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GNOSIS 1/2004
Medio Oriente
quale futuro oltre la road-map?


Emanuele OTTOLENGHI

Comprendere il conflitto israelo-palestinese attraverso l’analisi di tutte le possibili soluzioni, cioè capire la realtà utilizzando le previsioni di scenario: è la strategia analitica proposta dall’autore, una strategia che si rivela efficace per avere una visione più chiara e realistica dei motivi che fino ad oggi hanno impedito l’individuazione di una soluzione che tutti auspicano.


Introduzione

Cosa succederebbe il ‘giorno dopo’, se Israele e palestinesi firmassero un trattato di pace? La domanda, ad avviso di chi scrive puramente accademica all’attuale stato delle cose, merita comunque risposta: capire i limiti della diplomazia in Medio Oriente può essere ugualmente un utile esercizio per studiosi e professionisti della politica specie perché, di fronte al perdurare del conflitto, è bene saper discernere tra il desiderabile delle utopie e il possibile che emerge dalla realtà circostante. E se la politica può essere occasionalmente guidata da utopie e ideali, l’arte del possibile rimane la sua precipua sfera di competenza.
Piuttosto, quindi, che offrire una predizione che ha molto della profezia e poco della previsione di fronte a un contesto geopolitico estremamente fluido e a un conflitto con spazi di manovra per la creazione di un orizzonte politico positivo molto stretti, quest’articolo cercherà di delineare una serie di plausibili scenari di quello che accadrebbe in Medio Oriente se Israele e palestinesi raggiungessero un accordo.
Per rispondere, dunque, al quesito del ‘giorno dopo’, occorre affrontare le seguenti tematiche: prima di tutto, occorre determinare lo stato attuale del conflitto e capire quali condizioni possano favorire uno sblocco dell’attuale impasse politica. In secondo luogo, sulla base degli scenari possibili, si possono immaginare una serie di variazioni in merito ai contenuti degli accordi raggiunti. Sulla base delle condizioni regionali e della sostanza degli accordi, si possono poi delineare una serie di possibili conseguenze interne alle rispettive società, israeliana e palestinese, si possono presumere determinate dinamiche nelle relazioni bilaterali e nei rapporti interstatali regionali e tra Medioriente e Occidente. L’esercizio prevede, quindi, una valutazione del presente sulla base della quale fare alcune ipotesi di contenuti di accordi futuri. Di seguito, si ragionerà sulle conseguenze di tali accordi sulla regione, sia nel contesto locale dei rapporti tra Israele e Palestina, sia tra Israele e vicini arabi, sia tra Palestina e vicini arabi. Infine, si tracceranno alcuni possibili scenari derivanti dal raggiungimento di un accordo nel contesto dei rapporti tra Islam, mondo arabo e Occidente, in particolar modo in materia di riforme economiche, sociali e politiche e lotta al terrorismo e al fondamentalismo islamico.


