratturi, le squadre di poliziotti e carabinieri in fila indiana percorrevano in lungo e largo le Madonie, le colline, i campi poveri di messi e ricchi di lupare. Oggi sono invisibili, con le diavolerie che ti rubano il respiro e la voce, diventando vento che all'improvviso, con una folata notturna, ti spoglia i rami e ti denuda. Nell'aria greve di questi pensieri, la porta dello studio si apre bruscamente. Entra Giuseppe, dottore in legge e imprenditore per vocazione. "Scusate il ritardo..". Lo sguardo finto annega nel sudore dello scirocco, con le vele di occhi equorei che mirano di traverso. Lo stesso del padre, anche se quello era più genuino, come genuini, forse, erano i tempi. Anni di megafoni, di strette di mano, di arancini e ricotta dietro vetrate di cartoni su cui i candidati sorridevano ebeti. Schiacciati in improbabili mezzobusti, laccati con la saliva delle vacche. "Sono partito in ritardo" continua Giuseppe, asciugandosi il sudore "a Roma il traffico è bestiale, non si arriva mai in tempo…". "A Roma tutto è veloce, tutto è traffico… solo il nostro progetto è lentu cu' pidi" "Che pensate, che faccio miracoli? Non sono più i tempi…". "Avimu primura. Chu avi tempu nun aspetti tempu… ammughiamu…". "… non è solo Roma, è Bruxelles, e da lì a Palermo, ci vuole tempo, no?" "Mentri cunti lu tempu l'oru si ni va. Caro Giuseppe miu, ci'a facimu prima di tirari i pidi? Non siamo più carusi…". Giuseppe sorride, per nascondere il baratro di paura che s'apre nello stomaco alle parole di Calogero. Il linguaggio di Cosa Nostra non sempre è astratto. Cinicamente concreto ma sempre ambiguo, più che per i sottintesi, che pure ce ne sono assai, invece, per l'accento subdolo e la gestualità che sono spesso più severe delle parole e le caricano di ossimori e intimidazione. Più la minaccia è grave, più il ritmo si fa lento, mieloso, concentrico, con pause che spezzano la melodia di canarino in graffi d'arpa come di rapace. Giuseppe si siede sulla poltrona larga di pelle. "Ho parlato con don Nino. I giornali… nei salotti… anche qualche amico" Giuseppe insiste "poi lui stesso, don Nino, dicono che ci sono problemi… con voi…Sapete, io… noi.. abbiamo paura che le vostre questioni possano in qualche modo… creare problemi! Invece, tutto deve scivolare bene, tutti attendono che arrivino i picciuli e già le imprese sono pronte. Ognuno ha la sua parte, questioni non devono esserci… D'altra parte non siete contento? Il progettista è vostro, no? Il cemento, i trasporti, non sono vostri? I servizi? Non sono vostri? Certo, la lista ve l'abbiamo data, ci sono anche i nostri amici, in alcuni casi amici di entrambi, più facile, no? Insomma, tutti lavorano e …". "...e tutti travagliano e bagnanu u' beccu a nuoatri e a vuatri. Le ditte sono nostre, ma loro si mettono a posto come le altre. Le regole vanno rispettate, soprattutto con questo malutempu. Ma anche voi vi mettete a tavola, a manciari..! Anche a voatri non manca u fazzulettu per puliziarivi u musu…!". "Certo…". "Forse che la terra è nostra? L'avete scelta voi… l'aviti accattata e poi ve la siti vinnuta… cangianu i nomi ma la terra gira sempre nelle vostre tasche!". "Sicuro… ma noi… i patti li rispettiamo…". "..e chi vi da il cemento sporco che costa come cristallo? Chi sovraffattura?". "Abbiamo le spese…". "Aviti i' spisi? Ma voi rientrate… ri spisi…chinu è u' panaru!" "Perché mi fate questi discorsi?". "Perché qui siamo tutti importanti…, cristiani, omini". "… e