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GNOSIS 2/2007
Quando le imprese se ne vanno all’estero

Opportunità e rischi della delocalizzazione


articolo redazionale

La delocalizzazione appare un'esigenza irrinunciabile per confrontarsi sul terreno della competitività. La ricerca del minor costo spinge spesso verso strategie di delocalizzazione di fasi del processo produttivo. Trasferire all'estero la produzione è un pericolo oppure è un opportunità per il sistema Italia? Può la delocalizzazione aumentare la tensione nel mondo del lavoro e, quindi, incrementare i rischi per la sicurezza nazionale?


foto Ansa

Con la "globalizzazione" dei mercati e la "finanziarizzazione" dell'economia si sono spesso verificate sperequazioni nella distribuzione sia del reddito sia dell'informazione tra i vari attori del sistema, favorendo la crescita di comportamenti aziendali tesi al consolidamento dei livelli di concorrenzialità ritenuti necessari.
Tra questi, le decisioni relative alla localizzazione geografica delle diverse fasi del ciclo di produzione hanno assunto rilevanza nell'ambito della razionalizzazione dei processi aziendali.
Pur presente nel sistema industriale occidentale da almeno un secolo (1) , solo negli ultimi quindici anni la delocalizzazione ha assunto le caratteristiche e le dimensioni attuali per effetto della sempre maggiore domanda di beni da parte di un universo di consumatori a prezzi di mercato decisamente concorrenziali.
Per soddisfare queste esigenze, nonché quella di contenimento dei costi, il sistema produttivo ha dovuto distribuirsi in siti operativi dislocati in aree del mondo con un evidente ridimensionamento dei tradizionali poli industriali. Ciò ha comportato significative trasformazioni nel tessuto economico e sociale delle zone interessate, mutamento che spesso è stato percepito dalle forze sociali come un fattore di impoverimento in quanto ha provocato, nelle aree di "abbandono" industriale, la contrazione della forza lavoro (soprattutto per attività non specialistiche) e la riduzione del potere d'acquisto dei salari, con il conseguente forte ridimensionamento del livello di benessere generale.
Da un sondaggio dell'Osservatorio Demos sul Capitale Sociale è risultato, ad esempio, che il 38% dell'opinione pubblica delle regioni del Nord-Est valuta la delocalizzazione come una delle minacce più gravi per i lavoratori e per l'economia locale (percentuale che sale in modo significativo tra pensionati, casalinghe e operai). Solo il 6% degli intervistati ritiene la delocalizzazione un "fatto positivo". Il restante 56% valuta, invece, il fenomeno "vantaggioso solo per le imprese, ma rischioso per lo sviluppo socio-economico delle singole regioni".
Il risultato di questa inchiesta non pone solamente interrogativi riguardanti questioni di politica industriale, ma rappresenta un segnale d'allarme per la sicurezza nazionale in quanto tale malessere può determinare il terreno fertile ove possono attecchire mai sopite istanze di tipo eversivo.


Variabili che attivano
la delocalizzazione


La comprensione delle determinanti dei processi di globalizzazione dei mercati richiede l'analisi delle caratteristiche salienti dell'attuale sistema concorrenziale.
Un primo fattore è rappresentato dalle innovazioni tecnologiche, di prodotto e di processo. Con la confluenza di più tecnologie nell'ambito di una stessa industria, il fattore tecnologico è diventato il nodo di collegamento, e di integrazione, a livello internazionale tra settori diversi. In presenza di una crescente complessità delle conoscenze tecniche, l'esigenza di disporre di competenze indispensabili per competere a livello mondiale ha indotto soggetti economici diversi alla formazione di accordi ed allo sviluppo di alleanze transnazionali.
La cooperazione su base transnazionale ha introdotto nuove forme di internazionalizzazione, alternative al modello della multinazionale (tendente all'estensione all'estero dei processi economici e commerciali al fine di generare economie di scala) (2) .
Le forme di cooperazione si sono fondate sulla ricerca di complementarietà sinergiche che coinvolgono imprese appartenenti a sistemi economici differenti, in possesso di conoscenze specifiche. Tali condizioni di complementarietà diventano necessarie in presenza di costi (ingenti) di avviamento e mantenimento da sostenere.
Nella cooperazione transnazionale, tali sinergie si realizzano mediante alleanze strategiche e fusioni/acquisizioni (3) , utilizzate per inserirsi in mercati esteri già esistenti, scelti come "target" dall'azienda.
Tali strategie vengono anche ricondotte a decisioni di ottimizzazione fiscale (mediante la coordinazione tra le scelte di minimizzazione dell'onere fiscale e le finalità da perseguire all'estero in termini industriali e commerciali).
Da operazioni di joint-venture con soggetti stranieri si è passati al decentramento all'estero di business units (complete e funzionalmente autonome) dell'impresa, financo alla costituzione in loco di nuove strutture economicamente indipendenti, onde conferire maggiori profili di convenienza ai mercati di approvvigionamento e maggiori dimensioni ai mercati di sbocco. In tal senso, la ricerca di condizioni di complementarietà ha acuito la competizione esistente in materia di localizzazioni.
Tra i fattori che spingono gli imprenditori a trasferire all'estero la produzione incide in misura determinante il differenziale nel costo del lavoro. Appare infatti evidente che per essere concorrenziali occorre realizzare un bene ai più bassi prezzi di mercato. Per raggiungere tale scopo è necessario incidere sui costi relativi di produzione, obiettivo possibile se si reperiscono le materie prime ai prezzi più vantaggiosi, si aumenta la produzione o si contengono i salari.
Nel momento che si valuta il differenziale sul costo della manodopera non si deve pensare che sia di pochi punti percentuali. Il rapporto tra la retribuzione di un lavoratore di un paese industrializzato e quella di un lavoratore bulgaro o filippino è di 10 a 1. Questo differenziale è ancora più evidente se, ad esempio, si rapporta il costo di un lavoratore di Zurigo con uno di Bombay o Karachi: in questo caso il rapporto è di 26 a 1 (4) .
Per capire quanto incida la quota costo del lavoro sul valore finale di un bene è sufficiente considerare che se la realizzazione di un prodotto, come ad esempio un climatizzatore, richiede 4 ore di lavoro/uomo, l'incidenza sarà di 70 dollari in uno stabilimento dell'hinterland di Francoforte, 13,5 dollari in una fabbrica polacca (distante solo poche centinaia di chilometri da una similare ditta tedesca) e di 5 dollari in una azienda ucraina o thailandese.
Un altro fattore che ha spinto ad un più frequente ricorso alla delocalizzazione è l'ampliamento della domanda internazionale di beni.
La liberalizzazione dei mercati dei beni, dei servizi e dei fattori di produzione a livello globale (in particolare nelle economie in precedenza pianificate centralmente) ha costituito uno shock dell'offerta, massiccio e positivo, che è stato profondamente disinflazionistico a livello globale e che ha contribuito ad una significativa deflazione controllata dei prezzi. In anni recenti, non solo i prezzi dei beni e dei servizi, ma anche le retribuzioni e le attività lavorative hanno iniziato a reagire all'accentuata apertura internazionale a favore delle imprese, quasi ovunque nel mondo. La stagnazione dei consumi degli anni ottanta ha poi costretto le aziende nei paesi ad economia avanzata ad adottare due tipi di strategie: differenziare la produzione per acquisire altre quote di mercato (ad esempio le imprese automobilistiche hanno avviato la costruzione di televisori, frigoriferi, computer, ecc.); ampliare il bacino dei potenziali consumatori sia in senso verticale (opportunità per persone di livello economico più basso di accedere ai prodotti) che in senso orizzontale (apertura al mercato internazionale).
Altri motivi d'interesse scientifico e tecnologico appaiono correlati all'espandersi della delocalizzazione. L'evoluzione dei sistemi di trasmissione delle informazioni, ad esempio, consente oggi comunicazioni globali, rapide, potenti e a basso costo. Nel 1930 una telefonata di tre minuti da New York a Londra costava circa 300 dollari. La stessa conversazione ha raggiunto, agli inizi degli anni ottanta, il costo di due dollari. Oggi la stessa telefonata costa meno di 10 centesimi ed è possibile (grazie soprattutto alla diffusione di Internet e della banda larga) dialogare con un partner commerciale e produttivo di un altro continente per un tempo indefinito e con una spesa irrisoria.
Se la quantità dei "dati" trasmessi è impressionante anche la quantità delle merci trasportate non è da meno. Negli ultimi venti anni è triplicato il volume della movimentazione delle merci mentre i costi di spedizione si sono ridotti del 40-70%. Un fattore, quest'ultimo, che, correlato alla riduzione dei dazi e delle barriere doganali, ha decisamente favorito il ricorso alla delocalizzazione.
Altre variabili incidenti sul fenomeno sono rappresentate dalla presenza nel paese ove s'intende delocalizzare di una popolazione in possesso di know-how tecnico, culturale e intellettuale in grado di assorbire una strategia produttiva di medio-alto livello, nonché dalla normativa riguardante la tutela ambientale e sanitaria.


