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GNOSIS 1/2007
Inaugurazione dell'Anno Accademico 2006/2007
della Scuola di Addestramento del SISDe





Da sinistra: il Direttore del SISDe Prefetto Franco Gabrielli, il Professor Renzo Guolo, il Vice Ministro dell’Interno On. Marco Minniti ed il Vice Direttore Vicario del SISDe Prefetto Francesco La Motta




Roma, 28 febbraio 2007


INTERVENTO del DIRETTORE del SISDE

Signor Ministro dell’Interno, Autorità, Gentili Ospiti,

l’apertura dell’Anno Accademico del SISDe, tradizionale appuntamento ed unica occasione “pubblica” di un Organismo naturalmente votato alla riservatezza, arriva a due mesi dal mio insediamento come Direttore del Servizio.
In primo luogo, ritengo doveroso rivolgere un saluto ed un ringraziamento, assolutamente non di circostanza, al mio predecessore, il Prefetto Mario Mori che ha diretto il Servizio per oltre 5 anni e con lui al Prefetto Andreassi che ci ha recentemente lasciato per raggiunti limiti di età.
In detto periodo il Servizio si è caratterizzato per la serietà delle informazioni e per un rinnovato impulso operativo.
In proposito ritengo che se, per un verso, la serietà costituisca il presupposto etico fondamentale per qualsiasi struttura deputata a fornire informazioni, per altro la capacità di contribuire a contesti operativi sia una qualità non solo da esaltare ma da rendere costante, così da consentire all’Autorità politica ed agli Organismi investigativi di poter fruire di un Servizio sempre più presente e concretamente utile.
In altri termini, due i testimoni che è mia intenzione portare avanti: rendere l’efficacia del Servizio non solo episodica ed elevare ulteriormente il livello del suo contributo rispetto alle varie problematiche che giornalmente pone il dover garantire la Sicurezza.
In tale quadro ritengo che ogni scelta, da subito, debba necessariamente correlarsi ad un più complessivo progetto: è infatti come minimo dispersivo affrettarsi a costruire muri che poi dovranno essere abbattuti in quanto inutili se non dannosi. Di conseguenza è mia intenzione procedere con un metodo che tenga conto: - degli obiettivi, così come indicati dall’Organo politico, in funzione della costante evoluzione insita nel concetto di sicurezza;
- dei progetti: discussi e valutati con le risorse professionali di cui il Servizio dispone, che immagino andrà a disporre con sempre maggiore attenzione alla qualità, ai quali conseguiranno le mie decisioni;
- di una puntuale verifica: quale indispensabile momento di sintesi tra obiettivi e progetti.
Scendendo ora su di un piano più concreto: tre sono le aree sulle quali intendo dispiegare la mia azione. Nel dettaglio:
- valorizzazione delle risorse umane;
- recupero ed ottimizzazione delle risorse economiche;
- definizione del concetto di operatività.
Le risorse umane sono collocate al primo posto e non per caso.
La professionalità di ogni singolo operatore costituisce, infatti, la vera anima del Servizio ed il suo più efficace valore aggiunto.
Ognuno ha un ruolo, assolve a compiti delicati e ha l’onore e l’onere di dover rispondere a domande spesso complesse.
Intendo rispettare detti ruoli, affiancarmi ad ogni singolo nello svolgimento dei compiti ed esaltare il concetto di responsabilità. Io per primo.
La valorizzazione delle risorse umane delle quali il Servizio è dotato impone infatti sia il rispetto di regole, cui nessuno deve intendersi sottratto, sia la capacità di esaltare un senso di appartenenza che non deve solo essere riscontrato in modo formale in occasioni pur importanti come questa, ma percepito, giorno per giorno, nella consapevolezza che i risultati sono sempre frutto di un lavoro di squadra.
Da un canto chi opera, come si dice sulla strada, deve sapere che può contare su di un gruppo che gli consentirà di lavorare al meglio, per converso a chi di questo gruppo fa parte, deve essere riconosciuta la concreta partecipazione ad ogni contesto operativo in una logica di condivisione di rischi e successi.
Solo così il Servizio avrà, come deve essere, una ed una sola anima e ognuno potrà, con orgoglio, rivendicare la propria appartenenza.
Per quanto attiene al recupero ed ottimizzazione delle risorse economiche, molto è già stato fatto dalla gestione che mi ha preceduto. Allo stato l’oggettiva e nondimeno serena valutazione del quadro d’insieme pone come non più dilazionabile il pur doloroso processo di ricambio delle professionalità non più funzionali alle esigenze del Servizio.
E’ argomento questo non facile e spesso causa di malevoli interpretazioni, dovute, più che altro, alla resistenza di chi non accetta le regole che impone il processo di rinnovamento, nonché gli obblighi dettati da un non più procrastinabile contenimento delle spese.
Regole dure, senza dubbio, la cui difficile responsabilità ricade su chi ha l’onere di dover decidere.
Come ho già detto è mia intenzione assumermi appieno detta responsabilità nella più limpida convinzione di contribuire a rendere il Servizio sempre più attuale e pronto alle sfide che lo attendono.
Se è poi vero che ogni Organismo ha una necessità di spesa funzionale alla sua stessa esistenza è altrettanto vero che, nel nostro caso, si tratta di risorse che devono essere sottratte al contesto operativo.
Ogni spesa superflua, inutile o comunque riducibile incide quindi in modo non marginale sul conseguimento dei risultati e quindi sul perseguimento degli obiettivi indicati dall’Autorità politica.
E qui rientra il concetto di squadra cui ho fatto cenno parlando delle risorse umane: ogni operatore demandato al settore amministrativo deve essere assolutamente consapevole della sua capacità di gestione e controllo delle risorse, nonché del suo impulso verso nuove e più funzionali soluzioni economiche, dalle quali può dipendere il successo o l’insuccesso dei vari contesti operativi che il Servizio mette costantemente in campo.