per questo che voglio pace tra di voi…". "… serbate a pezza pi quannu veni u pirtusu… a'ora, nuatri nun' avimu pirtusu …Anche si chiangimmu u' murtu e pinsammi o vivu. Da quando gli sbirri attaccaru' don Tano". Don Calogero si sente stringere il petto. L'arresto di zu' Tano ha sorpreso tutti, proprio quando si pensava di sollevare il capo, dopo anni d'ombra. Senza di lui è un'altra cosa. Una cosa tanto inedita, tanto impossibile da lasciare sospesi tutti. Calogero si sente triste? Certamente. Di quella tristezza di un ramo spezzato dall'albero che ancora non è innesto. Di quella solitudine che ti lascia chi ti ha accompagnato per decenni nei labirinti oscuri della mafia e, all'improvviso, viene catturato...Chi ha percorso tutta la vita di Cosa Nostra da raccontartela in uno sguardo, da darti consigli scolpiti nella pietra… altro che pizzini di carta!… e d'un tratto esce dalla scena. Unico sollievo, misto a lento senso di colpa, è una sensazione di liberazione.. lui non ce l'ha fatta, io sì, sono ancora fuori… Dopo l'era corleonese dei tiranni, che si circondavano di una corte silenziosa e trasversale, che tutto ottundeva e sedava, ora la Sicilia liberata esprime l'energia dei suoi nuovi capi, soldati vestiti da generali, più incerti ma anche più affamati. Di quella fame che la paura rende ancor più forte, come un pugno nello stomaco. Giuseppe interrompe il silenzio di don Calogero, pensando di poter approfittare di quell'anima "accupata". "Don Calogero… lo sapete quanto vi voglio bene e quanto vi abbia in considerazione. Noi siamo un sistema che, per funzionare, ha bisogno che tutti gli ingranaggi girino. Non possiamo pensare di sopravvivere da soli. Un tempo… come mi racconta mio padre, voi eravate la sicurezza, sia perché giravate per i campi e le città a raccogliere voti, consensi e omertà, sia perché la vita siciliana era quella piccola dell'affare, e voi in questo spazio ci nuotavate da sempre. Oggi non è più così. Almeno, non è più solo così. I lavori vengono da lontano, possono o non possono arrivarci, e chi smuove le dighe e fa arrivare i piccioli, beh… oggi siamo noi a deciderlo". Calogero avverte una fitta nel fianco. Un tempo quelle parole sarebbero state vendicate con il sangue. Riesce a parlare lentamente, come il ferro che stringe l'incaprettato. "Voi volete fare sistema. Noi nel sistema ci vogliamo trasiri… con le nostre imprese.. Un tempo stavamo a guardare.. Ora non più. Abbiamo società pronte a lavorare in tutta Italia. I nostri piccioli fanno gola a tutti e soprattutto… alla fine di tutti i progetti, ci vuole chi metta il cemento… chi lo venda.. chi permetta di trasferirlo nel cantiere… ci vuole la gente che sudi… gente che inizia a lavorare solo quando è sicura poi di tornare a casa… ma soprattutto, Giuseppino mio, sappiate che voi siete un affermato professionista… vi ricordate chi vi ha dato i piccioli per aprire tutte le cliniche che ora addrumano le vostre banche?". "E' vero… ma… don Giuseppe…c'è aria di nuovo… fuori… non va bene. Tutti vogliamo che nulla muti, che il sistema funzioni bene, non ci siano scossoni. Per questo noi vogliamo aiutarvi, sappiamo che questi piccioli che arrivano servono a noi, perché oggi i piccioli sono potere, più che mai, ma servono anche a voi, perché ristabiliscono il vostro primato, vi danno sicurezza per affrontare le difficoltà quotidiane… anche per le bocche da sfamare…. Avete tanti pensionati cui