Ccà ‘n Palermu a tempu anticu / si furmau un’occulta setta
Di lu ngannu e di lu ntricu / Nnimicissima perfetta.
Lu fatali juramentu / Era chiddu di pruvari
Qualchi occultu tradimentu / Pri putillu fulminari.
Cui tintava na nnuccenti / Prri macchiarici l’onuri,
Cui ntricciava tradimenti / Chi spiravanu tirruri;
Come un lampu, a la mpinsata / Lu gran debitu scuttava,
E sta setta inosservata / Li dilitti castìava.
Sta gran setta pri tant’anni / Biati Pauli fu ntisa,
Pirchì ‘n traccia di li nganni / Sustineva ogn’aspra mprisa
(Da "Li Biati Pauli in Ligenni Popolari" di Carmelo Piola - Palermo, 1857)
La creatività, quella risorsa troppo spesso accantonata o prosaicamente sottostimata nella sua valenza analitica e descrittiva, è usata in queste pagine come strumento per diffondere la conoscenza del fenomeno criminale mafioso.
La rivista propone una rubrica che, in modo provocatoriamente nuovo e piacevolmente diverso, tenterà di tratteggiare il profilo criminale di alcuni attori, raccogliendo ed integrando la consolidata conoscenza psico-sociale dell’agire delinquenziale.
Si vuole profittare delle immagini che l’intuito offre ad una mente creativa già consapevole delle dinamiche storiche, sociali e giudiziarie che dipingono il fenomeno malavitoso; si vuole catturare quella magia ispiratrice che libera la penna dai vincoli della tecnica e del metodo, dai legami dell’opportunità e della coerenza, e che trasforma il foglio in tela, le parole in colore, la frase in emozione. In questa rubrica la ragione cede spazio al sentire, la fantasia si presta alla conoscenza.
La scelta di “bagnare la tela” con un racconto ispirato ai “Beati Paoli”, la leggendaria setta segreta che imperversò dal XVIII al XX secolo in Sicilia, nata con l’intento popolare di “vendicarsi” delle prepotenze baronali e degenerata in associazione violenta e sanguinaria, deriva dall’intento di scandagliare il contesto siciliano - e non solo - per segnalare le manifestazioni extramafiose che costituiscono l’humus fertile per i modelli criminali tradizionali italiani e che hanno alimentato una visione metalegale di intermediazione sociale e di amministrazione della giustizia che la criminalità organizzata vuole accreditare e legittimare.
È significativo, in questo senso, quanto dichiarò alla Commissione Parlamentare Antimafia Gaspare Mutolo, con il suo esplicito riferimento all’influenza esercitata dal libro sui Beati Paoli (1) nella costruzione della sua immagine psico-criminale di mafioso, che conferma il peso assunto dalla letteratura romantica e d’appendice nella sedimentazione dell’immagine folkloristica di certe forme eversive criminali e di taluni costumi illegali. Altrettanto esemplare è il caso del boss Totuccio Contorno, ben noto con “l’ingiuria” di “Coriolano della Floresta”, il personaggio nato dalla penna di Luigi Natoli, studioso che dedicò un intero ciclo all’atmosfera dei Beati Paoli.
Molte sono le ricerche sui Beati Paoli, anche se si fondano su un materiale parco ed interdipendente che assume valore solo nel quadro integrato dei fenomeni complessi della storia siciliana. Emergono, in questa letteratura, frequenti richiami alla Fehmegerichte vestfalica, il tribunale segreto medievale composto da un gruppo di audaci che si sostituiva all’inerzia politica e legislativa del tempo (si vedano: le “lettere su Messina e Palermo da Paolo R.” scritte nell’ottobre 1835 da Gabriele Quattromani; “Sopra una pagina di storia municipale” del 1873 di Giuseppe Bruno Arcaro; “La favola dei Beati Paoli” di Salvatore Salomone Marino, raccolti da Giuseppe Pitrè nel 1875 nelle “Fiabe, novelle e racconti popolari”). Emerge altresì un richiamo ai rigurgiti romantici del filone popolare e letterario dell’800 e del 900 (Linares, Natoli, Naselli, Piola, Ponson du Terrail) ed ai recenti apprezzati studi di Castiglione e Renda, che analizzano e sintetizzano la bibliografia sul tema.
Il racconto proposto si immerge nell’anima del carrettiere Vito Vituzza, uno dei personaggi delle opere di Francesco Maria Emanuele, marchese di Vil-
labianca (2) , e ne descrive le angosce, il credo, il tormento inconfessabile.