Io stimolerò al massimo questa consapevolezza ed apprezzerò significativamente ogni proposta utile a favorire la disponibilità di risorse economiche per l’area operativa.
E qui arriviamo al terzo punto, forse il più delicato: l’essenza del Servizio, ovvero la sua operatività.
Due gli assi di riferimento: eliminazione di ogni forma di concorrenza con le Forze di Polizia e selezione estrema delle notizie al fine di pervenire ad informazioni effettivamente utili.
Per quanto attiene al primo aspetto ritengo sia del tutto palese che la scomposta sovrapposizione incida in modo a volte esiziale sull’intero assetto delle Forze demandate alla Sicurezza.
Il Servizio ha una sua chiara autonomia: dispone di strumenti e capacità d’intervento, seppure allo stato limitati, del tutto propri e interagisce in modo diverso con le Superiori Autorità. Ha, tra gli altri, il compito fondamentale di concorrere ad innescare contesti investigativi attraverso informazioni puntuali e verificate nonché di contribuire ad attività di Polizia già in corso, qualora disponga di elementi utili, che dovranno essere immediatamente tramitati.
Ho passato nella Polizia di Stato tutta la mia precedente carriera e nel circuito Digos la parte più impegnativa, posso quindi, con coscienza, affermare di conoscere i sottili meccanismi che sottostanno ai vari processi informativi.
La collaborazione del SISDe con le Forze di Polizia sarà, come dovuto, franca, costante e, mi auguro, efficace nel pieno rispetto dei rispettivi ruoli e nell’autonomia delle rispettive competenze.
Sulla qualità delle informazioni molto è gia stato fatto.
Una informazione non adeguatamente verificata non solo è inutile ma costituisce non infrequentemente un pesante onere per le Forze di Polizia.
Il Servizio per assolvere questa funzione strumentale rispetto ad esse ha quindi l’obbligo di valutare attentamente e di assumersi la responsabilità di ciò che viene tramitato ma anche di quanto non si ritiene lo debba essere perché sfornito di anche minimi riscontri o attendibilità.
Il mio impegno sarà volto affinché questa responsabilità venga costantemente assunta ed applicata, ovviamente, in primis, a titolo personale.
Un accenno, infine, ad un “ospite” che pur non presente aleggia in questa sala ed al quale non è possibile non dedicare una breve riflessione: la Riforma.
La Camera dei Deputati, all’esito di un percorso celere ma non per questo meno scrupoloso, ha recentemente approvato, per la parte di competenza, il progetto di legge recante il “Sistema di informazione per la Sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del Segreto”.
Senza nulla togliere al doveroso vaglio del Senato della Repubblica, il testo varato appare equilibrato, attento alle numerose istanze che il delicato settore impone, rispondente all’esigenza, ormai non più dilazionabile, di dotare il Paese di una Intelligence efficiente ed al passo con le sfide che l’attuale momento storico ci propone.
In questa ottica non possiamo non salutare favorevolmente le previsioni, nel testo approvato dalla Camera dei Deputati, di una unitaria responsabilità politica, di un correlato e più incisivo meccanismo di controllo parlamentare, di definite competenze tra i Servizi e di garanzie per i loro operatori.
Tutto questo, ci auguriamo, concorrerà a risolvere gli innumerevoli problemi oggi esistenti rendendo l’attività dei Servizi più armonica rispetto all’intero Sistema della Sicurezza.
Il preesistente sistema binario, confermato, deve infatti trovare una giusta ricomposizione in un quadro di chiare ed inequivoche attribuzioni: i nostri utenti – Autorità di Governo e Forze di Polizia – sono stanchi di ascoltare “voci polifoniche”, indicazioni contraddittorie.
V’è al contrario l’esigenza di razionalizzare le risorse, di perseguire obiettivi esclusivi ed intelligibili.
In questo campo, credetemi, non vale il principio tanto caro ad una economia di libero mercato: la concorrenza. Essa infatti, lungi dal fornire un prodotto migliore, è foriera di confusione, di inutili duplicazioni e di possibili strumentalizzazioni.
Non meno preziosa risulta essere la previsione delle richiamate ‘garanzie funzionali’.
L’operatore dei Servizi di informazione ed il suo fiduciario (in molti casi il vero agent) devono poter sapere, preventivamente, quello che è loro consentito fare e, qualora gli si riferisca la possibilità di violare la legge, devono poter usufruire delle conseguenti cause di giustificazione. Ma le ‘garanzie funzionali’ non devono essere intese solo nell’interesse degli operatori dell’Intelligence, bensì nell’interesse dell’intero Paese e sotto un duplice aspetto:
- da una parte sottraggono agli ignavi l’alibi che non è possibile operare in assenza di esse, incentivando, di conseguenza, la capacità di penetrazione informativa degli apparati;
- dall’altra impediscono agli spregiudicati di travalicare il travalicabile, garantendo i cittadini da ogni indebita interferenza, peraltro, in caso contrario priva di controlli.
Con l’augurio che il percorso, così risolutamente intrapreso, si concluda nel tempo più breve possibile e che gli eventuali interventi emendativi, lungi dal rappresentare un arretramento, consolidino l’impianto complessivo della Riforma, consentitemi di rivolgere un caloroso ringraziamento a chi – nel Comitato di Controllo, nelle Commissioni e nelle Aule Parlamentari nonché nel Governo – si è speso e si spenderà per conseguire un così importante risultato e che oggi ci onora della Sua autorevole presenza.
Vorrei, infine, rassicurare che la comunità dell’Intelligence nazionale, anche in questi mesi, non è rimasta – ed a maggiore ragione per l’avvenire – non rimarrà in attesa messianica della nuova legge: ogni giorno, senza soluzione di continuità, essa concorre a rendere il nostro Paese sempre più sicuro.