pensare…" "Nessuno è parrino, nessuno di noi è un missionario… perciò non datevi pena per noi.. pinsati a vuatri e.. arriminatevi…!" Calogero lascia lo studio con una irritazione sottile che gli taglia il respiro. Il nipote l'attende in auto. Il viaggio è breve, ma tra zio e nipote non si parla. Calogero maledice gli sbirri e i giudici che hanno la foia. Non mollano la presa, possono contare sull'appoggio della gente, non solo siciliana. Era diverso, un tempo, quando la Sicilia non era un palcoscenico ma una tana, per i lupi come lui. E' preoccupato. Anche se non ne coglie il motivo. Ormai si è legittimato. E' al sicuro. Nessuno può buttarlo giù dalla sedia. Merito anche della sua fortuna. I suoi avversari sono stati arrestati tutti, proprio quando cercavano di stringerlo tra tragedie e rivendicazioni che gli avevano fatto vivere momenti di forte tensione. "Vulisse sapiri si chiddri curnuti di cristiani non capissero u' malutempu, oppure…". Lo avevano messo all'angolo, perché avrebbe gradito far rientrare in Sicilia quei perdenti che nella guerra di mafia si erano salvati e avevano trovato rifugio in America. I perdenti possono portare i loro canali, la loro esperienza e soprattutto possono rinnovare i quadri mafiosi che sono troppo bassi rispetto al passato. Forse, però, quelli che avevano deciso la loro fine, un tempo, si sentono esposti a vendette e perciò insicuri. Si sa, in Sicilia la vendetta non ha tempo, ha una memoria infinita. Calogero, però, poteva vantare un rapporto con i perdenti, aveva sempre avuto un pensiero per loro e aveva già pensato di recuperarli. Calogero sa che ora a Palermo le carte le ha lui, ha bisogno di buoni compagni. Per questo non può mollare, non deve rinunciare al suo primato. E' un fatto di sopravvivenza. Prima di andare nel suo rifugio, un piccolo appartamento diviso con una vedova, disponibile ad aiutarlo anche per quegli spiccioli versati che le fanno comodo, stringe le mani al suo nipote. "Nuantri à ma divintare imprenditori, amministratori, politici… dobbiamo acchianari, fari scantari, perché diamo vita e morte… ma a noi non può bastare. Noi cristiani dobbiamo smettere di legarci a "loro", che ondeggiano come babbaluci. Noi dobbiamo succhiargli l'anima, diventare anche migliori di iddri…". "Zu' Calogero, parlate degli appoggi… ma siamo messi bene…". "Dobbiamo farlo meglio… Dobbiamo mandarci i nostri carusi a chidda banna, dobbiamo accucchiari tanti soldi e tanti amici...". "Diventare come loro… non c'è rischio di far sparire Cosa Nostra?". "No. Perché non siamo come iddri. Possiamo vestire bene, ma sappiamo stutare, non abbiamo paura delle ammazzatine. Loro no. Loro hanno bisogno di nuatri, picchì poi il cuore non ce l'hanno. Iddi hanno pensieri di sangue, ma le mani …". "Hanno paura..!". "Si, e si devono rimanere scantati… Tu, invece, stai attento". "Zu' Calogero, ma che dite?". "Ricordati che di questi tempi i cristiani sentono la voglia di fuire… dopo anni di attesa, vogliono spazio …tanto.. troppo… Ricordati che di amici, accamora, non ce ne sono più… se vuoi campari, devi guardarti..cu beddra voli pariri peni e guai av a' suffriri". "Come dite voi…". Calogero si sente a disagio, avverte un divario eccessivo con le nuove generazioni… Si domanda che ne sarà di loro, li sente di quella pasta colorata bella a vedersi ma poco adattabile alle incerte situazioni che la vita pone ai cristiani, come focu senza ciamma. Forse la sua generazione aveva