Pur se non emergono chiaramente legami tra l’esperienza dei Beati Paoli ed il fiorire di Cosa Nostra, tuttavia l’eco assorbita dalla cultura mafiosa confonde i fenomeni, diversi per fronde ed arbusto, forse non per semenza.
Una quiete equorea, come di risacca, agita la notte che la luna illumina sinistramente.
Le volte annerite della chiesa di S. Matteo accolgono il buio come sabbie mobili, confondendo le trame del soffitto, le fratture di secolare pazienza e le sottili sverze che trasudano preci e ululati sommessi di oranti disperati.
Nel claustro luogo, tra gli appiattiti simulacri di santi e beati, si muove a stento l’ombra di Vito Vituzza. Gli amici non riconoscerebbero quel claudicante profilo umido di condensa.
Il respiro affannato ingoia a fatica l’aria bruciata dallo scirocco e dalle fiamme untuose che sciolgono la cera.
“S. Paolo illuminato! S. Matteo e S. Sebastiano coraggiosi! Maria Santissima, Vergine Addolorata... è la fine del mondo. L’apocalisse annunciata! Maledetti asini da traino, sbirri, baroni e viceré…!”
Le dita che la vecchiaia tortura ed annoda come rami d’ulivo si muovono lentamente sui ceri.
Alcuni sono dritti come canne da fucile; li accarezza, misurandone la resistenza, la voglia di fuoco e l’ambiziosa mira. Sembra accondiscenda alla loro vitalità, lasciandoli sopravvivere non per il devoto scopo cui sono destinati ma perché illuminino i suoi gesti.
Gli altri, quelli morbidi e deboli, fiaccati dalla calura che essi stessi procurano, illudendosi di sfrondare il mistero ed il miracolo, sono docili tra le dita, tremule e pronte a seguire il vincolo della mano ed il lesto schiocco dei polpastrelli che li spengono.
Vito Vituzza sorride.
Gode di quell’attimo onnipotente che dà e toglie la luce, disperdendo il sottile ordito di fumo che mima i sussulti agonizzanti dell’anima.
Osserva le candele vestite di un velo grigio di fuliggine, girotondo di segreti e di mandanti.
Contengono a stento preghiere e missioni affidate al loro vello di sentinelle.
“Anch’io ero tra voi” sussurra Vito alle ombre dei ceri che si rincorrono spaurite sul muro polveroso (sembra che deliri) “nel buio di grotte umide come questa navata, con compagni segreti e muti come cera, agili come fiamme, pronti ad incendiare silenzi ed assicurare la giustizia negata. Come voi... Ognuno portava la sua lingua infuocata e tagliente ma insieme, come un coro di stelle, riscaldavamo ed illuminavamo”.
Nel ghigno imbevuto dei sussurri la luce sembra più fioca.
Da giorni le campane suonano a morte, gli sbirri raccolgono sterpi e fine grano, orfani e vedove piangono nei capanni affollati di fango e povertà come nei palazzi ampi ed odorosi dove la ricchezza spregiudicata è più arrogante, l’intellettuale ribellismo s’affida ad oblique vendette ed i predoni indossano abiti di velluto.
I Beati Paoli sono stati arrestati.
Vituzza è sfuggito alla retata, come altre volte nel recente passato, si è recluso tra le mura di S. Matteo.
“Non sono certo fuggito ... sono un esiliato dalla inetta legge di uomini …(malacarne!) uomini… niente mischiato con il niente!”.
È inquieto.
La sua non è preghiera.
Davanti a quel gioco mortale di candele raccoglie tutti i ricordi di una vita nel suo pugno di rabbia.
“Non latito, vivo clandestino nella grazia di queste mura sacre, con l’offerta di anime pietose (uomini che conoscono il giusto), mondo parallelo che si nutre di confessioni, lontano da tradimenti e paure, attento alle confessioni della gente che riempiono la mia attesa.. lunga come l’agonia della vita”.
Carsico spumeggia il risentimento per l’impossibilità di dare sfogo di giustizia alle confessate pene subite dalla gente, di aggiustare le cose storte.
Riaffiorano le corse del suo carretto tra le vie di Palermo, i passeggeri, le merci e le confidenze, con la sicumera di una fama che aveva acquisito e che non era riuscito a domare.
Si tratteneva spesso, nei mercati colorati, respirando quell’aria intrisa di zagara che riconosceva anche sulla pelle bruna di fugaci abbracci. Soleva placare nelle grazie di uno sguardo la sua furibonda voglia di rissa.