Grazie.



PROLUSIONE del PROFESSOR RENZO GUOLO

‘Il problema dell’integrazione in una società complessa’


Le società occidentali sono di fronte a mutamenti sociali di grande portata. L'attuale fase del processo di globalizzazione vede circolare non solo merci o forza lavoro ma individui portatori di identità culturali , religiose ed etniche, che non si lasciano privatizzare e chiedono riconoscimento nella sfera pubblica.
L'avvento delle società multiculturali aumenta la complessità sociale. E sconvolge gli schemi del diritto, intrinsecamente legato alla storia degli stati nazionali: o, meglio, agli stati-nazione, in larga misura culturalmente omogenei. Ne è esempio la tensione cui è sottoposto il concetto di eguaglianza, uno dei principi fondamentali su cui si reggono le democrazie.
La domanda chiave sollevata dalla trasformazione multiculturale della società è riassumibile nel quesito: è possibile conciliare eguaglianza e diversità? Inoltre, in quale ambito, sfera pubblica o privata, va riconosciuta la diversità? Le società europee hanno dato risposte diverse a simili domande, cercando di elaborare modelli di integrazione che, pur nelle diverse impostazioni, hanno in comune anche il proposito di ridurre il conflitto e la devianza, oltre che assicurare lealtà politica. I più noti di questi modelli sono quello assimilazionista e quello multiculturalista.
Il modello assimilazionista adottato dalla Francia, presuppone che l'appartenenza alla comunità nazionale debba fondarsi sulla condivisione di valori ritenuti universali. Lo Stato garantisce l'eguaglianza individuale ed esclude il riconoscimento di diritti collettivi o il trattamento differenziato in relazione a qualche forma di appartenenza.
Gli individui hanno eguali diritti e doveri nello spazio pubblico, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, culturale, religiosa. Le identità particolari, comprese quelle religiose rientrano nella sfera privata e il principio di laicità definisce rigidamente la separazione tra religione e Stato. Parte integrante di questo modello è la concessione, con relativa facilità, della cittadinanza in base al principio dello ius soli: lo straniero diventa cittadino perché condivide i valori che fondano la nazione repubblicana. Valori non legati alla nascita o ai legami di sangue ma alla condivisione di un contratto sociale fondato sui diritti fondamentali dell'uomo.
Naturalmente questo modello, come tutti i modelli, non è privo di contraddizioni: è evidente la sua difficoltà nel separare nettamente sfera pubblica e privata in questioni come l'educazione e l'istruzione. Le proteste che la legge sul velo varata dal governo francese nel 2004 ha sollevato nella comunità musulmana francese rivela, al di là delle intenzioni soggettive delle organizzazioni che l'hanno promossa, problematiche non facilmente eludibili.
I critici di questo modello ritengono poi che esso non garantisca ai gruppi minoritari, religiosi e etnici, il rispetto della loro specifica identità, possibile solo mediante il riconoscimento di diritti collettivi che evitino ogni forma di assimilazione. Dal punto di vista funzionale l'espulsione forzata della differenza dalla sfera pubblica può generare, in fasi storiche in cui la questione delle identità diventa uno dei terreni privilegiati del conflitto, identità antagoniste che possono spingersi sino a negare legittimità allo Stato, con tutte le conseguenze del caso.
Compreso il rischio che quel conflitto possa essere sfruttato, come nel caso del velo, da attori politici globali che, nel tentativo di alimentarlo, mirano a mostrare, nel caso specifico, come non si possa vivere da musulmani in Europa. Ciascuno ricorda a proposito il tentativo di Al Qaeda, attraverso i proclami di Zawahiri, di inserirsi nella vicenda.
Nel modello multiculturalista, adottato in Europa da Gran Bretagna e Olanda, un certo grado di differenza culturale è, invece, riconosciuto. Cittadini e residenti possono mantenere nello spazio pubblico le proprie identità particolari e l'identità etnica e religiosa si affianca a quella nazionale. Il rischio intrinseco a questo modello è quello di far proliferare delle comunità parallele, come tali destinate a non incontrarsi mai nella società; di "polverizzare" la società in nicchie comunitarie che non trovano un terreno condiviso su cui interagire. Producendo così quella separatezza che, nel tentativo di evitare l'esclusione, il riconoscimento di diritti collettivi intendeva scongiurare.
In Europa sono stati adottati anche altri modelli di integrazione, superati nel tempo dai mutamenti che investono rapidamente temi come l'immigrazione e la cittadinanza. Da ricordare il modello di "inclusione/ esclusione differenziata" o di "istituzionalizzazione della precarietà" adottato a lungo in Germania.
Nella prospettiva di un loro ritorno in patria, lo Stato incoraggia gli immigrati a mantenere la propria cultura originaria, finanziando scuole con programmi e docenti dei paesi d'origine, corsi di lingua, forme associative. L'accesso alla cittadinanza è fondato sullo ius sanguinis: può essere cittadino solo chi riceve alla nascita un "bagaglio essenziale"( valori, memorie, miti, tradizioni) condiviso, necessario per dare continuità alla comunità nazionale. Naturalmente, quando la prospettiva di ritorno si allontana e l'orizzonte d'attesa diventa la stabilizzazione, gli immigrati escono dal "ghetto culturale" e fanno scelte che permettano loro una migliore riuscita sociale nella società in cui ormai vivono stabilmente.
I "muri del ghetto etnico e culturale" si sgretolano, così, progressivamente, come dimostra il caso dei turchi che, in maggioranza, frequentano ormai le scuole pubbliche e le università tedesche e abbandonano le strutture pensate per incentivare il loro ritorno. Così, prendendo atto che due terzi degli stranieri presenti nel paese vi sono anche nati, la Germania ha rivisitato il suo modello. Una nuova legge consente ai figli di genitori stranieri residenti sul territorio tedesco da almeno otto anni, o con un permesso di soggiorno permanente, di acquisire la cittadinanza.
L'analisi dei rendimenti dei principali modelli europei di integrazione mostra, dunque, i suoi limiti. Quello assimilazionista francese non ha saputo far fronte alla disuguaglianza sociale. All'origine della rivolta delle banlieue non vi è una rivendicazione etnica o di matrice religiosa. L'humus in cui si alimenta è quella della mancata integrazione sociale di cittadini e residenti, in larga parte provenienti dal Maghreb o dall'Africa subsahariana.
Gli stessi che, nel gergo banlieuesard, chiamano i francesi cèfran. Termine che indica, significativamente, chi ha possibilità di successo nella vita: ovvero gli autoctoni, i bianchi, comunque quelli che vivono nei quartieri borghesi e non nelle periferie. Così gli incendi che illuminano da anni, e non solo dal novembre 2005, le notti parigine mostrano che, da sola, la concessione della cittadinanza non basta a produrre integrazione. Il problema è cercare di garantire pari opportunità nell'accesso all'istruzione e al mercato del lavoro, oltre che rendere vivibili quei "non luoghi" segnati dal degrado che sono le periferie urbane.
I numeri dicono che la maggior parte degli arrestati della rivolta del novembre 2005 ha tra i 15 e i 20 anni, vive nelle citè classificate come zone urbane a rischio ed è in difficoltà scolastica; quelli, tra loro, che non frequentano più la scuola sono disoccupati o vivono di lavori saltuari.
Il modello multiculturalista, in versione britannica od olandese, ha invece favorito quella separatezza culturale in cui sono maturati fenomeni di reislamizzazione identitaria sfociati in derive di matrice terroristica, come segnalano i casi degli attentati di Londra del 2005 e l'assassinio di Teo Van Gogh. In alcune città inglesi come Bradford o nelle periferie londinesi, cittadini o residenti di origine pakistana o bengalese vivono come se fossero nei loro paesi d'origine. Le loro comunità negoziano con le autorità locali, che hanno ampi poteri in materia, come le domande di riconoscimento fondate su diritti collettivi. Richieste che non favoriscono la loro integrazione nella società inglese, bensì la riproduzione della loro separatezza. Tanto che molti possono vivere in Gran Bretagna come fossero nel loro paese d'origine.