riempito ogni spazio, aveva fatto crescere poco…Bella generazione la sua! Fatta di coraggio !? Irruenza !? Forse solo di paura. Dispettosa paura che spinge verso imprese eclatanti. Terrore che, arrogante e vile, preme un innesco, spara in testa, con il pavido agguato delle ombre. Dopo la visita di don Calogero, Giuseppe trema silenzioso, come le foglie di una pianta finta. Attende la chiamata del suo socio, in questo come in tanti altri affari, che ora fanno sistema. Squilla il telefono. Umido di sudore, raccoglie la cornetta. "Giuseppe, ci hai parlato?". "… come no? Ingegnere, hai qualche dubbio?". "E che dice?" "Che ha fretta… ha troppa fretta. Ma in merito ai suoi rapporti con l'amico, conferma che nessuno vuole la guerra…". "Mizzica, lo vogliono capire che non è il momento..?". "L'hanno capito. L'hanno capito bene". "Sei stato chiaro?". "… la prossima volta ci parli tu. E' facile quando si parla tra noi, usiamo lo stesso linguaggio. Con quelli è così diverso… Si accendono per niente, basta una parola di troppo. Vogliono i piccioli, vogliono prendersi subito la loro fetta. Inoltre, temono che li prendiamo in giro…". "Ancora questa storia?". "Non si fidano…". "Allora noi? Ci hanno messo nei guai più i pentiti che gli sbirri, quei gran cornuti. Inoltre, noi portiamo lavoro, non portiamo coppola e lupara, ma siamo messi sulla stessa barca". "Senti… sai come la penso. Conviene a tutti. Don Calogero ha tenuto a precisare che abbiamo iniziato con i loro soldi. Insomma, chi siamo e ciò che abbiamo lo dobbiamo anche a loro. Ma oggi, mi preoccupa la situazione. Parliamoci chiaro. Fino a quando ci sono loro, noi possiamo fare e disfare. Possiamo cercare di controllare le situazioni. Certo, guadagnano tutti, ma è chiaro che noi siamo il nodo...". "Ti metti a parlare come i giornalisti? Come i giudici?". "Ho parlato con quello del Nord…hai capito? Loro vogliono la "sicurezza ambientale", hanno paura. Paura dei botti, ma anche di una eventuale pubblicità negativa se si venisse a sapere dell'accordo. Comunque loro sono grandi. E' tanto tempo che lavorano con noi. Hanno fiducia. I subappalti sono regolati, così le forniture… Tutto è a posto…". "No, non tutto. C'è l'impresa di Ciccio che scalpita. Vuole fare ricorso". "Non avevamo sistemato tutto? La volta scorsa aveva omesso di mandare quel foglio, per cui fu annullata la sua partecipazione, e sono rimasti solo gli amici…". "Si, ma avevamo promesso che dopo sarebbe stato il suo turno." "Che ha fretta?". "No. E' proprio fuori dalla grazia. Dice che va a parlare con il commissario… quello di cui parlano i giornali…". "Lo hai dissuaso?". "Ho fatto intervenire anche i nostri amici, quelli potenti. Poi Pippo gli ha promesso di entrare nell'affare dell'edilizia popolare... hai capito dove? Carlo, poi, gli ha detto che c'era posto per lui nella costruzione della statale e poi del supermercato...". "E non gli basta? Ma poi, con il supermercato, non era interessata "Trapani"? Alla cena con gli amici, dopo il teatro, si è parlato di quei lavori ma mi hanno detto che sovrintende tutto, per la gestione, quello di Trapani. E' vero?". "Si. In tutte le parti, le nostre e la loro. Anche per noi, insomma, la situazione rientra nei discorsi di là…". "Comunque, Ciccio deve smetterla. Non può mica fare la mina…". "Che faccio?". "Provaci ancora una volta, poi avvisa don Calogero, se la sbrigassero loro…". "Va bene, dove ti trovo?". "Alla clinica, vado a vedere