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GNOSIS 1/2004
Clandestino & criminale
pregiudizi e realtà


articolo redazionale

Anche se sulla scorta di dati non recentissimi (in quanto le statistiche per essere attendibili debbono fondarsi su numeri certi e su dati consolidati), abbiamo affrontato il problema del rapporto tra criminalità ed immigrazione. È un rapporto che esiste, ma che in realtà è fondato sulla connessione tra criminalità e clandestinità. È questa condizione che determina, nell’universo migratorio, la spinta criminogena. È questa condizione che va affrontata per ridurre la valenza criminale del “migrante”.


Introduzione

L’esistenza di un rapporto tra immigrazione e incremento della criminalità è una delle convinzioni più radicate nell’opinione pubblica italiana ed europea.
Secondo un sondaggio dell’Osservatorio europeo contro il razzismo (condotto su un campione di 16.000 intervistati), il 72% degli italiani è convinto che gli stranieri compiano, nel nostro territorio, più crimini rispetto ai locali (solo in Grecia si riscontra una percentuale più elevata). L’immigrato (usualmente identificato nell’immaginario collettivo nell’extracomunitario) è considerato, dalla maggior parte degli intervistati, una minaccia alla propria sicurezza, e quindi l’immigrazione viene percepita come una vera e propria invasione del territorio che fa emergere, di riflesso, una forte esigenza di “tutela”. Secondo questo punto di vista, gli immigrati rappresentano comunque individui che sottraggono ai cittadini gli spazi vitali ed economici minacciandone, nel contempo, la stabilità sociale e l’incolumità personale.
Questa opinione non rappresenta una novità rispetto a quanto evidenziato in precedenti ricerche sociologiche. Sin dall’inizio del XX secolo, infatti, era convinzione comune che il tasso di criminalità fosse direttamente proporzionale al tasso d’immigrazione. Il radicarsi di questa tesi favoriva lo svilupparsi di un sentimento di opposizione e autotutela che spesso sfociava in una xenofobia preventiva e acritica verso l’immigrante.
L’intolleranza razziale o etnica, a sua volta, aumentando il tasso di criminogenità percepito sull’intero comportamento degli stranieri, generava una distorsione percettiva che consolidava il pregiudizio nei confronti di questi ultimi, ritenuti “naturalmente” attratti dal delinquere in quanto “diversi”.
Non era quindi il livello di povertà e il disadattamento sociale e culturale dell’emigrante a promuovere, secondo la cultura corrente, il comportamento delinquenziale, ma alcune caratteristiche antropologiche che si esprimevano in comportamento deviante.
Questi assiomi, giova ricordarlo, sono mutati nel tempo anche in funzione dell’evoluzione dei sistemi comunicativi. Un tempo, negli anni cinquanta, era considerato potenzialmente pericoloso anche chi proveniva da una regione vicina; nel nostro Paese, il diverso poteva essere, ad esempio, identificato nell’emigrante meridionale.
Ogni convincimento sociologico, comunque, poggia su elementari stereotipi logico-semantici. Anche quello relativo ad immigrazione/criminalità non è esente da questa regola e oggi affonda le sue radici nelle seguenti credenze:
• ad una maggiore immigrazione corrisponde sempre un aumento della criminalità in generale;
• gli immigranti commettono, rispetto agli italiani, un numero maggiore di determinati tipi di reato (furti, spaccio di sostanze stupefacenti, rapine, ecc.);
• alcune etnie tendono più di altre a manifestare comportamenti illeciti.
Coloro che vivono questo pregiudizio cognitivo percepiscono il rapporto “più immigrazione più criminalità” come un dato di fatto oggettivamente comprovato. La tensione che emerge fa loro riscoprire un senso di “coesione intorno ad un unico vissuto” verso l’emigrante, in generale, e verso il clandestino che delinque, in particolare, vissuto che induce a riportare il “problema immigrazione” all’interno di un alveo di una “questione di puro ordine pubblico”: il controllo, l’espulsione e la sanzione penale come unici provvedimenti in grado di arginare il diffondere della minaccia.
Per poter determinare se queste convinzioni derivino esclusivamente da un pregiudizio di tipo culturale e sociologico scarsamente sostenuto dalla realtà oppure, viceversa, rappresentino un “giusto” segnale d’allarme della società di fronte ad un mutato scenario della sicurezza sociale, occorre reperire, analizzare ed interpretare elementi informativi riguardanti l’immigrazione nel suo complesso e lo scenario criminale riferibile agli stranieri presenti nel nostro Paese.