Il caso dell'Islam

A partire dall'11 settembre 2001 l'analisi del rendimento dei modelli di integrazione si è, inevitabilmente, focalizzata sulla loro efficacia nell'integrare le comunità islamiche in Europa. Comunità che rispecchiano, dal punto di vista religioso, politico, etnico, la grande umma musulmana, con tutte le sue differenze di orientamento e le medesime fratture interne.
Al suo interno vi sono, infatti, musulmani che vivono l'appartenenza all'Islam come meramente culturale; tradizionalisti consapevoli che in Europa la religione deve trovare forme di adattamento; secolarizzati, ormai lontani nei fatti dalla religione. Ma anche gruppi islamisti fautori dell'Islam politico: sia neotradizionalisti che radicali.
Tra quelli radicali vi sono gruppi che teorizzano il jihad, numericamente ristretti ma non per questo meno pericolosi, come hanno dimostrato gli attentati di Madrid e Londra. Si tratta di gruppi clandestini, non interessati a quanto avviene nella sfera pubblica dei paesi europei, se non per sfruttare propagandisticamente le difficoltà di integrazione delle comunità musulmane. Gruppi che danno vita a reti transnazionali improntate sulla flessibilità, su forme di aggregazione mobili e "collaborazioni a progetto" che non necessitano più di un input proveniente da una struttura centrale. Gli jihadisti si spostano tra un paese, un continente e l'altro, appoggiandosi a un reseau non riconducibile alla fissità ambientale e territoriale tipica del terrorismo nazionale, che riproduceva su scala micro i modelli pesanti delle grandi organizzazioni dell'era fordista. In questo senso, il cosiddetto "partito al Qaeda" è, oggi, quanto di meno vicino alla forma-partito classica ci sia.
Ma mobilità e logistica del jihad non possono prescindere totalmente dal rapporto con le reti territoriali. Rapporto che viene costruito anche mediante l'utilizzo strumentale delle reti migratorie. La trasformazione delle società occidentali in società multiculturali permette agli jihadisti un certo grado di mimetismo sociale in ambienti omogenei etnicamente, culturalmente e religiosamente: il quartiere madrileno di Lavapies diventa così sicuro quanto Sidi Moumen, la bidonville di Casablanca. Questo intreccio tra mobilità attiva e stanzialità complice - in alcuni casi solo passiva per effetto delle norme sociali relative all'ospitalità o a forme premoderne di solidarietà, come le comuni appartenenze di città o villaggio riprodotte nell'esperienza migratoria in Europa - crea un humus difficilmente controllabile con i classici strumenti usati in passato per affrontare il terrorismo interno.
Il mimetismo sociale degli jihadisti nelle comunità immigrate è una variabile rilevante nelle strategie di contrasto al terrorismo. La possibilità di arruolare militanti, o di contare su simpatizzanti, capaci di mettere a disposizione un retroterra logistico attivo o passivo, aumenta il rischio che l'Europa si trasformi in terra del jihad. La politica dell'immigrazione diventa così, sempre più, componente decisiva della politica di sicurezza, europea e nazionale.
Di fronte alla possibilità, auspicata dai gruppi jihadisti, che la presenza musulmana in Europa si trasformi in una sorta di "quinta colonna", gli Stati europei hanno due opzioni. La prima è fondata sull'esclusione sociale dell'intera comunità; scelta non solo contrastante con i principi di una società democratica e aperta ma anche controproducente: una comunità ghettizzata, o autoghetizzata, può facilmente trasformare il senso di frustrazione e di umiliazione, o di orgogliosa separazione, in riflesso identitario sfruttato dal fondamentalismo per allargare la sua presa.
La seconda è di natura inclusiva e può consentire efficaci forme di controllo sociale, esercitate dagli stessi musulmani. Solo una comunità conscia della propria appartenenza nazionale e decisa a godere dei diritti di cui usufruisce nelle democrazie, può svolgere un ruolo dissuasivo su larga scala nei confronti delle derive interne. Integrare le comunità musulmane, farle diventare parte del tessuto nazionale aiutandole o obbligandole a uscire dalla ghettizzazione culturale in cui sono rinchiuse per necessità o scelta, diventa così anche uno strumento di sicurezza.
L'opzione inclusiva può contare sul fatto che la maggior parte degli immigrati musulmani non condivide posizioni islamiste, né nella versione radicale e jihadista; né in quella neotradizionalista. Nell'esperienza migratoria in Occidente i gruppi neotradizionalisti, in particolare di matrice Fratelli Musulmani, non possono perseguire l'obiettivo di costruire uno Stato islamico. Cercano così di presidiare uno spazio che consenta una certa distanza culturale dalla società in cui vivono.
Fondamento dell'azione neotradizionalista è l'hijra, l'Egira, la separazione dall'ambiente "impuro" circostante, e non il jihad, il combattimento sulla via di Dio. L'hijra neotradizionalista avviene mediante la costruzione ideologica di una comunità che mira, più che all'integrazione individuale dei suoi membri, a negoziare, su base collettiva, uno statuto derogatorio di cittadinanza. Statuto che definisce il grado di autoesclusione necessario alla riproduzione della separatezza comunitaria.
Questa sorta di "integrazione esternalizzata" consente ai neotradizionalisti di chiedere il riconoscimento di alcuni diritti senza optare necessariamente per una maggiore integrazione culturale nella società in cui vivono.
L'ala neotradizionalista punta a egemonizzare l'Islam in Italia, caratterizzato da una notevole pluralità etnica e religiosa. I musulmani della Penisola sono circa un milione e provengono da oltre cinquanta paesi; al loro interno non vi è una componente nazionale largamente prevalente, come quelle maghrebina in Francia, pakistana in Gran Bretagna, o turca in Germania.
Una provenienza geografica plurale che rimanda a molteplici modi di vivere, e interpretare, concretamente l'Islam. La differenziazione etnonazionale non è fattore da sottovalutare al fine dell'analisi, poiché influenza i diversi modi di concepire la religione e il suo rapporto con la politica. Tanto che, almeno nelle prime fasi del ciclo migratorio, gli immigrati musulmani tendono, generalmente, ad aggregarsi secondo linee etniche.
Anche l'Islam in Italia non sfugge a questo tipo di identificazione. Le diversità culturali, religiose e politiche, individuali e di gruppo, espresse da questo concreto e non astratto Islam sono, però, percepite dagli islamisti come una sorta di deviazione dalla "fede autentica", poiché i musulmani farebbero prevalere identità e affinità di tipo etnico o nazionale sulla dimensione religiosa.
Diventa, così, per loro essenziale delegittimare le appartenenze che non siano fondate su un'ideologia politica e religiosa unificante; oltre che contrastare la tendenza degli immigrati musulmani a vivere la religione in maniera "privatizzata".
Le leadership neotradizionaliste rivendicano, infatti, la piena visibilità dell'Islam nella scena pubblica, rifiutando sia l'assimilazione che la "privatizzazione". Si tratta di leadership cresciute in paesi investiti negli ultimi decenni dal "ritorno alla moschea", dalla politicizzazione della militanza religiosa. Ma tra islamisti neotradizionalisti e radicali vi è un rapporto di aspra competizione.
Entrambi fanno riferimento all'Islam politico; ma diversi sono gli obiettivi e mezzi che queste correnti perseguono in Europa. I neotradizionalisti mirano innanzitutto a reislamizzare la umma, la comunità di fede, secondo i canoni della salaf, "la fede delle origini" e ad evitare che i processi di secolarizzazione che la investono possano condurre alla perdita dell'identità religiosa.
A loro volta i radicali ritengono che l'Europa non sia, come pensano i neotradizionalisti, "terra d'Islam" in cui si possa praticare la religione e fare proselitismo, ma "terra del
jihad".
Come accade in alti contesti in cui un'area politica fa riferimento a un'ideologia comune, in questo caso l'Islam politico, i radicali cercano di arruolare militanti, o di contare su un'area di simpatizzanti, nella mobile zona grigia che divide i due schieramenti. Presidiarne il confine diventa così decisivo per entrambi gli schieramenti.

