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GNOSIS 1/2004
La bomba Africa
una realtà ignorata


Franz GUSTINCICH

L’Africa è alle porte dell’Europa, ma nessuno sembra accorgersene. Dal terrorismo al petrolio, dalle guerre ai traffici di diamanti, dalla violenza all’AIDS, gli africani in fuga dal proprio continente potrebbero essere molti di più. Eppure non è l’emigrazione, per il momento, la minaccia diretta alla sicurezza dell’Europa. Un’ampia panoramica sulla situazione africana e sui problemi che potrebbe esportare.


Migliaia di chilometri, dalle coste atlantiche del Sahara al corno d’Africa, sono il terreno dove i terroristi islamici, ben finanziati e ben armati, si stanno nascondendo e facendo proseliti. Niger, Ciad, Mauritania, Algeria, Mali e Senegal: è in questi Paesi che Emad Abdelwahid Ahmed Alwan, amico di Ayman Al Zawahiri, medico e braccio destro di bin Laden, esercitava il suo potere sul terrorismo radicale islamico prima di venir ucciso dalle forze speciali algerine nel 2002, mentre stava progettando un attacco all’ambasciata americana di Bamako, capitale del Mali.
È dall’Algeria che ha inizio l’espansione del terrorismo islamico nella regione sahariana, ma paradossalmente la causa è proprio la sconfitta del cruentissimo GIA, il gruppo islamico armato che ha seminato sangue e terrore nel Paese. Con la riduzione del GIA a poche decine di uomini nascosti in villaggi isolati e scarsamente operativi, il Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento (GSPC), erede del Fronte Islamico di Salvezza (FIS) e feroce rivale del GIA, ha finito col prendere il controllo dell’integralismo nella regione. Il GSPC ha anche allargato i propri orizzonti in un’ampia porzione di Africa Settentrionale costituendo un ramo dell’organizzazione “sahariano-saheliano”. Capo del GSPC sahariano-saheliano è Abdelrezak Amara Saifi, detto El Parà per il suo passato di paracadutista. Ricercato anche in Italia per i legami con i terroristi arrestati a Reggio Emilia, lo scorso anno, è attualmente prigioniero dei ribelli del Movimento per la Democrazia e la Giustizia in Ciad. Satelliti ed altri sistemi di elint sono stati puntati sulla regione a sostegno della Pan Sahel Initiative (PSI), un programma del governo USA che mira a rafforzare le capacità militari, di polizia, antiterrorismo e di intelligence dell’area. La cooperazione della PSI con i governi nord-africani è eccellente: essi vedono nell’Initiative l’occasione di rinnovare esercito e polizia a spese degli USA, ma la lotta non sarà facile. Fino ad ora il GSPC ha dato prova di un’alta capacità operativa, abbattendo persino alcuni elicotteri ed alcuni droni algerini, disponendo di armi e mezzi di comunicazione sofisticati. Informazioni dell’intelligence francese sostengono che alcune centinaia di appartenenti al GSPC divisi in piccoli nuclei avrebbero l’intenzione di provocare conflitti in Guinea, Senegal, Liberia, Costa d’Avorio, Sierra Leone e sarebbero in movimento per impedire il raggiungimento della pace nella regione sudanese del Darfur.
La strategia statunitense non mira soltanto al contrasto al terrorismo, ma punta, attraverso accordi con Algeria, Liberia, Nigeria e Niger, al controllo delle fonti energetiche del Golfo di Guinea, che da solo, secondo recenti stime delle compagnie petrolifere interessate, potrebbe fornire il 25% dell’intero consumo petrolifero statunitense e insieme all’Angola costituisce il 10% delle risorse petrolifere mondiali. Nel 1996, tuttavia, l’ambasciata statunitense nella Guinea equatoriale venne chiusa a causa delle minacce di morte rivolte dall’entourage del Presidente Teodor Obiang Nguema Mbasogo all’ambasciatore americano, reo di aver denunciato le pesantissime violazioni dei diritti umani dei prigionieri politici nel Paese, considerando peraltro che Obiang secondo varie fonti sarebbe assurto al potere dopo aver strangolato personalmente il fratello di suo padre, presidente fino al 1979. La rottura delle relazioni diplomatiche che ne seguì è terminata a seguito della scoperta di un giacimento petrolifero da 500.000 barili al giorno nell’isolotto di Bjoko (cinquantamila abitanti, reddito medio 0,7 USD al giorno pro capite) che si trova di fronte alle coste camerunensi ma appartiene alla Guinea equatoriale. A questa è seguita l’istituzione di una linea aerea regolare che dall’aeroporto internazionale George W. Bush di Houston, Texas, arriva ogni settimana a Malaba, capitale di Bjoko.