Fattori che determinano il fenomeno migratorio

Il primo problema è quello di definire le tipologie comportamentali in cui si articola il fenomeno migratorio.
Osservando il grafico che segue, appare chiaro che, quando emerge in una società il bisogno di migrare, due sono i filtri/barriera che si debbono necessariamente superare:
• quello organizzato e imposto dal Paese di origine, attraverso il controllo delle frontiere, la politica sulla concessione dei visti, le strategie economiche e sociali finalizzate a trattenere la forza lavoro, ecc.;
• quello attivato dal Paese di accoglienza o di primo approdo, attraverso una politica di controllo di: frontiere, permessi di soggiorno, concessione quote di ingresso e sistema di repressione e prevenzione, ecc..
La presenza di filtri/barriera determina tre categorie d’immigrazione: regolare, irregolare e clandestina (queste ultime categorie spesso giudicate sovrapponibili).
Un percorso analitico corretto ci impone, a questo punto, di concentrare l’attenzione sui molteplici fattori che determinano l’insorgere e l’estendersi dei flussi migratori. Tra questi assumono particolare importanza:
a) gli squilibri di natura demografica: la popolazione mondiale è in crescita e continua ad espandersi esclusivamente nei Paesi ad economia meno avanzata. Ciò determina un aumento del bisogno alimentare in zone ove, nel contempo, le risorse diminuiscono o rimangono inalterate;
b) gli squilibri di natura economica: la condizione dei cittadini dei paesi poveri (anacronistica ma significativa la locuzione “Paesi del terzo e quarto mondo”) è sempre più critica. La povertà determina una bassissima qualità della vita e prospettive non comparabili con quelle offerte dai Paesi industrializzati. Il divario tra le due realtà è sempre forte e non appare destinato, nel prossimo futuro, a ridursi;
c) gli squilibri di natura sanitaria o ambientale (epidemie, siccità e/o desertificazione, ecc);
d) gli squilibri di natura politica: guerre civili, scontri etnici, rivalità tribali determinano, in vaste aree del nostro pianeta, scenari che vedono le istituzioni statali incapaci di garantire livelli di tutela minima ai cittadini.
I flussi migratori sono, inoltre, condizionati dall’esistenza di fattori cosiddetti “strumentali” dai quali dipende la “direzione” del flusso. Si tratta di fattori non complementari tra i quali citiamo:
• l’esistenza di reti di comunicazione relativamente agevoli tra paesi di origine e paesi di accoglienza o di primo approdo;
• i legami linguistici e culturali tra paesi di partenza e paesi di arrivo;
• la presenza nel Paese ospitante di una consistente e strutturata comunità di connazionali in grado di agevolare l’inserimento sociale ed economico;
• l’esistenza di un sistema poli-tico/giuridico disponibile sia a conglobare masse consistenti di immigrati sia a garantire atteggiamenti tolleranti verso etnie con culture, usi e costumi diversi;
• la consapevolezza, tra i potenziali immigranti, dell’esistenza, nei paesi europei e nord-americani, di un modello politico democratico e produttivamente avanzato in grado di assicurare, comunque, condizioni di vita ritenute migliori a quelle del Paese di provenienza.