L'integrazione come componente della politica di sicurezza

In un simile quadro la politica dell'immigrazione e la questione dell'integrazione, diventano componenti decisive della politica di sicurezza. I processi di integrazione possono facilitare l'obiettivo di rendere fisiologici, e non patologici, il fenomeno jihadista nelle comunità islamiche. Fenomeno che, nei paesi musulmani come in quelli europei, può essere battuto non solo attraverso l'indispensabile azione di prevenzione e di intelligence anche se trova un forte argine politico e religioso all'interno delle comunità; che a loro volta possono essere aiutate in questo compito se possono contrapporre agli islamisti radicali non solo un'interpretazione non ideologica della religione ma anche la consapevolezza del vivere in un contesto di pluralismo religioso.
Come negli altri Stati dell'Unione Europea, anche in l'Italia la libertà religiosa è costituzionalmente garantita. Ai musulmani, come a ciascun cittadino e residente di diversa cultura e fede, deve tuttavia essere richiesta l'accettazione dei principi dell'unica cultura politica che una società aperta esige condivisa: quella democratica. Condivisione che mira a definire "un comune orizzonte interpretativo" in cui conflitti e negoziazioni si svolgano mediante procedure accettate nello spazio pubblico e senza pregiudicare le libertà di ciascuno.
Alla base dell'integrazione può esserci un "patto di cittadinanza" che preveda specifiche forme di riconoscimento pubblico della differenza religiosa compatibile con l'ordinamento giuridico; che distingua tra diritti mirati a creare restrizioni interne e diritti mirati a garantire tutele esterne.
Non possono essere, infatti, riconosciute quelle pratiche che, in nome dell'identità religiosa, limitino i diritti fondamentali degli individui come la discriminazione sessuale nel campo della famiglia, dell'istruzione o del lavoro; così come la punizione di individui che intendono fuoriuscire dalla comunità di fede. La democrazia non accetta che un gruppo opprima i propri membri e ne limiti la libertà di scelta e di azione in nome della propria identità collettiva. Sono invece riconoscibili le richieste legate al diritto dei membri di un gruppo a tutelare la propria cultura o la propria libertà e autonomia religiosa da ingerenze esterne.

La costruzione di un Islam nazionale

Quasi tutti gli Stati europei convengono che la produzione di sicurezza è più facilmente conseguibile mediante l'istituzionalizzazione di rappresentanze islamiche. Rappresentanze che creino interlocutori per i governi in materia di negoziazione religiosa e in funzione di argine contro eventuali derive fondamentaliste delle comunità. L'obiettivo è favorire la nascita di un Islam nazionale e di leadership affidabili.
Tale scelta vuole evitare di conferire, come in passato, la rappresentanza della comunità agli Stati di origine dei musulmani residenti. Attribuzione che consentiva, da un lato, di considerare l'immigrato, anche se residente da tempo nel paese, come uno straniero destinato, prima o poi, a tornare in patria; dall'altro permetteva, ai paesi d'origine, di attivare un certo controllo, politico e religioso, sugli emigrati all'estero. Ma la rappresentanza de "l'Islam degli Stati" funziona solo se i flussi migratori sono limitati e non stabili: il ciclo migratorio avviato negli anni Ottanta ha spazzato via questa illusione.
Di fronte alla crisi di rappresentanza "dell'Islam degli Stati" e alla presa d'atto che molti dei loro attuali e futuri cittadini sono o saranno musulmani, i paesi europei hanno scelto, così, la strada della costruzione dell'Islam nazionale. Scelta che mira a evitare anche condizionamenti in politica interna ed estera, sempre possibili in caso di conferimento di rappresentanza ad altri Stati sovrani. Non di meno, imboccata la direzione della creazione dell'Islam nazionale, sorgono altri problemi.
La creazione di un Islam nazionale implica l'istituzionalizzazione della rappresentanza dell'associazionismo islamico; ma affidabilità della rappresentanza e rappresentatività possono anche non coincidere. "L'Islam organizzato" ovvero il tessuto associativo. politico e religioso espresso dai membri attivi della comunità, è qualcosa di diverso dall'Islam come religione.
In questo campo giocano un ruolo anche le associazioni e le comunità islamiste più radicate nel territorio; quelle che controllano il maggior numero di moschee e, allo stesso tempo, mantengono legami con le grandi reti transnazionali dell'Islam politico mondiale. Si tratta di gruppi che esprimono talvolta posizioni generalmente non condivise dall'opinione pubblica e dalle istituzioni su temi di grande rilevanza, anche di politica internazionale.
Alcuni ritengono che la loro "dissonanza sistemica" ne comporti l’esclusione dal circuito istituzionale. Altri che proprio la loro possibile esclusione non permetta di seguirne da vicino l'evoluzione né, tanto meno, di influenzare le dinamiche; favorendo, così, oggettivamente i propositi delle leadership meno favorevoli a un'integrazione. Un dilemma, quello relativo alla questione rappresentanza/affidabilità, che tutti gli Stati democratici si sono trovati ad affrontare senza aver trovato ancora una soluzione soddisfacente.
Un contributo allo scioglimento di questo intricato nodo può venire , ancora una volta, da politiche di integrazione che facilitino l'emergere di forme di associazionismo che non ricalchino necessariamente quelle sin qui espresse dalle comunità islamiche. Le culture, così come le religioni, mutano in relazione all'interazione con l'ambiente circostante. Fuori dal suo tradizionale contesto culturale, l'Islam deve essere rivissuto e ripensato dai musulmani.
E questa rivisitazione non conduce, inevitabilmente, a un processo di reislamizzazione identitaria. Molto dipende dal contesto politico e sociale in cui i musulmani vivono e agiscono oltre che, in un mondo globale, dal clima internazionale. Scolarizzazione della seconda generazione, acquisizione di lingua e cultura del Paese in cui si vive e della cittadinanza, sono tra i fattori che inducono a "scolorire" le appartenenze ascrittive. In Italia, come altrove, vi sono musulmani che si secolarizzano; quelli che mantengono un’adesione culturale, più che religiosa, all'Islam che si traduce nella partecipazione ai soli riti di passaggio o a pratiche collettive come il digiuno nel mese di Ramadan; alcuni imboccano la strada della "privatizzazione" della sfera religiosa, altri quella della rivendicazione identitaria, che può tradursi anche nell'adesione all'Islam politico e nella militanza nei movimenti islamisti.
L'esito di questo processo non è determinato e l'implementazione di efficaci politiche d’integrazione permette comunque di influenzarne gli esiti, con sicuro vantaggio per la collettività.