foto Ansa

Da decenni, infatti, nei paesi ad economia avanzata, ogni attività industriale è sottoposta a rigide verifiche che rendono ormai sempre più ardua la costruzione di una filiera produttiva nociva e inquinante. Realizzare un bene in modo ecologicamente sicuro e garantire uno smaltimento delle scorie può comportare a volte (si pensi, ad esempio, all'industria conciaria) un onere addirittura superiore al costo di produzione della merce stessa.
Diviene quindi difficile, per un imprenditore, resistere alla prospettiva di trasferire l'azienda in un paese dove si può usufruire di una normativa di tutela ambientale permissiva e dove è possibile evitare onerosi controlli sullo smaltimento di scorie industriali (in pratica operando una sorta di delocalizzazione delle scorie).
Il potere contrattuale dei sindacati nei paesi ove si pensa di delocalizzare rappresenta, infine, uno degli aspetti principali nell'analisi di fattibilità di un progetto di delocalizzazione.
In gran parte dei paesi emergenti tale potere è, rispetto a quello esercitato nei paesi ad economia avanzata, insignificante in quanto frequentemente la tutela dei diritti dei lavoratori è ritenuta secondaria rispetto all'esigenza primaria di industrializzazione. Tale opportunità spesso viene seguita da una comparazione tra il ruolo svolto dalla pubblica amministrazione nel territorio dove s'intende distaccare parte dell'azienda e nel paese d'origine dell'impresa. Un apparato burocratico lento e farraginoso comporta sicuramente costi aggiuntivi per l'imprenditore, il quale può trovare, ad esempio, una pubblica amministrazione come quella italiana verso la quale le imprese, sia nazionali che straniere, non nutrono certamente un’opinione benevola. Una burocrazia moderna e rapida rappresenta, infatti, anche una "cultura d'impresa" che consente di programmare strategie produttive ad ampio respiro in grado, a volte, di colmare il gap dello scarso profitto.
La delocalizzazione rappresenta quindi il "punto d'incontro" di due bisogni: quello degli imprenditori, interessati a restare in modo competitivo nel mercato, e quello dei paesi che intendono cogliere le opportunità della globalizzazione per trasformarsi rapidamente da paese in via di sviluppo a realtà industrializzata.


Il fenomeno delle Zone
Economiche Speciali (ZES)