Ora, invece, guarda le statue nelle variopinte gabbie di gesso. Si sente tradito ed irritato dalla loro immobilità snervante, dal vuoto che lo circonda e che nemmeno i più grevi ricordi colmano.
In momenti come questi, e capita sempre più spesso, cerca di recuperare il bandolo della matassa della sua vita, agitando a scatti la spalla sinistra prima ed il mento poi.
“Quando c’è confusione ed arroganza, quando ti vestono con abiti non tuoi, quando calpestano questa terra ingravidandola con semi stranieri, pretendendo raccolti che il tempo e la qualità della zolla non possono assicurare, allora le lacrime infangano ed invischiano l’arrogante passo del despota, fino a farlo cadere”.
Non rimaneva forse incantato da come l’erba selvaggia fioriva in agguato nei seminati? Come imponeva la legge santa della natura sulla geometrica violenza dei giardini aristocratici?
Il pugno di Vito si stringe, colorandosi di morte.
“Chi ha vendicato la sposa cui avevano ucciso il marito per predarla? Chi ha battuto la schiena del barone truffatore, del sacerdote vizioso, del confinante litigioso, del gabelliere infame? E forse che Mena, Tano, Tonio e molti altri (o quanti!) non preferivano raccontare a me, il carrettiere Vito Vituzza, le loro pene patite piuttosto che peregrinare (e quanto invano) tra dottori, sbirri, corti e tribunali?”
Quando il buio avvolgeva la città, ingoiando palazzi, torri, stamberghe, osterie e bassi (oscurità della morte che rende uguali all’occhio cieco tutti gli uomini e le opere), i Beati Paoli scivolavano come fantasmi nel silenzio delle vie e si trovavano tutti in un girotondo incappucciato.
Vito socchiude le palpebre e ripercorre il sentiero iniziatico ..verso S. Cosimo, nella vanella di S. Maruzza, quartiere del Capo.
Accedeva dall’ingresso di una casa che apriva ad un ampio baglio. Alzava il capo, talvolta, verso quell’ordito di stelle che rischiarava il cielo e rifletteva l’ansia di congiurato degli affiliati. Un albero, muta sentinella delle ombre, ricordava la forza della natura anche tra le straniere mura che l’uomo aveva eretto.
Già i passi s’udivano nella sottostante volta di una grotta che, attraverso una grata di ferro, respirava gli effluvi della notte, trattenendone la magia segreta.
Scendeva cinque scaglioni di pietra rustica ed incrociava un piccolo altare sassoso.
Ai lati, i labirinti della grotta erano stati attrezzati come cancelleria, un tavolo, l’inchiostro, il pennino e la carta che s’imbrattava dei feroci giudizi. L’area adibita ad assemblea aveva sedili circolari ed armi bianche e da fuoco nelle nicchie.
In quel ventre di catacombe l’eco dei sussurri e dei verdetti montava progressivamente. Piombava nei cuori. Dava a quei corpi di candela l’onnipotenza di fiamme divine. Trasudava, infine, dalla roccia e si disperdeva nella città malata.
Apostoli di morte e di giustizia non c’era preghiera raccolta nelle strade che non fosse esaudita con il coltello, il bastone o lo schioppo.
“La giustizia non deve attendere! Angeli sicari compiono il miracolo. È questo il segreto dei Beati, “u baccagghiu”, la prontezza, la sorpresa che elegge ed incute timore, che solerte condanna e rende pace all’inquieto animo di chi soffra torti. Forse che i Vendicosi (3) dell’età normanna non hanno custodito l’antico segreto, che la gente ha sete di vendetta e preferisce affidarsi a mani leste più che alla voce lenta del potere? Mani che conoscono il peso della nostra terra, di cui siamo fatti noi stessi, non certo guanti stranieri che cambiano, s’alternano ma al di sopra dei nostri capi che vorrebbero inerti e supini.
Certo, non c’è morte serena per chi operi nella notte: lo stesso cappio ha soffocato i Vendicosi ed in questi tempi oscuri (4) anche il maestro schioppettiere Giuseppe Amatore ed il ragioniere dell’ospedale Grande di Palermo Girolamo l’Ammirata. Altri sono stati marchiati, testimoni della pena per tutta la vita.
Ed io? Salvo!”
Trattiene il fiato.