INTERVENTO del VICE MINISTRO dell'INTERNO On.MARCO MINNITI

Innanzitutto consentitemi di ringraziare il Direttore del Servizio per l'invito che mi ha fatto e di ringraziare i tanti e graditissimi ospiti di questo tradizionale appuntamento.
Vi ringrazio e tuttavia approfitterò della vostra benevolenza per farvi perdere qualche minuto. Lo faccio perché se, come io penso e credo e come auspico, la Riforma dei Servizi appena varata dalla Camera completerà il suo iter legislativo in Senato, questa sarà l'ultima volta di un Vice Ministro dell'Interno, di un Ministro dell'Interno, che inaugura un corso accademico. Come voi sapete, se non ci saranno clamorosi colpi di scena, la legge approvata dalla Camera prevede il superamento della dipendenza funzionale: per quanto riguarda il Sisde, dal Ministero dell'Interno, per quanto riguarda il Sismi, dal Ministero della Difesa.
Essendo tutti quanti voi persone particolarmente competenti in questo campo, e anche con una importante esperienza alle spalle, comprenderete quanto sia impegnativo questo passaggio. Ricorderete anche che tutti quanti i progetti di riforma in passato spesso si sono impuntati proprio su questo passaggio: il superamento della dipendenza funzionale, perché questo alludeva ad equilibri particolarmente complessi dentro i Governi, tra Ministeri e tra Apparati.
Oggi noi siamo di fronte ad un progetto di riforma, a mio avviso particolarmente impegnativo, che considero positivo, che affronta innanzitutto questo tema. Così se la legge verrà approvata entro l'anno, dal prossimo appuntamento all'inaugurazione dell'anno accademico verrà la Presidenza del Consiglio dalla quale dipenderanno tutte le strutture dell'Intelligence. Io ritengo tutto ciò particolarmente positivo. Come vedete non sono listato a lutto, perché credo che questo sia il naturale completamento di un processo di riforma.
Tuttavia, prima di svolgere qualche considerazione più ravvicinata, consentitemi di fare un piccolo elogio della legge che va in pensione: della 801. Tutte le leggi particolarmente vecchie e anche particolarmente sperimentate vengono alla fine ricordate soltanto per gli aspetti negativi, cioè per le mancanze, le disfunzioni, i punti di incongruenza. Ma quando si tracciano questi giudizi, che a volte finiscono per apparire eccessivamente ingenerosi, ci si dimentica che queste leggi hanno degli anni. La 801 è forse la più longeva da questo punto di vista, sono passati 30 anni da quando cominciò un difficile percorso parlamentare.
Ricordo allora un giovanissimo Ministro dell'Interno, qui casualmente presente, che coordinò l'attività non soltanto del Governo ma l'intera attività parlamentare. Venne realizzato allora un incontro tra le grandi componenti storico-politiche del Parlamento Italiano, e noi sappiamo quanto fosse importante, perché solo chi non conosce a sufficienza la storia d'Italia non comprende quanto fosse importante, specie in quegli anni, quella convergenza. Si riformarono radicalmente, per la prima volta, gli Apparati di Sicurezza, costruendo un serio e certo orizzonte democratico e lo si fece attraverso una larghissima convergenza parlamentare. Ritengo quello un patrimonio straordinario del Paese, anche perché nessuno deve dimenticare che anni fossero quelli. Parliamo del 1977, cioè nel pieno di una drammatica offensiva del terrorismo interno nel nostro Paese, - ….si di due colori, … di due colori giustamente mi ricorda il Presidente….- che svilupperà un attacco, da due versanti diversi, a quello che una volta veniva definito il cuore dello Stato. Eravamo anche di fronte ad Apparati di Sicurezza che arrivavano all'appuntamento della riforma con una evidente crisi di credibilità...


….(interruzione del Presidente COSSIGA: …….dell'Arma dei Carabinieri che l'allora Servizio militare, il SID, che era un Ufficio dello Stato Maggiore Difesa, Ammiraglio Branciforte, credo che fosse di un grado inferiore al mio seppur di complemento, non credo che fosse più che sottotenente di vascello, da quando io andai al Viminale a quando io ne uscii, tenne strettamente sotto controllo telefonico me ed i miei collaboratori, sottoponendomi a controlli fisici all'interno e all'esterno. La prudenza mia e dell'allora Ministro dell'Interno Oscar Luigi Scalfaro e della Procura della Repubblica di Roma, evitarono che scoppiasse allora uno scandalo del quale poi si potè parlare. Debbo dire che io da Presidente della Repubblica firmai il decreto di promozione del signore che mi aveva diligentemente sorvegliato)………….