Attualmente nel mondo esistono più di 300 "Zone Economiche Speciali" (ZES) (5) distribuite in più di 50 paesi. Negli anni ottanta il primo a intuire l'opportunità di introdurre ZES fu il leader cinese Deng Xiaoping deciso a far uscire la Repubblica Popolare Cinese dalle pastoie del socialismo reale e dell'isolamento autarchico. La trasformazione della fascia marittima (quella con maggiore vocazione commerciale) rispetto alle regioni interne (ancorate ad un arcaico modello agricolo) divenne il fulcro della strategia economica cinese, creando tanti "cloni" di Hong Kong, pronti ad accogliere gli ingenti capitali provenienti dall'"odiato mondo capitalista".
Nacquero, quindi, quattordici ZES che iniziarono a garantire operai specializzati con un salario di 200-350 euro mensili (mentre gli apprendisti guadagnano tra i 50 e i 70 euro) e l'esenzione di imposta sui redditi d'impresa per gli investitori stranieri nei primi 3-5 anni di attività (6) .
In meno di due decenni, attraverso le ZES si realizzò una zona ove vige tuttora una sorta di "socialcapitalismo" (o se si preferisce il "capitalsocialismo") nella quale più di 250 milioni, tra tecnici e operai, spesso lavorano con o per conto di imprenditori stranieri. Oggi qui si concentra quasi il 90% degli investimenti esteri e si registra un tasso di crescita due volte superiore alla media nazionale (se nelle ZES vive solo il 20% della popolazione cinese qui è prodotto il 70-80% della ricchezza dell'intero Paese).
Analogamente in Europa, la creazione di ZES (Polonia, Bulgaria, Lettonia, Repubblica Ceca, Romania) sta determinando un’anomala e squilibrata polarizzazione economico-produttiva in quanto nei paesi fondatori dell'UE non esistono esperienze analoghe. Teoricamente l'allargamento dell'Unione a 27 paesi potrebbe registrare l'oggettiva difficoltà per paesi come la Polonia ad omologarsi alle regole del mercato mediante la chiusura progressiva delle ZES, viste come un'opportunità ulteriore di sviluppo. La resistenza verso il progetto di ridimensionamento delle ZES trova, inoltre, l'appoggio dei consumatori occidentali che, pur se sono poco propensi ad una economia delocalizzata, non vogliono assolutamente rinunciare ad acquistare merce a basso costo.


Dimensione del fenomeno

Quale è, a livello mondiale, la dimensione del fenomeno delocalizzativo? Stabilirne la reale estensione non è compito agevole per la presenza di una produzione frammentata sommersa che sfugge a qualsiasi rilevamento. Nonostante questi limiti quasi tutti gli analisti sono concordi nello stimare che il 30% della produzione industriale mondiale e, soprattutto, l'80% dell'attività ottenuta con nuovi brevetti (praticamente nell'intero pianeta il 30% degli operai occupati nel settore manifatturiero) è realizzato in aziende delocalizzate. Si tratta quindi di una realtà che influisce in modo significativo sull'economia mondiale globalizzata, ma che comunque si differenzia in modo rilevante nelle varie realtà territoriali.
In Italia l'ICE (Istituto Commercio Estero), che annualmente presenta un resoconto sul multinazionalismo italiano, nel Rapporto del 2006 evidenzia nel nostro paese una delocalizzazione bidirezionale contrapposta.
Secondo l'ICE nel 2006 le aziende italiane che hanno "investito" (in modo totale o parziale) in attività dislocate all'estero (delocalizzazione attiva) sono state 5.789. Esse hanno dato vita a circa 17.200 imprese ove lavorano 1.120.000 persone (con una media tra impiegati e operai di circa 70 unità produttive per ogni azienda delocalizzata). Queste piccole-medie realtà economiche hanno in totale fatturato circa 322 miliardi di euro. Gran parte di queste aziende operano nel commercio all'ingrosso (il 46%) e nel settore manifatturiero (il 31%), mentre solo il 14% è impegnata nel settore dei servizi e della logistica.
I dati del 2006, pur evidenziando un discreta vivacità delle imprese italiane che delocalizzano (+8,2% come numero di aziende rispetto al 2001 e +13,9% di fatturato in cinque anni), mostrano un eloquente ritardo rispetto agli altri paesi europei. Il multinazionalismo italiano è, infatti, quantitativamente pari a alla metà di quello francese ed è circa un terzo rispetto a quello tedesco e britannico.

Anche i dati riguardanti la delocalizzazione passiva in Italia appaiono degni d'interesse. In base al Rapporto ICE - 2006 le aziende in Italia controllate (in toto o in parte) da imprese straniere sono circa 7.100 (lo 0,5% del totale nazionale). Queste entità produttive sono caratterizzate da elevati livelli tecnologici, consistenti fatturati (394 miliardi di euro, corrispondenti al 17% circa del totale della produzione industriale italiana) e significativi livelli occupazionali (circa 858 mila salariati).
Gran parte delle aziende delocalizzate in Italia appartengono al comparto industriale e a quello della grande distribuzione commerciale. La maggior parte di esse (più del 50%) sono concentrate nel Nord Italia, mentre le regioni meridionali (nonostante siano in grado di offrire più bassi costi di produzione) attraggono pochissimo gli investitori stranieri: le aziende delocalizzate non sono più di 200 e impiegano meno di 50 mila persone.
Secondo l'ICE la modesta appetibilità del nostro meridione è determinata da diversi fattori: carenze infrastrutturali, inefficienza dell'apparato politico e della pubblica amministrazione, un regime fiscale non favorevole alle imprese straniere, costo troppo elevato dei taluni servizi, scarso livello professionale del personale da destinare all'attività manageriali e, infine, presenza, in alcune realtà, di un crimine organizzato particolarmente invadente. Gran parte di questi aspetti hanno contribuito a frenare il flusso (in regioni come la Campania, Calabria e Sicilia) d'investimenti provenienti da imprenditori sia stranieri che italiani.
La delocalizzazione passiva è un fenomeno sostanzialmente statico anche se non mancano segnali contraddittori. Da una parte sembra essere diventata una costante il numero (40-50 unità) delle aziende straniere che ogni anno abbandonano il nostro paese, dall'altra si segnala una ripresa degli investimenti esteri in Italia. Nel 2006, secondo una stima dell'United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD), essi hanno raggiunto i 30 miliardi di dollari.
Una cifra consistente se paragonata a quella del 2004 (circa 17 miliardi), ma certamente ancora inferiore a quella registrata da paesi come la Francia (88 miliardi di dollari) o il Regno Unito (circa 170 miliardi).
Il confronto tra le due delocalizzazioni (attiva e passiva) evidenzia come per ogni azienda avviata in Italia da una società straniera ne corrispondono più di due avviate da imprese italiane fuori dal nostro territorio.
Questo dato ha comunque subito negli ultimi venti anni dei radicali cambiamenti. Il grafico di seguito evidenzia, infatti, che se la delocalizzazione attiva nel settore manifatturiero ha registrato un incremento medio annuo del 55% (si è passati dalle 700 imprese del 1986 alle circa 5.500 del 2006), quella passiva, viceversa, ha conseguito un aumento medio annuo di solo il 4%.