Il petrolio, una delle maledizioni dell’Africa, è causa di conflitti ed instabilità. È in costruzione un oleodotto che dovrà portare il greggio dall’area petrolifera di Doba, nel Ciad meridionale, fino alle coste del Camerun lungo un percorso di mille chilometri. Finanziato dalla Banca Mondiale, da più parti il progetto viene criticato per il mancato rispetto delle regole basilari per l’accesso ai finanziamenti: le comunità locali, fortemente contrarie, non sarebbero state consultate; i piani di emergenza per far fronte a possibili disastri, come la fuoriuscita di greggio dalle tubature, non sarebbero mai stati attuati; la tutela delle comunità locali, espressamente richiesta e sottoscritta per accedere al prestito, sarebbe stata disattesa; i finanziamenti erogati alle nazioni interessate, che dovrebbero essere finalizzati allo sviluppo economico, sarebbero per lo più finiti in armamenti o in conti svizzeri. Il presidente del Ciad, Idriss Deby, ha candidamente ammesso, nel 2000, che i primi fondi erogati dalla Banca Mondiale per il passaggio dell’oleodotto e per lo sviluppo del suo Paese, sono stati impiegati nell’acquisto di equipaggiamenti antisommossa. L’utilizzo di questi equipaggiamenti si è “reso necessario” per deportare interi villaggi lungo il tracciato dell’oleodotto e per sedare le proteste della popolazione. I Bagueli, che da sempre abitano quel territorio, continuano ad essere deportati in zone desertiche. Un parlamentare che nel 1998 si oppose, unico ed inascoltato, al progetto, fu arrestato per aver dichiarato che altri politici erano foraggiati dalla Exxon per chiudere gli occhi. Il risultato è che oggi in Ciad l’arruolamento coatto di minori nelle forze armate è la norma, chiunque si opponga all’oleodotto viene arrestato e torturato e circa cento civili ogni anno sono uccisi. Tutto questo senza contare l’impatto ambientale dell’oleodotto che attraversa l’unica zona agricola del semidesertico Ciad e la foresta pluviale del Camerun.
La Nigeria è il Paese africano con le maggiori riserve di idrocarburi e un’attività estrattiva di 1.801.000 barili al giorno. La benzina, però, in Nigeria è una merce rarissima e fonte di rivolte. Il calcolo è presto fatto: gli accordi con le multinazionali del petrolio prevedono un’esportazione di 1.799.000 barili al giorno, ma il consumo interno è di 200.000, con un saldo negativo di 198.000 bari-li/giorno secondo i dati ufficiali del 2000. I conflitti tribali che scoppiano numerosi nelle aree petrolifere, prima fra tutte la regione del Delta, nota anche come Biafra, hanno più volte costretto le compagnie petrolifere a sospendere ogni attività.


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La violenza indotta dal petrolio non riguarda soltanto le guerre tribali. Nel 1993 l’esercito nigeriano sterminò 1800 persone di etnia Ogoni che si opponevano alla distruzione delle loro terre per far posto agli oleodotti, all’inquinamento indotto dalla combustione di gas nocivi, alla dispersione di petrolio nell’ambiente (la sola Shell sembra ne abbia dispersi 5,6 milioni di litri). La multinazionale contro la quale gli Ogoni protestavano era la Royal Dutch/Shell, che veniva accusata tra l’altro di finanziare gli squadroni della morte che terrorizzavano i villaggi.