… Questa esperienza è diretta conferma di quanto io stavo dicendo. E, quindi, dicevo, con Apparati di Sicurezza che vivevano una evidente crisi di credibilità, e quanto detto adesso dal Presidente Cossiga, conferma questo tipo di valutazione.
Tuttavia quella legge, la 801, ci consegnava un sistema informativo che ci avrebbe fatto fare dei passi che considero assolutamente significativi. Nel momento in cui pensioniamo la 801 guardiamo agli aspetti positivi. Penso che si possa dare complessivamente un giudizio equilibrato di un periodo particolarmente lungo che ci ha visto anche fare delle cose importanti. Penso anche che in questi anni si sia svolto un importante lavoro, un lavoro spesso non riconosciuto. Voi sapete che la prevenzione non è misurabile, tutto quello che si previene non è misurabile perché, appunto, si prevengono dei fatti e non sono misurabili i fatti negativi che non accadono. Ma, per la legge dei grandi numeri, poiché il nostro Paese in questi anni è stato escluso da particolari fatti negativi si presuppone, e qualcuno di noi ha qualche elemento in più della presupposizione, che si è fatto un adeguato lavoro preventivo. Bene, a questo servono i Servizi.
Aggiungo anche che, nel momento in cui diamo questo giudizio, tutti quanti abbiamo avvertito, innanzitutto voi addetti ai lavori, che quella legge ha fatto i suoi tempi. Ha fatto il suo tempo perché sono emerse questioni che neanche il più attento legislatore avrebbe potuto immaginare nel 1977.
Voglio ricordare due date fondamentali, due spartiacque, due punti di cesura della storia particolarmente emblematici: una è l'89, il 1989 dodici anni dopo il 1977; l'altro, è il 2001, 24 anni dopo il 1977. Perché le ricordo insieme? Perché dobbiamo guardare sempre al combinato disposto che queste due date hanno prodotto. L'89 con la fine della divisione in due blocchi ci consegna - i termini diciamo sono radicalmente opposti ma la sostanza è la stessa - un mondo o unipolare o multipolare, a secondo, delle predisposizioni culturali ed intellettuali di ciascuno di voi. Si può pensare che è unipolare o multipolare, la sostanza è la stessa. Sia se lo pensiamo unipolare sia se lo pensiamo multipolare, viene fuori una realtà in cui non c'è più tolleranza verso alcuna forma di fragilità nel campo dell'Intelligence, e soprattutto non ci può essere più in questo campo alcuna forma di supplenza. Mentre prima dell'89 poteva esserci una supplenza, ci potevano essere altri che lavoravano per noi, l'89 ha cancellato questa possibilità.
Il 2001 è stato uno shock per l'intero pianeta con l'attacco alle Torri gemelle e l'emergere in campo con tutta evidenza di una guerra asimmetrica che ha portato a considerare possibile quello che sembrava assolutamente impossibile. Se ripensate per un attimo a tutte le indagini che hanno preceduto l'attacco alle Torri gemelle, ricorderete che più volte i sensori avevano segnalato allarme per quel tipo di attacco. Ma quale è stato l'elemento che ha giocato a favore del terrorismo? E' stato che il modello di attacco veniva considerato così audace da apparire impossibile: proprio quella sorta di potenziale impossibilità è stata la ragione del successo. C'era uno slogan del maggio francese - siate realisti chiedete l'impossibile - che, con piccole modifiche non concettuali ma formali diventa: siamo realisti, pensiamo l'impossibile: si può dire che senza conoscerlo, i terroristi dell'11 settembre hanno applicato quello slogan.
Queste rapide considerazioni comportavano e comportano l'esigenza di un profondo ripensamento delle politiche e delle strutture dell'Intelligence. E' questo il senso con il quale il Parlamento si è avvicinato alla Riforma.
E' chiaro che quando parliamo di questa battaglia di azione preventiva contro il terrorismo, poi abbiamo di fronte tutto un altro tema che ha utilizzato e che ha costituito il centro dell'intervento qui svolto dal Professor Guolo - intervento che io considero particolarmente stimolante - che costituisce l'altra faccia del terreno sul quale noi dobbiamo operare: perchè c'è bisogno di prevenzione, ma c'è bisogno anche di politiche di integrazione. Penso che sia particolarmente forte e suggestiva quell'idea che il Professore Guolo qui ci ha riproposto di un Islam nazionale, questione particolarmente complessa e particolarmente impegnativa ma che ci ricorda in sostanza una cosa: tutti i modelli di integrazione sono falliti e dobbiamo quindi misurarci con un nuovo modello di integrazione.
Ma, detto questo, nel momento in cui dobbiamo affrontare il tema di una Riforma dell'Intelligence, e io penso che il lavoro che si è fatto in Parlamento abbia costituito dal punto di vista culturale un elemento straordinario, perché dopo 30 anni si è incominciato (anche se con un certo ritardo, perché non c'è dubbio che questa Riforma forse poteva arrivare prima, forse doveva arrivare prima) ad affrontare esplicitamente un nodo che è una sorta di pensiero non scritto nella democrazia italiana. E cioè il pensiero non scritto, il retropensiero, è sostanzialmente questo: per lungo tempo noi abbiamo pensato, qualcuno di noi ha pensato, io no, ma altri forse sì, che di fronte all'alternativa fra Servizi efficienti e potenzialmente deviati fosse meglio poter ragionare su Servizi poco efficienti ma sicuramente non deviati. Questa equazione non funziona.
Noi invece abbiamo bisogno di Servizi di sicura affidabilità democratica ma anche di Servizi molto efficienti. Le due cose si devono tenere strettamente insieme e se posso dire quale è il cuore del progetto di Riforma che il Parlamento si appresta a varare è essenzialmente questo: affrontare il tema dell'efficienza e della cultura della democrazia nell'efficienza.
Una cosa non semplice e tuttavia a mio avviso risolta brillantemente, perché si affrontano concretamente, lo ha detto qui anche Gabrielli, tre questioni che io considero fondamentali.