Appare chiaro quindi come se fino agli anni ottanta l'Italia era (per l'estrema competitività delle nostre aziende) un paese dove conveniva delocalizzare, mentre (se si escludono grandi aziende come la FIAT) per le nostre imprese il trasferimento all'estero della produzione rappresentava una scelta rischiosa con margini di profitto non sempre appetibili, successivamente ad una delocalizzazione passiva praticamente immutata si è succeduta una attiva (italiani che diventano delocalizzatori) in salita esponenziale (7) .


Rapporto delocalizzazione/disoccupazione

La "delocalizzazione" è un fenomeno in larga misura superato dai fatti, se inteso come mero spostamento all'estero di parti della produzione di minore valore e a costo più elevato. Il termine e l'idea della delocalizzazione alimentano un alone negativo nell'immaginario collettivo, cui seguono le immediate reazioni presso i lavoratori, l'opinione pubblica, i politici e, in qualche caso, fra gli stessi imprenditori (8) .
Al fine di alimentare un clima culturale più attento alle scelte di "internazionalizzazione" che di mera "delocalizzazione", è opportuno esprimersi in termini di "riallocazioni intra-industrali", indicando con esse il nuovo posizionamento nella divisione dei mercati internazionali, presidiando nuove frontiere e, contemporaneamente, trasformando e arricchendo il territorio di stabilimento (9) .
Al riguardo, è interessante evidenziare come la localizzazione dei processi produttivi abbia contribuito alla costituzione dei noti fenomeni di distrettualizzazione industriale (10) .
Come evidenziato dal sondaggio dell'Osservatorio Demos sul Capitale Sociale la delocalizzazione si impone spesso all'attenzione generale quando emerge il dubbio (per alcuni quasi una certezza) che il fenomeno incida negativamente sia sull'economia che sul mercato del lavoro italiano. Indagini scientifiche in grado di analizzare in modo esaustivo il rapporto "delocalizzazione e disoccupazione" non sono numerose e si basano, in gran parte, su parametri indiretti (non sempre affidabili) e su ricerche svolte prevalentemente negli USA ove da più di cinquanta anni è presente la delocalizzazione.
Per un lungo periodo negli Stati Uniti (dove la flessibilità del mercato del lavoro fa sì che ogni settimana un milione di persone perda il lavoro ma un altro milione riesca a trovarlo senza eccessivi sforzi) la eventuale disoccupazione indotta dalla delocalizzazione è apparsa come una naturale evoluzione del sistema produttivo privo di effetti significativi sul florido modello statunitense.
Nel momento in cui però la delocalizzazione ha toccato il settore dei "servizi" e dell' "innovazione" l'attenzione dei media è salita in quanto più di 500 mila posti di lavoro qualificato (gestione dei call center, ideazione di software e hardware, strutture di ricerca e sviluppo, ecc.) sono letteralmente fuggiti all'estero (11) .