Il premio Nobel per la pace Ken Saro Wiwa fu processato ed impiccato il 10 novembre 1995: la sua colpa fu di denunciare alla platea internazionale la repressione degli Ogoni e di aver chiesto che almeno una parte dei proventi del petrolio restasse alle comunità locali. La battaglia degli Ogoni per il riconoscimento dei loro diritti non è mai terminata.
Secondo i dati pubblicati negli studi ufficiali dell’OPEC (Organization of Petroleum Export Countries) e del governo USA, i principali esportatori di petrolio africani basano il bilancio dello stato quasi esclusivamente sulle rimesse petrolifere. È il caso della Nigeria (99%) e dell’Angola (90%), rispettivamente primo e secondo produttore africano. Nell’indice di percezione della corruzione redatto da Transparency International, la Nigeria figura come 134° (su 135, da 1= il meno corrotto a 135=il più corrotto) e l’Angola 124° (l’Italia è 34°).
La corruzione non avrebbe questa enorme rilevanza se non fosse il prodotto delle battaglie economiche tra le grandi compagnie multinazionali e di un sistema bancario compiacente. Un grande scandalo finanziario, forse il più grande della storia recente del continente, ha visto come protagonista la compagnia Elf Aquitaine, coinvolta in un gigantesco giro di riciclaggio di danaro, attraverso i propri conti correnti presso una banca compiacente in Gabon. La Riggs Bank di Washington è attualmente stata messa sotto inchiesta dall’FBI a causa dei conti miliardari di Teodor Obiang Nguema Mbasogo, che si sospetta siano il frutto di tangenti pagate, anche qui, dalla Exxon per i diritti di sfruttamento petroliferi nella Guinea equatoriale.
L’Italia ha invece abbandonato la Liberia dopo 49 anni di presenza di Mediobanca: la Tradevco, Liberian Trade and Development bank LTD(60% Mediobanca, 40% in portafoglio alla società stessa) ha chiuso i battenti, seguita dalla Moriah SA, acquistata in piena guerra civile dalla Pioneer, società del gruppo degli investimenti esteri di Unicredit. Nel solo 2003 sono transitati oltre 15 miliardi di USD nel paradiso fiscale liberiano, anche grazie al fatto che Monrovia è indicata come “non cooperativa con l’antiriciclaggio internazionale”. La Liberia è considerata il centro nevralgico dei traffici illeciti africani e la risoluzione 1521 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite prevede l’embargo totale sull’importazione e l’esportazione di diamanti dal Paese, da sempre utilizzati per il pagamento di altre merci illecite, prime fra tutte le armi utilizzate nella guerriglia liberiana. Gli embarghi, si sa, normalmente provocano l’effetto contrario, permettendo l’arricchimento di pochi trafficanti legati alle alte sfere del potere, la Liberia non fa eccezione: il quotidiano di Monrovia The Analyst riporta che la società canadese Diamond Fields International Ltd ha ottenuto in maggio, in pieno embargo, due concessioni minerarie liberiane, la prima nel settore diamantifero, la seconda nell’estrazione dell’oro. Duemila chilometri quadrati di concessione nella regione Nimba, al di fuori del controllo governativo, sebbene il comandante del movimento dei ribelli di quell’area, il LURD, sieda nel governo di transizione.
I diamanti sono la causa delle deportazioni dei Boscimani, in Botswana, dalle loro terre ancestrali ai campi profughi in mezzo al deserto e, sebbene questi abbiano avuto la forza di ricorrere contro la decisione delle autorità, il portavoce del governo ha fatto sapere alla stampa che se la Corte Costituzionale accoglierà il ricorso, il governo cambierà la Costituzione.
