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GNOSIS 1/2004
Privacy e sicurezza
l'equilibrio possibile


articolo redazionale

La tutela della privacy ha conquistato una posizione di assoluto rilievo tra le garanzie offerte ai cittadini dalle società democratiche. La lotta al terrorismo può mettere in discussione, almeno parzialmente, questa tutela? La ricerca di un equilibrio tra sicurezza e diritto alla riservatezza rivela molti degli interrogativi che la società si sta ponendo dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Lo scenario di un dibattito che è il simbolo di un sistema che si sta mettendo in discussione.

La vita può essere capita solo all’indietro, ma deve essere vissuta in avanti.
(Soren Kierkegaard)



Introduzione

È un dibattito che rappresenta il nostro tempo, quello che ruota intorno al binomio privacy-sicurezza, e che va oltre la fondamentale ricerca di un equilibrio tra gli strumenti attraverso i quali garantire maggiore sicurezza e l’indefettibile esigenza di non attenuare le libertà civili che fanno del nostro sistema una democrazia. La società cerca strumenti per oltrepassare una fase incerta, difficile e pericolosa; si interroga sulle decisioni da prendere e sulle tecniche da utilizzare, compensando costi e be-nefici che non riguardano aspetti finanziari, o almeno non solo quegli aspetti, ma anche valori che non possono essere monetizzati e che costituiscono una ricchezza ancora più grande.
L’11 settembre ha provocato uno shock così grave da determinare la nascita di una nuova fase storica, una nuova epokhé, quella che tutti avevano previsto guardando sgomenti due grattacieli cadere e spazzare certezze, convinzioni e sicurezze. Dal giorno delle Torri Gemelle ogni nostro pensiero, ogni argomento, ogni dibattito che riguardasse la società nel suo complesso ha subìto una evoluzione, ed è forse questo che succede quando si forma una nuova epoca: nulla è più come prima e tutto deve essere interpretato alla luce di una nuova realtà.


foto ansa

Se ciò che accade ha sempre ed inevitabilmente anche dei risvolti positivi, allora gli interrogativi profondi che la società si sta ponendo costituiscono forse l’unica conseguenza positiva rispetto a quanto di tragico ci ha imposto la violenza dei terroristi. È in buona sostanza il processo attraverso cui lo Stato democratico si evolve, poiché, seriamente minacciato, tenta di difendersi senza pregiudicare le sue conquiste ed i suoi valori, anzi usandoli come scudi. È l’ideale della democrazia che richiede una sua pratica attuazione.
In momenti come questi nei dibattiti politici le parole hanno un peso diverso dal solito: quei numerosi termini che custodiscono il nostro patrimonio di valori, termini come Stato, Diritti, Doveri, Libertà, ecc., e che troppo spesso sono ostaggio di quella famelica divoratrice delle conquiste dell’umanità che è la retorica, chiedono di essere liberati per recuperare tutta la loro spinta evolutiva e tutta la loro forza culturale rassicurante. Queste parole, ridotte sovente ad intercalare del linguaggio politico, custodiscono le risorse “dimenticate” di cui abbiamo bisogno per andare avanti.
Il binomio sicurezza-privacy anche da questo punto di vista può essere assunto tra i simboli più significativi di questa peculiare epoca: è sufficiente, infatti, analizzare alcuni tra i numerosissimi contributi che sul tema hanno fornito intellettuali e politici per scoprire il frequente ricorso a quelle “parole”, a quei “beni rifugio” capitalizzati per ridurre il rischio di un deficit democratico. È un pellegrinaggio verso i nostri santuari semantici cui chiediamo conforto; è una visita costante a monumenti linguistici tanto grandi da dover essere esplorati più volte per determinarne dimensioni e contenuti e nei quali ricercare ogni soluzione. È come dire che una risposta esiste già, ma è indispensabile cercarla nel sancta sanctorum dei nostri valori fondamentali: il percorso è già tracciato. Dalla parola, attraverso questo percorso, si riscopre il principio, si svela l’idea originaria.
È un processo che trasforma la crisi in una occasione evolutiva. È una ciclica epokhé: una ricerca della realtà che, per dirla con Husserl, va rivista con gli occhi di un bambino.
È questo l’humus sul quale seminare le riflessioni ispirate dal rapporto tra sicurezza e privacy, facendoci accompagnare cioè dalla consapevolezza di trovarci nel cuore della tempesta e che dunque è opportuno manovrare con cautela.