Estensione del fenomeno migratorio

Secondo L’OIM (organizzazione internazionale che si occupa di monitorare questo fenomeno) sono 175 milioni circa le persone (pari al 2,9% della popolazione mondiale) che vivono, in modo regolare, fuori dal proprio Paese di origine.
Stimare quanti siano gli immigrati clandestini è, viceversa, talmente complesso che rischia di essere un esercizio affidato alla pura speculazione statistica. La maggior parte degli addetti ai lavori giudica congrua la quota del 20/25% dell’immigrazione clandestina rispetto a quella regolare (se quindi in Italia all’inizio del terzo millennio gli stranieri con regolare permesso di soggiorno erano stimati in circa 1,4 milioni, gli irregolari si possono calcolare approssimativamente in 300/400 mila unità). Questa “convinzione” è stata sconfessata nel nostro Paese dai dati raccolti in concomitanza di provvedimenti legislativi volti a regolarizzare il fenomeno della clandestinità.
È stato, infatti, sufficiente, secondo il Professor Gianpiero Dalla Zanna, applicare la legge n° 1413 (nota come la legge Bossi-Fini) per accertare che probabilmente in Italia il rapporto regolari/irregolari è circa di uno a uno e che, quindi, sono presenti nel nostro Paese nel complesso quasi 2,8 milioni di stranieri (il 5% della popolazione residente, in linea con il valore medio dei paesi della Unione Europea).
Ovviamente il caso italiano non può essere inteso come campione rappresentativo della situazione mondiale. Secondo l’OIM, gli irregolari nel mondo sono, infatti, stimati in 30/40 milioni, vale a dire un irregolare ogni 5 immigrati regolari.
L’incremento dell’immigrazione clandestina, inoltre, se il trend dovesse essere del tutto similare a quello dell’immigrazione regolare, potrebbe, nei prossimi decenni, essere di quasi due milioni l’anno (di cui 500 mila solo negli USA).


Area di provenienza e principali attività svolte dagli immigrati in Italia

L’immigrazione in Italia mostra, a differenza di altri Paesi europei (Francia e Germania), un carattere policentrico.
In particolare, in base ai dati del 2001, è possibile stilare l’elenco delle comunità di stranieri regolari più numerose (tabella 1).
I dati confermano che la maggior parte degli stranieri che sceglie il nostro Paese proviene dal Nord Africa, dai Balcani e da alcuni paesi dell’ex-blocco socialista.
Singolare in tale contesto è il fenomeno dell’immigrazione albanese in Italia. Secondo le autorità di Tirana, circa 650mila albanesi (il 18% della popolazione, quasi il 30% della forza lavoro) sono, negli ultimi dodici anni, usciti dal Paese delle aquile. Di questi quasi 300mila (tra emigranti regolari ed irregolari) vivono in Italia.

Tabella 1-COMUNITA' PIU' NUMEROSE DI STRANIERI REGOLARI IN ITALIA (dati del 2001)


Eleborazione su dati ISTAT


Se, negli ultimi anni, l’esodo dall’Albania è rallentato, il motivo sta non nella diminuzione del bisogno, ma nel ridimensionamento cospicuo della popolazione giovanile (di fatto il bacino di utenza dei potenziali emigranti si è prosciugato).
Gli stranieri che risiedono in modo regolare nel nostro Paese svolgono prevalentemente le seguenti attività:
• addetti ai servizi alla persona (colf, badanti, ecc) il 23%;
• venditori ambulanti/impiegati nel commercio il 16%;
• addetti alla ristorazione il 15%;
• lavoratori nell’edilizia il 14%;
addetti all’agricoltura e pastorizia il 10%;
• operai dell’industria il 6,5.


Immigrazione e criminalità

Analizzare in maniera sintetica e, nello stesso tempo, esaustiva il comportamento illecito degli immigrati (regolari e non) nel nostro Paese è estremamente complesso, in quanto le informazioni statistiche sono spesso parziali, datate nel tempo o scarsamente probanti.


foto ansa

Tra i parametri statistici che meglio di altri permettono di evidenziare il rapporto immigrazione/criminalità, vi è sicuramente quello relativo al numero dei detenuti stranieri ristretti nei nostri istituti penitenziari (tabella 2).