“Certo, salvo, perché a giusto tempo defilato. Ho abbandonato carrozzini e bestie di vettura ed ho trovato riparo sotto le volte di S. Matteo del Cassaro, che giro e rigiro come un sorcio. Impreco contro la sventura, i malaffari ed i tempi nefasti. Lascio l’ira e la rissa ai miei vani borbottii, rimpiangendo le notti armate ed il sibilo del coltello”.
Curvo nei pensieri si consuma come la cera che strappa alle candele.
Pensa al suo esilio, alla grotta abbandonata e profanata da occhi turisti, passi curiosi e luci ingombranti.
Immagina il vuoto nelle piazze, denso come pece, il pianto degli orfani della giustizia.
Si specchia nel baratro di pena e sente crescere un fastidio.
Si può vivere una vita tra i Beati Paoli ed aspettare la morte nell’ozioso silenzio di un rifugio, ancorché sacro?
È la pena per la gente a stringergli il petto?
Oppure gli sfugge il senso della sua esistenza?
Sopravvivono i palermitani alla sua fuga?
Era stato viceré, barone, vetturino... dietro il cappuccio ogni ruolo, ogni potere, ogni differenza sfumavano, divorati dall’uguale potere di angelo vendicatore... Era uscito dalla folla povera e disperata. Aveva occupato quello spazio utile tra prepotenti e succubi, invertendo spesso le situazioni, inebriandosi di quel gioco sanguinario.
Aveva difeso, garantito e tutelato la gente, dispensando vendette, morte e lacrime.
Quante volte si era sostituito ai prepotenti?
Essere prepotente come loro aveva un gusto onnipotente e riparatorio.
Eppure troppi Beati Paoli seguivano propri interessi, imponendo il giogo alla povera gente.
La “falsa idea” della congrega, il dubbio sulla promiscuità criminale... insomma, la latente sensazione di una deriva delinquenziale assale Vito e l’abbatte.
Il rispetto imposto in nome dei Beati era in fondo un sentimento che arricchiva i singoli aggregati e soprattutto non era spontaneo.
La segretezza, (quale segretezza?) era solo un feticcio. Lui con il tempo aveva conosciuto e riconosciuto i suoi compagni ed il popolo sapeva individuarli.
Non era forse importante accreditarsi per ricevere confidenze e tributi dalla gente?
Far capire senza dire, affermare il vincolo della congrega inducendo timore, reverenza ed impunità.
Vituzza ben sa che più che da un’illuminazione alla S. Paolo, i Beati erano segnati da valentismo e sgherrismo, aristocratici o popolani era ugual cosa.
Non arabeschi tronfi di certe delinquenze ostentate ma ribellismo subdolo ed obliquo che del crimine fa uno strumento di violenza e dissuasione.
Perchè?
Si avvita nei suoi dubbi, nell’eco esausta del tormento.
E se non fossero esistiti?
Se fossero fantasmi che il caso ha accoscato?
Le ultime candele tremano d’agonia.
Vituzza tocca come S. Tommaso le ferite delle sue lotte. Cerca di ricordare la via, il morto, le lacrime dei parenti, l’odore umido della tonaca che lambiva il pavimento della grotta e ne raccoglieva la polvere (lo scirocco portava l’afra salsedine dal porto e l’odore d’umanità dalla Vucceria).
Stacca lo stoppino di una candela.
Avverte il languido torpore della morte in quel gesto facile che ne evoca tanti altri. Con la lama era lesta la morte, con le mani o il laccio si attendeva il sussulto disperato e la molle resa del collo. Poi l’uomo si “stutava” e l’anima sputata si perdeva tra le ombre della notte.
“È finito il nostro tempo. Resteranno le preci. Fino a quando gli uomini cercheranno sentieri storti per arrivare prima, vendette in nome della giustizia, ci sarà qualcuno che si approprierà della violenza contro la violenza, della violenza contro la debolezza.. imporrà l’arbitrio all’arbitrio, come un serpente che s’ingoi.
La notte partorirà ombre e sverze di lame lucenti come candele...
Scompaiono i Beati Paoli ma non la voglia di ripeterli…”
Palermo si scuote, albeggia.
I vicoli sgomitolano umanità sino ai pitosfori della costa, dietro le trincee di fichi d’india.
La fragranza della zagara copre il sonno rappreso di sogni, forse di incubi.
I carretti riprendono l’anchilosato ancheggiare sui ciottoli.
La scia di cera si spegne ai piedi del simulacro, coprendo l’ultima ombra di una preghiera.
Vito Vituzza, ultimo dei Beati Paoli, sembra addormentarsi, piegato sui gomiti, come decollato.
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