I diamanti africani, secondo l’FBI, rappresentano un ghiotto affare per il finanziamento del terrorismo islamico internazionale, e, soprattutto, sono facilmente occultabili. Il Bureau sta investigando anche sui legami tra il deposto presidente liberiano Charles Taylor e al Qaeda, legami difficilmente dimostrabili, poiché Taylor, che ora è in esilio nella cittadina biafrana di Calabar, in Nigeria, era socio quando non addirittura presidente, di qualche centinaio di società liberiane e sierraleonesi, delle quali non conosceva nemmeno la ragione sociale: una quota di partecipazione per il presidente era la tangente da pagare per aprire quel tipo di attività dove è necessario che nessuno faccia domande. Taylor era, ad esempio, presidente della compagnia aerea Air Cess, del trafficante di armi russo-kazako Viktor Bout, noto per le numerose compagnie aeree fondate un po’ in tutto il mondo, secondo fonti giornalistiche socio dello Sceicco Abdullah bin Zayed bin Saqr al Nayhan, membro della Casa Reale degli Emirati Arabi Uniti. Di Viktor Bout è stato detto che se non avesse perso il posto di lavoro a Vitebsk (era ufficiale dell’esercito), l’Africa sarebbe un luogo pacifico. Le sue società operano ed hanno operato su piste sperdute ed isolate in Angola, Swaziland, Burkina Faso, Sierra Leone, Liberia, Sudan, Congo Brazaville, Uganda, Camerun, Repubblica Centro Africana, Sud Africa, Ruanda, Libia, Guinea equatoriale, Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire), Kenya, Afghanistan... ma è soprattutto ricercato con l’accusa di aver fornito armi ed esplosivi all’organizzazione di Osama bin Laden. Che un russo possieda una compagnia aerea in Africa è, tuttavia, normale come incontrare un cammello ad Accra: un velivolo Antonov, magari di terza mano, ha un costo accessibile a molti; peraltro i piloti ex militari chiedono stipendi ragionevoli. Ancora, in un paese ove le infrastrutture per i trasporti sono pressoché inesistenti, la domanda di trasporto aereo è decisamente alta. Il rischio è di trovarsi a bordo di un elicottero guasto, dopo un atterraggio d’emergenza in pieno deserto, nel bel mezzo di una battaglia fra due tribù per il controllo dell’unico pozzo, senza radio e con un equipaggio che parla solo russo, come è accaduto a chi scrive. Il capo della tribù vincente, fortunatamente, possedeva un telefono satellitare, anche se di prima generazione, alimentato da celle solari.
Dalla Russia provengono anche la maggior parte degli aerei militari, come gli Antonov 26 che per vent’anni hanno bombardato il sud del Sudan da altezze di oltre settemila metri per non essere abbattuti, ma con una scarsissima precisione, come si può facilmente verificare sul luogo dopo un bombardamento.
I bombardamenti aerei, in Africa, non sono impressionanti come quelli delle immagini della seconda guerra mondiale: le capanne circolari col tetto di paglia, sebbene esplose, non producono lo stesso effetto del crollo di enormi edifici, e così una guerra devastante non può essere giudicata sulla scorta delle immagini. Sono le cifre allora, che devono mostrare al mondo la follia delle guerre combattute nel continente nero: dai 21 anni di guerra e due milioni di morti in Sudan ai 17 anni di guerra e “solo” centomila vittime dell’Uganda, passando per la Nigeria, il Congo, la Liberia, la Costa d’Avorio e, ancora, Angola, Sierra Leone, Etiopia, Eritrea. Il conflitto più incredibile, che però ben rappresenta tutta la violenza africana, è quello che vede l’esercito ugandese, contrapposto al Lord’s Resistance Army (LRA) del quarantenne Joseph Kony, che dichiara di essere il successore spirituale di sua zia Alice Lakwena, che condusse nel 1988 migliaia di guerrieri Acholi riuniti nell’«armata del Santo Spirito», armati di lance e frecce contro l’esercito del golpista Yoweri Museveni. Fu una strage: lance contro fucili automatici e cannoni.
Il LRA, nato nel 1989, oggi è un esercito religioso sincretico, dove religione tradizionale, cristianesimo e voodoo si mescolano; il leader, un po’ stregone e un po’ profeta, dichiara di essere posseduto da uno spirito divino. L’obiettivo del LRA è quello di instaurare un regime basato sull’applicazione letterale degli “undici” comandamenti. L’undicesimo è stato ispirato da Dio direttamente a Kony e recita «non dovrai mai andare in bicicletta». Oltre ad aver rapito più di ventimila bambini per avviarli alla schiavitù, in virtù dell’undicesimo comandamento, i soldati di Kony stanno mutilando i glutei dei contadini trovati in sella alle biciclette. I soldati del LRA sono stati finanziati per anni dal governo sudanese, mentre Museveni sosteneva la guerriglia del Sudan People’s Liberation Army (SPLM)contro Khartoum. Il conflitto ugandese contiene in sé tutti i possibili caratteri delle guerre africane: tribalismo, magia e religione, violenze efferate, riduzione in schiavitù, saccheggio e sostegni stranieri.