La prima questione è l'efficienza. Efficienza significa innanzitutto avere un unico riferimento politico. Ne ho parlato all'inizio. Il superamento delle dipendenze funzionali è importantissimo perché in un moderno sistema di Intelligence non si può essere contemporaneamente servitori di più riferimenti e di più padroni. Chiunque abbia fatto un minimo di seria Intelligence, sa che non può essere fatta informando tutti, perché se uno ha l'obbligo di informazione con tutti coloro dai quali dipende, è chiaro che l'informazione a quel punto non è più riservata. Di questo abbiamo, tra virgolette, una copiosa messe di esempi. Quindi, un unico riferimento politico. E quell'unico riferimento politico non poteva e non può che essere la Presidenza del Consiglio. Quindi la guida diventa del Governo, anche perché sempre di più il sistema di Intelligence è un riferimento multidisciplinare e quindi, per evidenza, interministeriale.
Seconda questione è la operatività. Non c'è dubbio che pur avendo confermato il sistema binario, io sono un teorico della difesa del sistema binario, non solo perché questo è il modello che hanno gran parte dei Paesi europei e del mondo (sistema binario o in ogni caso con più Agenzie), ma perché lo ritengo fondamentale dal punto di vista delle garanzie. E' vero che come ha detto Gabrielli non dobbiamo abusare con la concorrenza, ma il fatto che ci siano Agenzie diverse che abbiano mission particolari e specifiche, mission che vengono meglio definite dalla legge, e che tuttavia siano due Agenzie diverse, costituisce elemento fondamentale di un progetto di sostenibilità democratica. Due Agenzie, le cui mission vengono meglio definite attraverso l'intreccio tra territorio e temi e che vengono fortemente coordinate dal Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza che fa riferimento alla Presidenza del Consiglio. Mission meglio definite per evitare sovrapposizioni, per avere una effettiva complementarietà ed un forte coordinamento presso la Presidenza del Consiglio.
Terza questione: i poteri. Tema dei poteri che viene affrontato esplicitamente. Abbiamo per lungo tempo discusso delle cosiddette garanzie funzionali. Oggi sono un pezzo fondamentale della legge. E io ho accolto positivamente la prudenza con la quale il legislatore ha affrontato questo tema, e cioè la possibilità di definire con nettezza quello che si può fare e nello stesso tempo collegare e collocare questa nettezza dentro un ambito che è profondamente rispettoso delle libertà individuali e collettive. Non era semplice fare questo ma ci si è riusciti. Più poteri. Più poteri all'Intelligence e, come è giusto nel momento in cui si danno più poteri all'Intelligence, più poteri di controllo sull'Intelligence, secondo il principio del bilanciamento democratico. Penso che il Comitato di Controllo Parlamentare che viene definito da questa legge sia un Comitato Parlamentare di Controllo che ha in questo campo più poteri di tutti quanti i Comitati di Controllo che ci sono in giro per il mondo. Lo ritengo giusto. Ritengo sia fondamentale poter agire nel rispetto della legge, senza interferenze nel momento in cui si agisce, e poi potere e dovere rispondere di quello che si è fatto per la difesa della sicurezza nazionale.
Efficienza, operatività, poteri. Abbiamo cioè un progetto che naturalmente può sempre teoricamente essere migliorato, ma che io considero un approdo molto importante. Ed è molto importante che su questo progetto di riforma ci sia stata la convergenza al cento per cento dell'intera Camera dei Deputati.
Se ci si riflette un attimo, in una fase politica caratterizzata sicuramente da una certa litigiosità, il fatto che su una riforma di sistema così complessa, perché la Riforma dell'Intelligence è una delle riforme di sistema più importanti, (non a caso si è tentato più volte di farla ma non la si è fatta), si sia trovata una convergenza al cento per cento. Un elemento questo che rappresenta sicuramente uno straordinario valore. Un valore per l'Italia, ma un valore per il mondo dell'Intelligence, che vede definitivamente riconosciuto un ruolo.
Io ringrazio, il Comitato Parlamentare di Controllo, ringrazio la Camera dei Deputati, ringrazio i componenti della Commissione Affari Costituzionali, a partire dal suo Presidente, che hanno svolto un eccezionale lavoro. Penso anche che nel momento in cui tessiamo le lodi del progetto licenziato dalla Camera, dobbiamo anche auspicare che il Senato possa rapidamente affrontare la valutazione del testo. E' evidente che poi il Senato, titolare di una piena autonomia di valutazione, potrà ulteriormente migliorare il testo, potrà modificarlo, potrà cambiarlo. Tuttavia, l'auspicio che io faccio, anche a nome del Governo, è che questa corrente positiva venga fino in fondo utilizzata per poter avere in tempi rapidi una legge di Riforma largamente condivisa, per fare dell'Intelligence italiana una Intelligence pronta alla sfida che abbiamo di fronte, che è la sfida particolarmente complessa della quale parlavo qualche minuto fa.
Infine un'ultima considerazione. Penso che la discussione che si è fatta in Parlamento, ma anche la discussione pubblica che si è fatta in queste settimane ed in questi mesi, ci abbia consegnato di fatto uno straordinario risultato. Vedete, il mondo dell'Intelligence e degli Apparati di Sicurezza è quello per antonomasia più complesso, quello che presenta maggiori difficoltà anche perché quando si parla di Apparati di Sicurezza si evoca di per se una zona, tra virgolette, non molto trasparente. Io penso che con la discussione di queste ultime settimane, noi abbiamo superato lo scoglio e lo scoglio sta sostanzialmente in questa considerazione che è insieme politica ma, se mi è permesso, anche di carattere culturale.
E cioè che i Servizi di Sicurezza, i Servizi Segreti di un Paese, in una democrazia dell'alternanza, dipendono dai Governi e, in una democrazia dell'alternanza, i Servizi Segreti dipendono dal Governo che è in carica. E tuttavia in una democrazia dell'alternanza dire che i Servizi Segreti dipendono dal Governo in carica è soltanto una parte della verità. L'altra parte della verità che abbiamo incominciato ad acquisire, è che i Servizi Segreti dipendono dal Governo in carica, ma in una democrazia dell'alternanza sono anche, vorrei dire prima di tutto, patrimonio dell'intero Paese. Questa è la sfida che abbiamo di fronte, una sfida che a mio avviso abbiamo incominciato ad affrontare nel modo giusto e con il piglio giusto.
Detto questo, e scusandomi per aver approfittato della vostra pazienza con le mie riflessioni, passo alla formula di rito:
dichiaro ufficialmente aperto l'Anno Accademico 2006/2007 della Scuola Addestramento del SISDe

Auguri e buon lavoro.



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