Un binomio pluridimensionale

Il rapporto tra sicurezza e privacy è particolarmente intricato: è una relazione pluridimensionale che richiede una osservazione da diversi punti di vista per essere completamente analizzata.
Il binomio è spesso descritto in un modo fuorviante al punto da far intendere un conflitto fra questi due concetti, espressione ciascuno di una esigenza che trova nell’altro un ostacolo pericoloso. Esiste certamente una tensione, che sarà sciolta raggiungendo un equilibrio ideologico prima che tecnico, ma anche - offrendo un’atipica chiave di lettura - una relazione tra genere (la sicurezza) e specie (la tutela della privacy). Quest’ultima è uno degli strumenti attraverso cui si garantisce maggiore sicurezza, quella che deriva dall’impedire che informazioni che riguardano la sfera personale di un individuo possano circolare liberamente ed essere utilizzate (rectius: trattate) senza il consenso della persona a cui si riferiscono ed in modo da provocarle un danno.
Ma il termine “privacy” ha assunto un significato simbolico ben più rilevante: esso è divenuto parametro per giudicare livello e qualità delle libertà di cui godiamo rispetto all’organizzazione e all’influenza dello Stato democratico. La tutela della riservatezza è interpretata, dunque, come cavalleresco baluardo al rischio che gli eventi storici provochino una attenuazione dei princìpi democratici di libertà ed un rigurgito delle paventate tendenze dello Stato a estendere la sua influenza ed il suo controllo sui cittadini in modo ingiustificato e pericoloso.
Questo è l’aspetto che determina la tensione tra esigenze di sicurezza e sfera di riservatezza, una tensione certamente intensa ma che non può e non deve essere considerata un conflitto.
La genesi del binomio rende più semplice comprendere lo spessore dell’argomento. Questi due termini condividono un destino comune: simboleggiano quei fattori, lo sviluppo tecnologico ed il fenomeno del terrorismo, che nell’ultimo decennio hanno caratterizzato la nostra storia.
Da un lato la tecnologia che consente di archiviare (rectius: ricordare) con semplicità e a basso costo tutte le informazioni relative ai rapporti che ogni individuo intrattiene con organizzazioni pubbliche e private e che, in fin dei conti, rende “tracciabile” il modo attraverso cui ciascuno di noi utilizza la propria libertà ed i propri diritti di cittadino; dall’altro il fenomeno del terrorismo, invece, che richiede rinnovate riflessioni sulle esigenze e sugli strumenti necessari per aumentare la sicurezza nazionale di fronte ad un “nemico” così violento, così clandestino e così determinato. Maggiore sicurezza si traduce in una maggiore attività di controllo e di analisi, in una esigenza, in breve, di ottenere maggiori informazioni dalla cui valutazione giungere poi alla possibilità di prevenire violenze o aggressioni al nostro sistema di vita.
Il rapporto di cui stiamo argomentando ha subito notevoli evoluzioni al punto che, in teoria, lo si potrebbe considerare distinguendo due aspetti che tutt’ora coesistono:
a) l’equilibrio sicurezza-privacy precedente al giorno che gli americani chiamano “delle Torri Gemelle” (Twin Towers day), giorni in verità molto meno lontani di quanto possa sembrare;
b) il rapporto tra sicurezza e privacy contemporaneo, che ci accompagna lungo questo nuovo corso: questo Twin Towers deal.