Il conflitto civile nella Repubblica del Congo (Congo-Brazzaville), ad esempio, è combattuto per il possesso di un’area petrolifera. Dietro ai due contendenti, le tribù degli Hema e dei Lendu, ci sono Rwanda e Uganda, che combattono la loro guerra per il petrolio o, meglio, la combattono per i loro padrini. Rwanda ed Uganda sono considerati delle semicolonie, rispettivamente americana e francese.
Ma è l’AIDS l’arma che più affligge il continente africano, con Nazioni dove la percentuale di popolazione infetta, secondo dati ufficiosi confidatimi da un dirigente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, supera il 50%. Lo Zimbabwe - dati ufficiali 27%, ufficiosi 51% -, ne è un esempio. Le abitudini sessuali tradizionali prevedono l’uso di terre e sabbie nell’atto sessuale, causando abrasioni che favoriscono il contagio e hanno provocato una larghissima diffusione della malattia. Nel conteggio ufficiale dei malati entrano solo gli ospedalizzati e obiettivo del governo resta quello di minimizzare e nascondere. È però difficile nascondere il fatto che a Zvishavane, nella più grande miniera del mondo per l’estrazione di asbesto blu, quello non cancerogeno, dove lavorano oltre 5.000 minatori, ogni giorno almeno due operai vengono rimpiazzati perché giunti allo stadio terminale del-l’AIDS. In Uganda, dove la politica governativa era la stessa, grazie alle pressioni internazionali c’è stato un cambiamento di rotta e l’assistenza domiciliare ha consentito di conteggiare un numero maggiore di malati e al tempo stesso ha permesso di intervenire più drasticamente, riducendo effettivamente il numero di decessi per HIV. L’alto costo dei farmaci antiretrovirali ha tuttavia indubbiamente un peso eccessivo per le amministrazioni africane.
Ancora, di fatto, con l’emigrazione, l’AIDS viene esportato anche nei Paesi occidentali.
Dopo questo rapido excursus sulla realtà africana, chi immaginava l’Africa come una terra di giraffe e rinoceronti, si sarà ricreduto. La percezione più comune del continente nero è molto superficiale e mediata da cinema e televisione nel modo sbagliato: romantica e arretrata.



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L’Africa è dotata invece di una vitalità estrema e allo stesso tempo colpita al cuore da interessi economici e commerciali di Paesi di altri continenti.
L’Africa è una bomba ad orologeria: se da un lato è un gigantesco deposito di materie prime, alle quali tutto il mondo ambisce, dall’altro, il fatto stesso che queste materie prime non possano essere lavorate nel continente ne riduce le possibilità di emancipazione.
In Europa conosciamo l’Africa attraverso l’emigrazione, ma quel che non sappiamo è che dietro ad ogni immigrato che raggiunge le sponde europee, ce ne sono altri quattro che non ce l’hanno fatta, e sono caduti durante la traversata del deserto, tra le mani dei banditi o di doganieri che li hanno depredati; e dietro ognuno di questi quattro sfortunati, ce ne sono cinquanta che non hanno ancora avuto la loro occasione di tentare la fuga dalle guerre, dall’inquinamento, dall’AIDS, dallo sfruttamento, dalle tirannie. L’Africa però non esploderà di emigrazione, che è invece un lento stillicidio quotidiano, poiché rischia invece di proseguire il suo cammino di instabilità, contesa e corteggiata e poi accoltellata.
Le colonie hanno regalato all’A-frica il concetto di nazione pur imponendolo arbitrariamente e senza tener conto dei modelli locali; per questo dalla decolonizzazione non è derivata la cultura dell’autogoverno. Questa è la prima causa dei mali contemporanei che affliggono il continente più ambito e meno conosciuto dall’Occidente.



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