come vanno i lavori. Strumentazioni eccezionali, devono venire da tutto il Sud se vogliono fare esami di quel tipo…Vado a controllare anche l'albergo… un paradiso!". "Avete fatto il discorso per le sovvenzioni….?". "Tutto a posto…". "Allora a presto…". "Ricordati di Ciccio!". Dall'altra parte di Palermo, lontano dalle piscine e dai giardini, tra i vicoli magri della gente sempre inseguita dagli sbirri, Calogero è chiuso nella sua stanza. Di tanto in tanto si sdraia sul letto. La vescica gli da' dolore. Ma è la rabbia a sfiancarlo. Deve pensare a sistemare i Mandamenti. Occorre recuperare il controllo del territorio, ritornare tra la gente, rilegittimarsi. Per questo deve trovare cristiani affidabili, che si sappiano muovere sia all'interno dell'organizzazione sia all'esterno. Troppi casi di gestione egoista della cassa, troppi litigi. Teme soprattutto le tragedie. Quando i suoi uomini riferiscono le situazioni, sente cento campane, tutte con il batacchio ovattato e falso. Ha l'impressione che il corpo della società criminale sia ammalato. Forte nel suo insieme, ma troppo preoccupata di affermare interessi personali, ruoli e promozioni. Ora che ha una piena legittimazione, che ha risolto il passaggio di potere a Palermo, allora può anche muoversi a sistemare un po' di cose. Con calma. Non può sbagliare. Ci sono ancora nemici in giro, pronti ad affilare i coltelli. Il nipote è alla porta. Ha fretta. Sono ore che cammina per seminare probabili ombre di sbirri, forse solo delle sue paure. Deve portare pizzini e fare un'imbasciata, più delicata, s'impone parlarne di persona. "Zu' Calogero, u' dutturi ha mandato i suoi saluti… dice che le cose stanno andando bene. Presto si parte. Così mi dice. Però ha fatto sapere che l'aria dalle sue parti è tesa e avvelenata. Insomma, pare che don Ciccio, che voi conoscete bene, farebbe lo sbirro, insomma, non sente i consigli. Nemmeno l'escavatore bruciato gli ha fatto mettere l'anima in pace…". "Non doveva avere una sua parte nei lavori, quelli che l'ingegnere ha fatto sulla costa?". "Non li ha avuti". "Così iddri fanno i guai e poi chiedono a' nuatri di intervenire. Curnuto anche don Ciccio. Deve capire che prima, con i corleonesi, faciva u beddru e malu timpu. Nuatri ci scappellavamo, quando iddu passava, annacandosi ntu' paisi. Aveva i piedi sotto tutti i tavolini, quando si decideva sui lavori più importanti. Ora l'aria è cangiata. I primi a pagare, quando cangia u'ventu, sono proprio gli amici, sono quelli che rappresentano il vecchio sistema a pagare per primi…". "Anni fa, quando è stato arrestato…non ha parlato…". "Si, i giudici dicevano che era un cristiano. Iddru! Era uno di quelli che s'attaccano come pidocchi e vorrebbero diventare dita della nostra mano. Noi ora il pugno lo chiudiamo…. Si.. Serba a pezza pi quannu veni u’ pirtusu… u’ pirtusu i s'apriu..". Nello studio affollato di carte, di cassaforti piene, dietro quadri di madonne e crocifissi, Giuseppe e la segretaria preparano i loro progetti. Li interrompe lo squillo stridulo del telefono. "Pronto!". "Sono l'ingegnere..C'è Giuseppe?". "Un attimo che le passo il dottor Giuseppe". "Ehi, hai saputo?". "Cosa?". "Stamattina, mi è venuto un colpo… Ho sentito la radio…". "Che è successo?". "Don Ciccio, l'hanno fatto secco…!". "Noh! Hanno ammazzato don Ciccio!". "Non se ne può più. Tutti questi morti…. Non si può stare più in Sicilia….". "…hai ragione… è impossibile lavorare in Sicilia!". |