La privacy del giorno prima

Prima del Twin Towers day il dibattito si è concentrato soprattutto sulla privacy, resa fragile dal cyberspazio e dall’uso delle tecnologie sempre più ampio (telecamere, strumenti di rilevamento delle impronte, carte di credito, ecc.). La sicurezza e il diritto alla riservatezza, in questa atmosfera, si sono integrati ricalcando il rapporto tra generale e particolare poc’anzi suggerito. Certo erano tempi diversi durante i quali poteva essere più che sufficiente ricordare al paese che la firma di ciascuno di noi non era (e non è) una “firmetta”, come uno spot televisivo ci ha ricordato più volte.
La tutela della privacy è stata risolta attraverso una condivisione della funzione di tutela tra il cittadino (a cui è riservato il diritto di esprimere o meno il consenso al trattamento dei dati) e lo Stato. Al cittadino, in fin dei conti il vero garante della sua riservatezza, è stata chiesta attenzione nella fase di elaborazione del consenso.
Il sistema nel complesso ha raggiunto un discreto equilibrio sebbene vada rimarcata l’assenza di un meccanismo semplice che consenta al cittadino stesso di comprendere esattamente in quale modo siano trattati i suoi dati nel caso in cui presti il celebrato “consenso” e quali vantaggi e svantaggi ciò può provocargli.
Il rischio del “grande occhio”, cioè il rischio di uno Stato che, profittando della proliferazione di dati riservati di cui per un motivo o l’altro veniva in possesso, usasse queste informazioni in funzione di controllo, è stato spesso contemplato, ma, tenuto conto della natura degli argomenti, ciò era inevitabile. La dimensione del “grande fratello” è sempre piaciuta nel nostro paese, nelle finzioni televisive e cinematografiche così come nei dibattiti politici e culturali, ed è probabilmente giusto che in uno Stato democratico si mantenga alta l’attenzione su questo rischio.
A tutela della privacy il sistema ha anche sperimentato con successo l’adozione dello strumento dell’autorità amministrativa indipendente, il c.d. garante della privacy (esattamente: garante per la protezione dei dati personali). L’autorità amministrativa indipendente, anche definita authority, costituisce un istituto comparso di recente nel nostro ordinamento e che gode oramai di una buona diffusione. Questo istituto, anzi, ha trovato proprio nel garante in questione un valido esempio di come sia uno strumento organizzativo in grado di contribuire a fare una buona amministrazione degli interessi dei cittadini e capace di avvicinare la politica alla società civile.