Tabella 2- STRANIERI DETENUTI NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI ITALIANI (1990-2002)


Elaborazione su dati Ministero della Giustizia


Dall’analisi dei dati riportati in tabella, appare di tutta evidenza che:
• il numero degli stranieri nelle nostre carceri in dodici anni è quadruplicato (da 4.007 a 16.788);
• la percentuale dei reclusi nati fuori dal nostro territorio, rispetto alla totalità dei detenuti, è raddoppiata (dal 15 al 30% del 2002);
• se su 100.000 italiani 67 sono ristretti negli istituti di pena, per gli stranieri tale tasso raggiunge il valore medio di 1.000 ogni 100.000 (praticamente un emigrante su cento è detenuto).
Queste considerazioni, se analizzate in maniera frettolosa, potrebbero indurre a credere che la presenza di immigrati comporti indiscutibilmente un aumento della criminalità.
Fortunatamente, altri elementi statistici, criminologici e tecnico/giuridici permettono di leggere i dati in un’ottica più corretta. Il particolare significativo appare il fatto che:
• il tasso dei detenuti stranieri con regolare permesso di soggiorno (o cittadinanza italiana) è similare a quello dei reclusi italiani. Se si considera il tasso dei detenuti clandestini il rapporto cambia in modo significativo: sui 16.788 detenuti stranieri, infatti, 15.900 sono presenti sul nostro territorio in modo clandestino (il 94% dei detenuti nati fuori del nostro territorio);
• gli stranieri irregolari sottoposti a misure di carcerazione preventiva, non potendo ottenere nella quasi totalità gli arresti domiciliari (a differenza di chi ha una residenza fissa), sono spesso costretti a rimanere all’interno degli istituti di pena.
L’indicatore del tasso di detenuti stranieri naturalmente non esaurisce l’analisi criminologica relativa al fenomeno migratorio. Un ulteriore indice è dato dall’esame della tipologia di condanne inflitte agli stranieri:
• per alcuni delitti la percentuale di stranieri sul totale dei condannati è raddoppiata e, in taluni casi, è addirittura sestuplicata (ad esempio per le rapine si è passati dal 3,2% nel 1988 al 20% nel 1996);
• gli incrementi maggiori degli stranieri condannati si riscontrano nell’Italia settentrionale (in alcune realtà territoriali il numero di condannati clandestini rappresenta la quasi totalità);
• a commettere più assiduamente i reati sono gli immigranti senza permesso di soggiorno (sono infatti clandestini il 70% degli stranieri condannati per lesioni volontarie, il 75% di quelli condannati per omicidi, l’85% di quelli condannati per i furti e le rapine).
La lettura complessiva di questi risultati induce decisamente a valutare come “non supportato dalla realtà oggettiva” il pregiudizio tra devianza e presenza di stranieri regolarmente residenti in Italia. Viceversa, il rapporto tra comportamento criminale e clandestinità appare significativamente sostenuto da un riscontro statistico.
Ne consegue che, dal punto di visto criminologico, l’approccio analitico che si ritiene più utile adottare investe non tanto il rapporto generale “immigrazione/ criminalità”, ma la relazione tra clandestinità e criminalità.