foto Ansa

La spiegazione di una percentuale così alta di lavoratori disoccupati "riassorbiti" nel circuito produttivo è nella presenza nell'economia statunitense di una delocalizzazione passiva (imprenditori stranieri che investono negli States) e che il risparmio di capitali ottenuto dalle aziende americane attraverso la delocalizzazione attiva è in gran parte reintrodotto nel sistema produttivo interno. Quando la Delta Airlines trasferì il proprio call center in India fu costretta a licenziare mille persone impiegate negli uffici prenotazione della compagnia aerea. Successivamente, attraverso i risparmi di questa operazione di outsourcing, sono state aperte nuove attività commerciali creando 1.200 nuovi posti di lavoro.
L'esperienza statunitense mostra, inoltre, che una risposta non ponderata e impulsiva alla delocalizzazione provoca reazioni nell'economia globale che a volte si trasformano in veri e propri "boomerang" sull'occupazione.
Il professor Daniel Drezner (Università di Chicago) è d'uso rammentare un "amaro" aneddoto. Per "salvare" dalla bancarotta i produttori di zucchero americani sono stati, negli anni passati, introdotti pesanti dazi e quote restrittive sull'importazione di questo prodotto. Il prezzo interno dello zucchero negli Stati Uniti in breve è aumentato del 350% rispetto a quello del mercato estero con grande soddisfazione degli agricoltori e dei raffinatori di zucchero. Questo aumento ha, però, costretto i produttori di caramelle a delocalizzare, con il risultato che ben 10.000 persone (sia del settore agricolo che dolciario) hanno perso il posto di lavoro.
Le straordinarie capacità della società e dell'economia statunitese di reagire ad eventi epocali come la delocalizzazione non deve però essere interpretata in modo eccessivamente entusiastico. Alcuni effetti della delocalizzazione rischiano, come sostiene il Premio Nobel Prof. Paul Sameulson, se non opportunamente governati di alterare in modo irreparabile la struttura sociale e produttiva. Da tempo, ad esempio, l'americano medio sembra disinteressarsi a professioni collegate sia al settore industriale che alla tecnica applicata.
I sondaggi confermano come, da tempo, ogni anno negli States raggiungano l'abilitazione quasi quarantamila avvocati (ve ne sono quasi un milione in totale) mentre scarseggiano ricercatori, ingegneri, chimici e informatici (il 40% degli scienziati e degli ingegneri con un dottorato di ricerca in università locali sono nati all'estero). Negli Stati Uniti risiede il 4% della popolazione mondiale, si produce il 20% del PIL mondiale, ma vi esercita il 50% degli avvocati del pianeta (ognuno dei quali guadagna in media, più di trecentomila dollari l'anno) in quanto ogni contenzioso è un buon motivo per avviare una causa.
Per quel che concerne l'Italia l'assenza di un costante ed efficace monitoraggio non permette di cogliere l'esatta influenza della delocalizzazione sull'occupazione. L'analisi di alcuni dati statistici permette di stilare una valutazione non influenzata da componenti emotive e ideologiche.
Il primo elemento da approfondire riguarda l'andamento dell'occupazione dal momento in cui la delocalizzazione attiva ha assunto nel nostro paese dimensioni rilevanti.
Se teoricamente il trasferimento all'estero della produzione avesse, in dieci anni, indotto il trasferimento dall'Italia di 630 mila posti di lavoro (di cui solo 50 mila compensati dalle aziende stranieri operanti nel nostro territorio) avremmo dovuto constatare un peggioramento nel livello di occupazione non indifferente. In realtà il numero degli occupati si è incrementato di circa un milione e mezzo di unità (il tasso di disoccupazione, nel 2006, si è attestato al 6,8%).
L'internazionalizzazione della nostra produzione avrebbe, quindi, (nonostante la sostanziale "stagnazione" della delocalizzazione passiva) in qualche modo contribuito alla crescita del sistema produttivo ed al mantenimento (se non miglioramento) dei livelli occupazionali.
L'ottimistica lettura di questi dati deve, comunque, essere sostenuta da una analisi comparata con i due aspetti che sembrano caratterizzare la nostra delocalizzazione attiva. Il fenomeno, infatti, riguarda prevalentemente il settore manifatturiero e le aree geografiche del nord Italia. Ne consegue che solo in queste realtà produttive e territoriali si dovrebbero, teoricamente, verificare effetti negativi sull'occupazione.
In sfere produttive definite genericamente come "Servizi" osserviamo al contrario un incremento di quasi due milioni di occupati. In particolare il settore dei "Servizi alle imprese" registra un progresso di quasi 800 mila unità mentre il "Terziario" di più di mezzo milione. Significativo a riguardo il fatto che l'aumento sia abbastanza omogeneo per tutte le zone del Paese.
La tendenza dell'economia italiana sembra quindi ormai essere quella della terziarizzazione che si è manifestata con un incremento sia in termini di imprese (+23,9%) che di addetti (+24,7%), contrapposto ad un forte ridimensionamento dell'industria, nel corso del decennio, sia in termini di aziende (-3,6%) che di occupati (meno del 9,6%).
La terziarizzazione ha indotto (oppure costretto) una fascia consistente di salariati (che può essere stimata in circa il 3,5% della forza lavoro) a "cambiare la tipologia professionale e di impiego".
Alla luce di questi dati si potrebbe affermare che la delocalizzazione in Italia non sembra aver inciso sul numero totale dei lavoratori occupati, ma ha contribuito (insieme ad altri fattori macroeconomici) a mutare - soprattutto in alcune zone - sensibilmente il "profilo" del sistema produttivo italiano. Ciò ha portato ad una migrazione professionale (a volte anche territoriale) che in altre realtà (come quella statunitense) potrebbe apparire ordinaria e accettata da gran parte delle componenti sociali e produttive, ma che per la nostra società rappresenta un evento socio-economica insolito non sempre gradito e metabolizzato.
L'Italia in passato è stata certamente caratterizzata da massicce migrazioni professionali sia interne che verso l'estero (tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, ad esempio, decine di milioni di persone si sono trasferite dal sud al nord e dai piccoli centri alle metropoli) ma questi macrofenomeni sono stati provocati soprattutto dall'assenza completa nel proprio territorio di opportunità d'impiego e dal bisogno di trovare retribuzioni superiori, e non certo dalla presa d'atto che l'azienda (dove spesso si è lavorato per decenni) deve, per non chiudere l'attività, licenziare e trasferire la produzione all'estero per rimanere competitiva nel mercato.


foto Ansa

Il mutamento (spesso coatto) del profilo professionale porta inevitabilmente ad una sofferenza sociale in quanto il lavoratore italiano medio ha in genere verso l'impresa un rapporto non esclusivamente di tipo occupazionale. Per lui, infatti, aspetti sociologici, psicologici e culturali connessi al lavoro non sono certamente complementari. Si pensi allo spirito di appartenenza all'azienda, alle dinamiche sociali e psicologiche connesse al ruolo ricoperto, all'inserimento del proprio nucleo familiare in una specifica realtà culturale e territoriale. Il dipendente italiano assume una posizione generalmente valutata come rigida. Si tratta, in realtà, di una persona che normalmente rifiuta l'idea che lo sviluppo economico globale possa intaccare il "suo microcosmo esistenziale" (spesso faticosamente costruito).
La presunta difficoltà del lavoratore ad accettare turbative derivante dall'evoluzione del mercato del lavoro è in parte confermata da un sondaggio dell'ottobre 2006 della FIM-CISL. Alla domanda "se era giusto, a parità di salario, aumentare le ore di lavoro per salvare posti di lavoro in aziende minacciate dalla delocalizzazione", il 65% degli intervistati ha risposto in modo decisamente negativo.
Al disagio sociale legato alla delocalizzazione non sono rimasti certo indifferenti gruppi eversivi di matrice marxista-leninista che, bisognosi di guadagnare consenso tra i lavoratori in difficoltà, hanno da tempo inserito tra i prioritari obiettivi strategici di lotta sia la politica sul lavoro che il cosiddetto SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali). Gruppi come le Brigate Rosse, ad esempio, hanno più volte affrontato nelle rivendicazioni di azioni terroristiche il problema della "delocalizzazione".
Basti ricordare, ad esempio, quanto scritto nel volantino diffuso a seguito dell'omicidio del giornalista Walter Tobagi (ucciso, dalla "Brigata 28 Marzo", a Milano il 28 maggio 1980). La "classe dominante" veniva già allora accusata di "spezzare la classe operaia degli addetti alla stampa" attraverso "l'informatizzazione della fotocomposizione del giornale il Corriere della Sera e la multinazionalizzazione dell'informazione". Per l'ideologia brigatista la delocalizzazione non ha prodotto una "ridistribuizione del lavoro e dei redditi verso i paesi poveri", ma un sistema per "la classe imprenditoriale di mantenere inalterato il profitto attraverso la disoccupazione e la ricerca del costo del lavoro più basso".
Questa tematica è diventata una costante dal 1983 (ferimento del prof. Gino Giugni) ed è stata sempre presente nei documenti di rivendicazione dell'omicidio di Ezio Tarantelli (Docente di Economia Politica e Presidente dell'Istituto di Economia del Lavoro) del 1985, di Massimo D'Antona (Docente di Diritto del Lavoro e consigliere del Ministro del Lavoro) del 1999 e, infine, di Marco Biagi (Docente di Diritto del Lavoro e consulente del Ministro del welfare) del 2002.
Se scopo della "propaganda armata" è quello di ottenere anche il consenso della "classe sociale di riferimento", la presenza di un forte disagio sociale tra quanti temono le conseguenze della delocalizzazione può favorire l'adesione (o il sostegno) verso organizzazioni ritenute capaci di difendere i diritti dei lavoratori ricorrendo anche alla lotta armata.