Il rapporto privacy-sicurezza durante il Twin Towers deal

Come già scritto, l’11 settembre ha travolto anche il rapporto privacy-sicurezza arricchendolo di significati profondi e facendone la chiave di volta per ritrovare una risposta adeguata alle minacce terroristiche senza per questo discriminare le prerogative dello Stato democratico.
Il rapporto, sotto questo secondo aspetto, ha allargato il concetto della sicurezza rispetto a quello a cui ci si riferiva in precedenza.
Da un lato, infatti, si pone la privacy, dall’altro la sicurezza intesa anche in una accezione che finalmente trova maggiore ospitalità nel linguaggio politico italiano, vale a dire quella sicurezza arricchita dall’aggettivazione “nazionale” che ne impone una diversa valutazione, la presenta quasi come un nuovo principio da approfondire e definire.
La locuzione “sicurezza nazionale” va finalmente sdoganata dalla cinematografia d’azione d’oltreoceano e fatta entrare a pieno titolo nel vocabolario medio. Si tratta, infatti, di un concetto particolarmente ampio che il legislatore ha definito come:
a) difesa dell’indipendenza ed integrità dello Stato da ogni pericolo, minaccia e aggressione (sicurezza esterna);
b) difesa dello Stato e delle sue istituzioni contro chiunque vi attenti e contro ogni pericolo di eversione (sicurezza interna).
Per configurare meglio il concetto di sicurezza nazionale si potrebbe affermare, chiedendo venia ai teorici del diritto costituzionale, che esiste una tutela della sicurezza che riguarda soprattutto gli individui ed indirettamente lo Stato, e una forma di sicurezza che tutela lo Stato ed indirettamente i cittadini. È a questa seconda formula che si accede quando si tratta di sicurezza nazionale che, allora, riguarda ciascuno di noi come membri di una nazione nel suo significato letterale.
Nell’ambito del dibattito in argomento, la sicurezza nazionale viene esaminata sempre dal punto di vista degli svantaggi (o dei rischi) che potrebbe provocare, nella convinzione che esigenze di sicurezza di questo tipo possano determinare una deriva meno democratica e uno Stato più invadente. Dei vantaggi o delle necessità di ricorrere a nuovi strumenti di analisi e di indagine si discute poco: si trasforma l’oggetto reale del dibattito in un elemento secondario quasi come se il pericolo che si vuole contrastare stia lì ad aspettare una decisione, per poi rivelarsi.
Ciò accade per l’influenza di fattori storici e culturali: in altre nazioni il cittadino si identifica più facilmente con le istituzioni pubbliche e percepisce naturalmente il senso della comunità nazionale (il senso dello Stato, si suole dire). L’operatore pubblico in quei paesi è percepito come chi si occupa dell’interesse di tutti.
In Italia regna sovrana, invece, una distruttiva e sospettosa sfiducia nei confronti di chi si occupa di interessi pubblici e un atteggiamento rispetto ai professionisti della amministrazione pubblica, siano essi investigatori o meno, che un paese democratico non può più permettersi. In questa ottica lo Stato viene percepito come “altro” rispetto a noi e ciò rende più difficile realizzare le politiche che richiedono una forte coesione sociale.
È indispensabile aiutare la coscienza collettiva a provare maggiore fiducia nell’operato di chi amministra i nostri interessi, pur continuando nel contempo ad esercitare un’assoluta vigilanza affinché i valori della democrazia non siano mai messi in discussione. Tra questi due aspetti può esistere una relazione, deve esistere una relazione.
Va coltivata una cultura della sicurezza nazionale e per farlo sarebbe forse opportuno approfondire l’idea, più volte suggerita, di attivare delle apposite strutture istituzionali che si occupino di questo aspetto e che facciano diminuire la distanza tra la società e la politica, svolgendo funzioni di garanzia e di sensibilizzazione.
Intanto, mentre il dibattito tra sicurezza e privacy prosegue, persiste un pericolo che può colpire ovunque e chiunque, che non porta divise, che non ha una sede, che non ha un territorio. È un nemico senza un volto e senza nomi.
Le tecniche di indagine e gli strumenti di sicurezza preventiva adottati fino al giorno delle Torri “devono” essere adeguati e resi coerenti a questa nuova minaccia.
Qualunque sia l’approccio ideologico, bisogna essere consci che l’esigenza di raggiungere un più alto livello di sicurezza impone delle decisioni serie e serene, quelle decisioni che dovranno essere assunte con tutta la cautela che suggerisce la consapevolezza che ogni libertà che subisce un limite diventa, superata l’emergenza, una libertà da riconquistare.
Il timore, poi, che le istituzioni possano profittare dei poteri che potrebbero essere loro riconosciuti per curiosare nella vita privata di ciascuno di noi, quel timore frutto di una ideologia che ritiene la nostra amministrazione pubblica impicciona e maliziosa, va esorcizzato rammentando che il sistema democratico nel quale viviamo non tollera l’assegnazione di un potere non mediato da autorizzazioni preventive e controlli, non tollera cioè l’esercizio di un potere assoluto ed ingiustificato. In questo senso l’adozione di un qualsiasi strumento deve richiedere un’ampia condivisione di responsabilità: nulla, veramente nulla, può garantire più di questo.
Le soluzioni migliori potrebbero essere quelle che, non incidendo profondamente sui nostri diritti, siano in grado di ispirare una strategia di collaborazione tra lo Stato ed il cittadino, e quelle soluzioni che, favorendo l’espressione di tolleranza e di sostegno nei confronti di chi proviene da culture diverse e manifesta rispetto per il nostro modo di vivere, creino un circuito virtuoso che tenda ad integrare le diversità, e ad arricchirsi di queste diversità, in modo da isolare gli estremismi.
Dalla tensione tra sicurezza e privacy bisogna giungere alla “sicuracy”, ad un sistema che consenta di soddisfare entrambe le esigenze e di mediarle. La tutela della privacy resta una conquista dello Stato liberale e democratico, ma è una conquista che può essere soggetta a nuove interpretazioni congiunturali che, senza far diminuire le prerogative dell’individuo, consentano di difendere la comunità. Il nostro sistema ha già dimostrato di essere maturo al punto da assumere decisioni difficili e adottare strumenti sofisticati. Si consideri, ad esempio, la legge sui pentiti, un provvedimento nato come conseguenza di un dibattito che mise addirittura in discussione il diritto-dovere della società di perseguire i criminali pur di tutelare un bene che in quella congiuntura storica venne ritenuto superiore: il bene sicurezza.
Non è questa la sede per individuare una soluzione, ma una soluzione va individuata anche per evitare che circostanze e pressioni esterne impongano decisioni affrettate ed emotive. Ci si chieda come reagirebbe la società italiana ad un attentato terroristico in casa nostra: chiunque si potrebbe improvvisare facile profeta e prevedere clamorose richieste di misure eccezionali e la conseguente adozione di scorciatoie legislative.
Un paese democratico deve evitare di prendere decisioni sotto la spinta di pressioni criminali e deve recuperare su questi temi un momento di unità nazionale perché in ballo, in conclusione, c’è molto più di una semplice decisione tecnica: c’è da comprendere, nuovamente, l’antico rapporto tra ragioni di Stato e ragioni dell’individuo; c’è da discutere della democrazia come “pratica” e della democrazia come ideale; c’è da difendere diritti e libertà, ma anche da assumersi doveri e sacrifici; c’è da dare spazio all’idealismo, senza abbandonare un sano realismo.



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