In particolare nel mondo dei clandestini è possibile registrare soprattutto i seguenti comportamenti devianti:
a) la prostituzione ed il suo sfruttamento: le prostitute nel nostro Paese sarebbero (secondo l’Eurispes) circa 70 mila. Di queste il 70% sono straniere irregolari (quasi 50 mila), con un giro di affari che, secondo la Commissione Affari Sociali della Camera, raggiunge un “fatturato” annuo tra i 16 e i 26 miliardi di euro. Le straniere che vengono indirizzate verso questa attività provengono:
• il 48% dall’Est (Albania, Roma-nia, repubbliche ex-sovietiche);
• il 28% dall’Africa (soprattutto dalla Nigeria);
• il 22% dal Sud America (soprattutto dal Brasile).
In pochi anni, il sistema criminale di controllo della prostituzione è stato, nel nostro Paese, monopolizzato da gruppi di stranieri. Gli albanesi rappresentano oltre il 42% dei denunciati, seguiti da cittadini provenienti dai paesi dell’ex-Jugoslavia (10% del totale) e da nigeriani (7% del totale);
b) il contrabbando. Questo tipo di attività illecita è, secondo le stime del Ministero dell’Interno, gestito, soprattutto nella fase della distribuzione finale, prevalentemente da immigranti clandestini provenienti dal Marocco (l’80% dei denunciati per tale reato provengono da questo Paese);
c) lo spaccio di sostanze stupefacenti. La commercializzazione e la distribuzione della droga (soprattutto hascish) appaiono monopolizzate da clandestini provenienti dal nord Africa (marocchini, tunisini e algerini). Secondo statistiche più recenti, in alcune città del nord Italia (Genova, Torino, Bologna), l’80% degli arrestati e/o denunciati per tale traffico sono emigrati clandestini (inseriti ai livelli più bassi), mentre rimane monopolio delle organizzazioni criminali italiane il grande traffico internazionale;
d) i furti e le rapine. Nonostante le statistiche in questo settore criminologico non siano le più adeguate a stilare una corretta ed esaustiva valutazione, appare significativo il fatto che, secondo il Ministero della Giustizia, il 20% dei detenuti stranieri è accusato di furti e rapine (soprattutto clandestini dell’area balcanica: albanesi, rom, ex-jugoslavi, ecc.).
Gli irregolari che delinquono nel nostro Paese provengono da realtà territoriali ben demarcate. Se, infatti, ripartiamo i detenuti stranieri in base al Paese di provenienza, otteniamo una distribuzione riportata nella tabella 3.
L’esame di questi dati induce ad evidenziare che:
• sono maggiormente coinvolti in attività criminali gli emigrati, nella quasi totalità clandestini, provenienti da determinati Paesi. In particolare il tasso di detenuti algerini, colombiani, tunisini, marocchini, albanesi, cileni, ex-Jugoslavi e nigeriani è nettamente superiore alla media (che è di 10,5 detenuti per ogni 1.000 stranieri residenti);
• tra quanti provengono da Filippine, Cina, Perù, Polonia ed Egitto, il coinvolgimento con la giustizia è un evento raro. Tra i filippini, una delle comunità più consistente nel nostro Paese (circa 73.000), nel 2000 riscontriamo 32 detenuti (lo 0,4 su 1.000).