Conclusioni e prospettive

L'analisi del fenomeno per essere oggettiva deve comunque basarsi su valutazioni scientificamente sostenibili in quanto sono le uniche che consentono di ridimensionare taluni luoghi comuni sulla delocalizzazione.
Pensare che il trasferimento all'estero della produzione possa progressivamente ridursi - in modo da ritornare ad un mondo non più delocalizzato - è come immaginare di "portare indietro le lancette dell'orologio della storia".
Una asserzione che trova vasti consensi tra coloro che ritengono la delocalizzazione ancor destinata a svilupparsi ulteriormente in quanto le differenze nei costi nella realizzazione di un bene tra le varie zone del pianeta non sembra essere affatto compensata dagli aumenti della produzione nei paesi industrializzati.
L'eventuale iperproduzione non è, inoltre, più assorbibile dai paesi ad economia avanzata, con la prevedibile conseguenza di una forte penetrazione nei mercati dei paesi emergenti rimasti (sino a tutti gli anni settanta) ai margini del libero scambio. L'attivazione di queste nuove reti commerciali si basa, tuttavia, su un "elemento" fondamentale: la possibilità per i paesi emergenti di trasformare il "bisogno" di un bene in "domanda" del bene stesso (il "bisogno" di un frigorifero deve essere trasformato in una "domanda" del frigorifero).
L'eventualità che Paesi a reddito basso si trasformino in potenziali "consumatori di beni" è, ovviamente, fattibile solo se in queste aree si raggiunge un robusto sviluppo economico (con un prevedibile aumento del PIL procapite). Una eventualità quest'ultima realizzabile solo attraverso il trasferimento di parte della produzione industriale ai paesi in via di sviluppo.
La delocalizzazione, quindi, è nei fatti un sistema socio-economico concatenato e coordinato nelle sue varie fasi, basato sulle simmetriche esigenze di tutti i protagonisti del processo (paesi industrializzati e paesi emergenti).
L'evoluzione delle dinamiche localizzative deve necessariamente passare attraverso un rapido mutamento delle dinamiche e dei soggetti coinvolti. L'omogenizzazione, ad esempio, del costo del lavoro tra i vari paesi interessati evolve in tempi sempre più rapidi. Si passa così da essere territorio d'interesse per imprenditori stranieri a paese da dove parte la delocalizzazione per zone "più convenienti" con una velocità sorprendente; l'Italia, ad esempio, per passare da paese delocalizzato a paese che delocalizza ha impiegato almeno quattro lustri, mentre Paesi come la Corea del Sud hanno letteralmente bruciato le tappe.
Se i trenta paesi dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) hanno mantenuto i due terzi della produzione mondiale di beni e i tre quinti delle esportazioni complessive, ciò è anche dovuto alla delocalizzazione produttiva. Se in paesi come l'Italia vasti settori industriali rimangono protagonisti dello scenario internazionale ciò è reso possibile anche dalla realizzazione (all'estero) di beni a prezzi sempre più competitivi: è la esternalizzazione produttiva che consente a parecchie imprese italiane di destinare le energie e le risorse alla creazione di prodotti di avanguardia venduti poi - grazie ai costi ridotti ottenuti attraverso la delocalizzazione - in tutto il mondo.
La delocalizzazione, quindi, è un fenomeno che deve essere analizzato in chiave globale, confrontando sempre costi e benefici, e non un fenomeno in grado di provocare esclusivamente perdita di competitività e riduzione della forza lavoro. A quanti paventano ciò è sufficiente ricordare che la contrazione nell'occupazione viene, generalmente, assorbita dal sistema incanalando la produzione su beni ad elevato contenuto intellettuale e tecnologico e su taluni settori del tutto emergenti.
Se in termini teorici alcune strategie potrebbero circoscrivere il ricorso alla delocalizzazione, gran parte di esse non sono nei fatti attuabili sia per l'alto costo sociale ed economico sia per la scarsa incidenza sul fenomeno. Il primo scoglio è rappresentato dalla difficoltà di applicare contromisure "condivise" da tutti i paesi europei a causa del permanere di interessi discordanti tra le varie componenti della Comunità Europea.
La seconda incognita riguarda l'attenzione che le autorità economiche e politiche dovrebbero indirizzare non solo verso i fattori che potrebbero frenare la delocalizzazione, ma anche verso quelle strategie che inducono la ripresa degli investimenti esteri nel nostro Paese (ripresa del fenomeno della delocalizzazione passiva). Nonostante questi vincoli si possono elencare una serie di soluzioni ed esaminare, in sintesi, sia una loro fattibilità che quantificare, ove possibile, l'incidenza delle soluzioni sul fenomeno delocalizzativo.
A. Riduzione consistente dei costi di produzione e della forza lavoro in paesi come l'Italia. Per funzionare tale strategia i costi dovrebbero ridursi del 50% ed essere accompagnati sia da un aumento non inflazionistico della produzione che da una politica di difesa del potere d'acquisto dei salari. La contrazione dei salari graverebbe sia sui consumi - con la conseguente crisi per quei settori (ad esempio il "terziario") che hanno compensato la perdita di posti di lavoro a causa della delocalizzazione - che sulla intera collettività con una contrazione delle entrate per l'erario e per le casse degli istituti di previdenza.
B. Trasferimento in paesi come l'Italia di lavoratori stranieri con retribuzioni di poco superiori a quelle percepite nei paesi di provenienza. Il tributo da pagare sarebbe l'incremento a dismisura della emigrazione clandestina e del "lavoro sommerso". L'arrivo di lavoratori "regolari" di fatto inciderebbe sul costo della manodopera solo nella misura del 10-20%, con effetti risibili sul grado di competitività delle aziende che continuano ad operare nel nostro Paese.