Tabella 3- DETENUTI STRANIERI IN ITALIA SUDDIVISIONE PER PAESE DI PROVENIENZA
(Anno 1999)


Elaborazione su dati Ministero della Giustizia


Altrettanto significativo è il numero esiguo di detenuti di nazionalità cinese.
Ne consegue, quindi, che sembra sussistere una relazione tra “Paese di Provenienza del clandestino/Scelta criminale” e tra “Paese di Prove-nienza del Clandestino/tipologia comportamentale deviante”. Questo dato può determinare nella popolazione italiana una selezione pregiudiziale rispetto all’etnia dello straniero con cui ci si rapporta (a prescindere se sia un irregolare o no): questa polarizzazione pregiudiziale rappresenta una delle sfide principali per il processo d’integrazione multietnico del terzo millennio.


La strage invisibile

Un capitolo a sé stante nel rapporto clandestinità/criminalità è rappresentato dal traffico di esseri umani. Se lo straniero vuole clandestinamente trasferirsi in un altro Paese, deve di fatto rivolgersi ad organizzazioni criminali. Il percorso è molto rischioso: il pericolo per gli emigranti, soprattutto per quelli che provengono dal centro Africa, è estremamente elevato. Lungo il peregrinare che porta i disperati dal Paese d’origine ai confini del Paese bersaglio, il rischio della perdita di una parte del “carico” è, infatti, alto. Una percentuale consistente di clandestini perdono la vita durante il percorso terrestre e nell’attraversamento marittimo, sia a causa delle scarse risorse tecniche e di quelle igienico/alimentari, sia per il cinismo delle organizzazioni criminali che di fronte alle minime difficoltà sono pronte a ridurre drasticamente il numero di persone da trasferire.
L’entità delle tariffe richieste per il trasferimento illegale in Italia è, inoltre, talmente elevato per il clandestino da porre in essere vere e proprie forme di schiavitù. Ovviamente i prezzi variano in rapporto a:
• distanze da percorrere;
• difficoltà a superare tappe/frontiere intermedie;
• l’uso di mezzi di comunicazione costosi;
• bisogno di provvedere a documenti/passaporti falsificati.
Secondo l’OIM il “mercato”, noostante le continue oscillazioni, ha fissato una sorta di tariffario di massima che varia dai 35.000 dollari che paga un cinese per introdursi illegalmente negli USA ai 2.000 dollari che spendono i sud-americani per raggiungere l’Italia.
Complessivamente, tenendo conto di una media di 4.000 dollari per soggetto, è di 8 miliardi di dollari (pari a circa 15.000 miliardi delle vecchie lire) l’incasso annuo che l’industria del crimine ottiene, a livello mondiale, dal trasferimento dei clandestini.
Un’attività che raggiunge questo fatturato prevede un’organizzazione di sistemi integrati; appare quindi naturale che essa sia strutturata su un modello criminale articolato in tre differenti livelli tra i quali esistono relazioni di interdipendenza e complementarietà:
il primo livello è rappresentato dalle organizzazioni con base etnicanazionale che pianificano e gestiscono il trasferimento dei clandestini dal Paese d’origine a quello di destinazione;
il secondo livello è costituito da gruppi criminali dei paesi di transito (o di frontiera con i paesi di destinazione), che assicurano il trasporto, l’alloggio transitorio e l’ingresso dei clandestini;
il terzo livello è composto da strutture criminali minori che, in collaborazione con i gruppi di primo livello, provvedono al reclutamento della merce clandestina.
Siamo di fronte a un sistema transnazionale dove i diversi protagonisti operano contemporaneamente utilizzando il loro know-how criminale, nonché risorse impiegate per altri traffici (droga, armi, ecc.). Si è creata di fatto una “holding” che si distribuisce i proventi in base ai rispettivi ruoli.
Ovviamente il peso così oneroso di tale scelta non ricade più sul singolo immigrato o sulla sua famiglia, ma è sostenuto da un finanziatore che diventa in pratica “padrone” dell’immigrato clandestino che utilizza visti e/o passaporti falsi. Il vincolo di soggezione di questo “nuovo schiavo” non si esaurisce se non con l’estinzione del debito verso l’organizzazione. Tale conclusione non può verificarsi se non dopo mesi o anni, per la difficoltà del clandestino di inserirsi in un’attività di lavoro seppur in “nero”.
In tale scenario, è verosimile che l’irregolare sia più facilitato alla scelta criminale, in quanto:
• entra necessariamente in contatto con elementi devianti già all’ingresso nel Paese di accoglienza o transito (per procurarsi documenti falsi, ecc.);
• versa in situazioni di estremo disagio, ideali per essere attratto nella spirale criminale.