C. Intervento da parte di organismi nazionali e comunitari a sostegno della produzione di beni che diversamente, per gli elevati costi, rimarrebbero esclusi dal mercato internazionale. Questo supporto prevede che il differenziale tra prezzo del bene prodotto in paesi come l'Italia e quello realizzato in aree delocalizzate venga colmato attraverso un contributo prelevato dal bilancio nazionale o comunitario. Negli intenti delle autorità politiche tale sostegno dovrebbe consentire alle aziende di recuperare i livelli di concorrenzialità così da competere sul mercato con prezzi di equilibrio. La storia della strategia della compensazione dei prezzi attraverso i sussidi - come quella applicata in Europa con la Politica agricola comune (PAC) - induce a qualche riflessione. Con la PAC sono stati pianificati degli "aiuti" per gli agricoltori (pari a quasi 40 miliardi di euro annui, circa metà del bilancio comunitario) a volte erogati in base al quantitativo di merce prodotta. Tale sostegno ha portato alcuni imprenditori a produrre quantitativi di merce superiore alla richiesta del mercato, con la conseguente riduzione del prezzo e l'incremento delle giacenze invendute (12) . Nonostante il numero dei lavoratori agricoli sia diminuito notevolmente, il flusso degli aiuti comunitari ha evitato che gli imprenditori agricoli delocalizzassero. Ma è stata una forzatura.
D. Incremento degli ammortizzatori sociali per le aziende che, a causa della scarsa competitività, sarebbero costrette a ridurre la forza lavoro. Se nei fatti attraverso i contributi statali (o comunitari) si cerca di sostenere l'azienda caricando di una porzione del costo di produzione sull'intera collettività, con gli ammortizzatori sociali si tenta altresì di impedire che l'impresa sia costretta ad espellere i salariati dal sistema produttivo. Nel primo caso si interviene accrescendo le entrate dell'azienda, nel secondo si riducono le uscite cercando di contenere i costi del lavoro. L'effetto sul mercato è lo stesso: il prezzo del bene rimane competitivo in quanto parte del costo del lavoro viene assorbito dalla collettività (ovviamente attraverso l'aumento dell'imposte) e l'azienda evita di ricorrere alla delocalizzazione. Se i vantaggi economici per l'imprenditore sono indubbi, anche i "benefici dal punto di vista sociale" non sono minori (riduzione della disoccupazione e della conflittualità sociale e sindacale, garanzia per il lavoratore di rimanere nel circuito produttivo, ecc.). Occorre, tuttavia, non dimenticare che se attraverso gli ammortizzatori sociali si offre un supporto concreto al sistema impresa, l'intervento ha un suo significato strategico solo se limitato nel tempo e circoscritto a precise congiunture di mercato (vedasi in Italia gli interventi sulla crisi nel settore automobilistico). Se viceversa diventano interventi a tempo indeterminato si rischia di provocare competitività 'drogata' finalizzata esclusivamente ad evitare il ricorso alla delocalizzazione (con aggravi sul bilancio economico e senza reali prospettive di sviluppo industriale).
E. Ripristino (o inasprimento) dei dazi per i prodotti importati abbinato ad un aggravio della pressione fiscale e alla emanazione di normative penalizzanti per l'imprese che delocalizzano (politica neoprotezionista). Teoricamente questa strategia si palesa come una delle più efficaci in quanto, oltre ad evitare il ricorso alla delocalizzazione, "non pesa" sul bilancio pubblico come invece accade con i sussidi e gli ammortizzatori sociali. Di fatto il dazio grava esclusivamente su chi importa la merce e induce ad evitare la delocalizzazione in quanto il bene prodotto all'estero costa di più rispetto a quello prodotto nel proprio paese. Tale vantaggio è solo teorico in quanto alla lunga l'effetto di questa strategia sulle componenti principali dell'economia è stato a volte devastante. Occorre per prima cosa non sottovalutare il fatto che il peso dei dazi ricade direttamente sui consumatori, i quali rischiano di pagare un sovraprezzo che spesso serve solo per tutelare gli imprenditori che non riescono ad imporsi in un libero mercato. È opportuno non dimenticare, infine, che ogni politica protezionistica incide negativamente sugli interscambi commerciali. Se, infatti, l'inasprimento dei dazi doganali disincentiva la tendenza alla delocalizzazione, nel contempo determina una riduzione dell'interscambio commerciale.
F. Identificazione - per una successiva incentivazione - dei settori produttivi "non delocalizzabili". Verso i settori produttivi "non delocalizzabili" andrebbero indirizzati tutti gli sforzi tenendosi lontano da strategie miopi che hanno spesso caratterizzato il nostro passato. Occorre, infatti, evitare di far convivere progetti destinati a creare benefici a breve per l'economia ma che, alla lunga, diventano "delocalizzabili" con altri che - pur a profitto ridotto per l'impresa - nel tempo rappresentano l'unicità del nostro Paese (13) .
Altre strategie possono essere di "sostegno" alla modifica del trend sia della delocalizzazione attiva che di quella passiva. Tra esse citiamo una politica monetaria della Banca Centrale Europea che riporti il cambio dell'Euro rispetto al Dollaro a livelli di competitività. Anche la creazione in ambito europeo di "ZES del terzo millennio" - esclusivamente destinate alla sperimentazione ed alla ricerca - potrebbe indurre Paesi tecnologicamente avanzati ad investire e delocalizzare in Europa.
Sulla innovazione e sperimentazione, l'Italia ha mostrato i suoi limiti, ponendosi ai livelli più bassi della graduatoria nel settore ricerca. Se, infatti, siamo al secondo posto in Europa per il numero di aziende impegnate nell'innovazione tecnologica, diversa è la posizione raggiunta per il numero di brevetti. Secondo i dati dell'Osservatorio Brevetti del Politecnico di Torino in Italia si registrano ogni anno in media 4 brevetti per milione di abitanti, un trend ben lontano dalla media europea (circa 18) e statunitense (25). Se questo raffronto è condotto con paesi coma la Svezia (136 brevetti ogni milione di abitanti) e la Finlandia (94), appare chiaro che - ad eccezione di rari casi - il livello di arretratezza del sistema "ricerca" italiano non può essere sottaciuto.
Il fenomeno della "delocalizzazione" esige, comunque, una regolamentazione prima di tutto politica e, in un secondo tempo, commerciale, economica e giuridica. L'internazionalizzazione dei mercati ha sinora creato benefici solo per alcuni paesi e ha reso ancora più forte il divario con le popolazioni che - per mancanza di un know-how e di infrastrutture - sono rimaste ancorate a sistemi produttivi e commerciali obsoleti. Con il desiderio di questi ultimi di agganciarsi all'evoluzione dei processi produttivi e tecnologici, i Paesi industrializzati dovranno sviluppare i futuri equilibri nello sviluppo delle varie opportunità fornite dalla delocalizzazione.


da www.asia-italy.com


(1) I teorici della localizzazione (da Ohlin, 1933, in poi) classificano le industrie come orientate alle risorse e al mercato a seconda che i costi di trasporto impongano una localizzazione in prossimità della fonte delle materie prime o dei consumatori finali.
(2) Il modello della multinazionale ha spesso rappresentato una visione immediata e semplicistica del concetto di globalizzazione.
(3) In un business contraddistinto da bassi margini di profitto e dall'esigenza di disporre di elevati volumi, l'acquisizione di azienda può rappresentare una scelta vincente. Con l'appeal del brand acquisito, e grazie alla competitività dei fattori di costo, l'impresa acquirente può aumentare considerevolmente la propria centralità sul mercato. Altri vantaggi strategici non trascurabili sono il potenziamento del know-how tecnologico, le economie di scala e l'eliminazione di un concorrente dal mercato.
(4) In pratica un indiano o un pakistano o un keniota deve lavorare ben un mese per poter raggiungere il compenso che un collega svizzero ottiene in un solo giorno.
(5) Prevedono usualmente agevolazioni ed esenzioni doganali agli investitori. Sono distinte dalle "zone franche" (free zones), in quanto le ZES sono maggiormente orientate allo sviluppo di una significativa attività di esportazione.
(6) L'esenzione dalle imposte è permanente per l'imprese delocalizzate se producono articoli su brevetti registrati in Cina ma destinati all'esportazione. Viceversa è comunque ridotta al 70% di quella dovuta negli anni successivi, se si rispettano i profili produttivi imposti dal governo locale.
(7) Il dato appare ancora più evidente se confrontiamo il numero di dipendenti nel "Settore Manifatturiero" tra il 1986 e il 2006. Nella delocalizzazione passiva i salariati italiani aumentati di sole 50 mila unità, in quella attiva il numero dei dipendenti stranieri s'incrementato di 630 mila unità.
(8) Gli effetti immaginati come conseguenti ad una decisione di "delocalizzare" sono la perdita dei posti di lavoro, l'impoverimento del tessuto economico a causa dell'interruzione dei rapporti con i subfornitori locali, la riprovazione morale nei confronti dell'impresa che dimostra basso senso di responsabilità allorquando, dopo aver sfruttato le risorse locali, va ad arricchirsi altrove.
(9) Diverse ricerche hanno evidenziato come le imprese che cercano di internazionalizzarsi (soprattutto nei distretti industriali) lo facciano coinvolgendo i fornitori locali, nonché trasformando i sistemi produttivi verso lavorazioni a più elevato valore aggiunto e a maggiore innovazione tecnologica.
(10) Le aree che hanno caratteristiche di distretto sono costituite da un insieme di imprese che fanno parte di uno stesso settore produttivo e per questo, normalmente, in concorrenza tra loro. Queste sono localizzate in un area circoscritta ed abitualmente collaborano dal punto di vista del marketing. L'industria principale del distretto, insieme alle industrie ausiliari e ai molteplici servizi ad essa funzionali, si dimostra pervasiva nei confronti dell'ambiente locale fornendo occasioni di lavoro potenzialmente a tutti gli strati della popolazione. Ne risulta una società locale dominata dalle figure sociali dei piccoli imprenditori e dei lavoratori autonomi, oltre che da quelle dei lavoratori dipendenti, dell'industria, e da una diffusa partecipazione al lavoro dei giovani e delle donne. È pertanto facile comprendere perché nel distretto si realizzi un'identificazione territoriale da parte della società locale, invece che aziendale come accade nei poli industriali dominati dalla grande impresa. Il Distretto Industriale, dunque, esprime la possibilità (per una concentrazione geografica di numerose piccole imprese specializzate) di organizzare la produzione in modo efficiente grazie ai flussi di economie esterne che si generano localmente fra le imprese e, che derivano dall'insieme di conoscenze, valori, comportamenti tipici e istituzioni attraverso i quali la società locale agisce sull'organizzazione industriale.
(11) L'allarme per l'outsourcing dei "colletti bianchi" è, per analisti come Jane Little (Vicepresidente della Federal Riserve Bank di Boston), fuori luogo ed esagerato. L'economista ritiene, infatti, che solo lo 0,01% del PIL statunitense è "dirottato" nei paesi emergenti attraverso la delocalizzazione e che le vittime reali sono non più di 140 mila lavoratori, in quanto il 90% circa dei disoccupati da outsourcing è stato in breve tempo riassorbito in altre mansioni.
(12) Il problema della PAC ha visto aumentare la sua complessità con l'allargamento ad Est dell'Unione Europea. In molti stati dell'ex-blocco socialista l'agricoltura ha, infatti, un peso preponderante. Una politica di sussidi a favore di questi coltivatori determinerebbe un collasso del bilancio della Comunità.
(13) Basti ricordare la scelta di creare il polo chimico-industriale di Mestre. Oggi il megastabilimento rischia di trasformarsi in un monumento al sogno industriale della chimica italiana del dopoguerra, mentre si è corso il pericolo di compromettere in modo irrecuperabile l'ecosistema della laguna di Venezia e la sopravvivenza della stessa Serenissima.

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