Conclusioni

L’analisi del rapporto tra clandestinità/criminalità nel nostro Paese ha, nel complesso, evidenziato quanto segue:
a) nell’ultimo decennio, si è assistito, nell’ambito della microcriminalità, ad un avvicendamento tra il deviante straniero e quello italiano. Tale sostituzione avviene molto spesso in condizioni di complementarietà: è l’italiano a lasciare il posto allo straniero. In realtà, come nell’economia regolare, gli stranieri tendono a rivestire le basse qualifiche (essendo disponibili ad occupare la base della «piramide» del nostro sistema produttivo), così da sostituire gli italiani al più basso rango della criminalità metropolitana;
b) il fatturato dell’industria del crimine collegato alla condizione di clandestinità è elevatissimo: globalmente è quasi equivalente al PIL di un Paese come l’Albania (una voce consistente hanno la prostituzione, lo spaccio di sostanze stupefacenti, il contrabbando, la contraffazione di marchi, ecc.). Nei prossimi anni, tale fatturato è destinato ad aumentare sia per l’arrivo di nuovi irregolari sia per la progressiva diffusione, nel nostro territorio, di organizzazioni criminali esogene (mafia russa, nigeriana, ecc.);
c) è prevedibile che, in un prossimo futuro, i rapporti tra criminalità organizzata italiana e straniera possano subire degli assestamenti, con una completa ripartizione sia a livello territoriale che di competenza criminale.
A questo già allarmante scenario, l’opinione pubblica sovrappone, rispetto al fenomeno migratorio in generale, altri timori sociali e politici derivanti dalla consapevolezza che:
l’immigrazione regolare ed irregolare è destinata ad espandersi nei prossimi decenni;
• la maggior parte degli stranieri che decide di trasferirsi è di cultura e religione diverse (più del 50% sono musulmani). È quindi plausibile che, prossimamente, la nostra società possa assumere una tipologia sociale multietnica e multireligiosa simile a quella statunitense;
i livelli di sicurezza per il cittadino non sono migliorati e, anzi, a causa della devianza nel mondo della clandestinità, sono in alcune zone peggiorati. Come evidenziato da un’indagine dell’Eurispes, la responsabilità di questo stato di cose è, secondo la maggioranza degli intervistati, sì riferita all’invasione incontrollata di clandestini ma anche al “mancato intervento della Pubblica Amministrazione ed all’assenza del controllo sul territorio da parte dello Stato ”. Lo Stato, di fatto, viene considerato non in grado di svolgere il compito di proteggere le frontiere e la sua società;
• nel prossimo futuro potrebbero, con l’integrazione nella società della prima generazione d’immigranti, nascere fenomeni dintolleranza razziale.
La convinzione, infine, di parte dell’opinione pubblica occidentale e di settori della vita politica, che il fenomeno possa ridimensionarsi spontaneamente non può che apparire utopistica. È ormai acclarato che il controllo del flussi migratori va “conquistato per poterlo gestire e contenere”.
Pertanto il rapporto tra emigrazione clandestina/criminalità può essere in termini concreti affrontato unicamente:
• eliminando la condizione criminogena della clandestinità (con una progressiva trasformazione della irregolarità in regolarità, attraverso idonee misure di emersione/integrazione). Non bisogna, infatti, dimenticare che spesso è la condizione stessa di clandestino a spingere (se non a costringere) l’individuo a comportamenti illeciti. Il clandestino, se non è volontariamente inserito in una organizzazione criminale, è un perenne escluso. È colui che in ogni momento si scontra con il proprio “essere ombra”, con il bisogno di essere “invisibile” in un mondo, come quello occidentale, dove qualsiasi inserimento sociale può avvenire attraverso una condizione di “visibilità”;
• con una politica delle espulsioni selettiva ed efficace che eviti di far permanere, nella nostra società, quanti sono disponibili a vivere la loro irregolarità clandestinità privilegiando comportamenti illeciti ritenuti più proficui (è evidente che la prostituzione rende più della “collaborazione familiare”). A tale politica deve essere correlata un’azione di sostegno all’immigrato deciso e motivato, a cui vanno forniti tutti gli strumenti per inserirsi nella società che lo ospita.



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