PRIMA PARTE

Lo stato attuale del conflitto

I quattro anni passati sono stati difficili da interpretare per molti osservatori del conflitto tra Israele e palestinesi: com’è possibile che, un momento prima della pace, il conflitto sia riesploso in tutta la sua violenza? Questo sentimento confuso si riconosce nei titoli di libri, memorie e articoli, scritti principalmente da negoziatori israeliani e americani della diplomazia degli anni novanta, coinvolti nei processi diplomatici che condussero, infine, al Vertice di Camp David del luglio 2000, ai negoziati successivi, fino a Taba, nel gennaio del 2001 e alla formulazione e valutazione dei parametri Clinton, nel dicembre 2000: Dennis Ross e il suo libro, prossimo alle stampe, Missing Peace, Shlomo Ben Ami e la sua testimonianza So close and yet so distant, Gilead Sher e il suo libro Within reach, Robert Malley e Hussein Agha e il loro articolo sulla New York Review of Books, Camp David and the Tragedy of Errors.
Quest’interpretazione largamente condivisa, di una pace mancata per un soffio ha rafforzato la convinzione che un rinnovato sforzo diplomatico e/o addizionali concessioni possano eventualmente portare a coronamento la ricerca per la pace. Tale percezione si fonda, a sua volta, sull’ipotesi secondo cui la pace sia un interesse condiviso dalle due parti in causa, cosa che non può che condurre a un compromesso mutualmente accettabile e favorevole. La ricerca di un punto d’equilibrio sulla mappa era, quindi, prima del 2000, e rimane anche oggi, scopo precipuo della diplomazia.
Tale approccio dimentica una regola centrale alle relazioni internazionali: due parti in causa raggiungeranno un accordo soltanto ove esista una zona comune di interessi tra le rispettive posizioni. È in quella zona condivisa che si trovano le basi per un accordo.
Il problema è che, a causa della natura esistenziale del conflitto israelo-palestinese, non esiste un’area condivisa d’interessi. I negoziati di Camp David del 2000 hanno, essenzialmente, messo a nudo la distanza tra le due parti, svelando l’abisso tra le posizioni ritenute innegoziabili di palestinesi e israeliani e mostrando come sia impossibile colmare il divario tra le due posizioni. In mancanza di un dispositivo alternativo di accordo parziale e di un piano B in caso di fallimento dei negoziati, l’unica opzione rimasta è stata la guerra. Ecco perché dai negoziati del 2000 non è emerso un accordo, parziale o finale, ma il conflitto.
Quattro anni dopo riesce difficile immaginare che le sofferenze accumulate da ambo le parti possano aver, in qualche modo, ridotto le distanze, rafforzato la fiducia reciproca o creato incentivi per la cooperazione. Semmai, il golfo che separa israeliani e palestinesi si è allargato.
In queste condizioni sembra difficile che le due parti riaprano significativi negoziati: le rispettive posizioni si sono ulteriormente allontanate e si può discernere una chiara tendenza regressiva in merito ai termini che ogni parte è disposta a concedere all’altro in cambio della pace. Tali circostanze creano una situazione d’impasse che può esser superata solo alle seguenti condizioni:
• il costo dell’impasse e della guerra d’attrito che l’accompagna è più alto che il costo dei rischi legati al ritorno al tavolo dei negoziati;
• una parte è completamente sconfitta e costretta a una resa le cui condizioni sono imposte dal vincitore;
• attori esterni impongono un accordo a entrambe le parti in causa;
• le posizioni innegoziabili di entrambe le parti in causa mutano a seguito di cambiamenti nelle dinamiche del conflitto, nelle condizioni interne e regionali;
• atti unilaterali, accordi parziali bilaterali o gesti negoziati multilateralmente creano nuove condizioni sul terreno che permettono di portare a una de-escalation del conflitto e favoriscono in un momento successivo il ritorno al negoziato.
Tali cinque possibilità verranno valutate brevemente una per una.


Il prezzo è troppo alto

L’attuale conflitto rimane preferibile al negoziato fintantoché la difesa dei rispettivi interessi nazionali viene ritenuta meno costosa tramite conflitto che tramite negoziato. Tale considerazione deriva dalla relativa forza o debolezza negoziale delle rispettive posizioni. Non potendo imporre i propri interessi tramite diplomazia e mancando qualsiasi mezzo non violento per ridistribuire il relativo potere negoziale dell’avversario, la forza rimane una via preferibile nella speranza di mutare l’equilibrio di potere tra le due parti in causa. Per i palestinesi l’uso della violenza è diventata una scelta strategica preferibile al negoziato a partire dall’ottobre 2000, vista la debolezza della loro posizione negoziale e la conseguente impossibilità di costringere Israele a cedere principalmente su rifugiati e Gerusalemme, ma anche su territorio e accordi di sicurezza. Per Israele, l’uso della forza oggi rimane preferibile per costringere i palestinesi a ritornare al tavolo negoziale senza mutamento dell’equilibrio di potere a loro vantaggio.


foto ansa

Fintantoché i palestinesi esigono da Israele una presa di responsabilità esclusiva e completa per il problema dei rifugiati, un atto di scusa e la concessione di un diritto legale al ritorno, ancorché in teoria solo formale per tutti i rifugiati palestinesi e i loro discendenti, Israele non potrà che considerare i negoziati un atto futile perché lesivo dei suoi interessi vitali e riterrà la continuazione delle ostilità preferibile come situazione in cui l’uso misurato della forza contro i palestinesi potrebbe mostrare la futilità dell’Intifadah palestinese e costringere la controparte a ridimensionare le proprie richieste. L’uso di uccisioni mirate, raid costanti e la costruzione della barriera di difesa sono intese come meccanismo di dissuasione a continuare il terrorismo: solo desistendo dalla violenza i palestinesi possono sperare di ottenere parte di quello che richiedono da Israele.
Peraltro, fintantoché Israele insiste a controllare ampie aree di Cisgiordania e Gaza e mantenere parte degli insediamenti sotto la propria sovranità, i palestinesi difficilmente torneranno al negoziato, convinti come sono che l’uso continuato della violenza finirà per sfibrare la società israeliana, producendo le concessioni territoriali ritenute come condizione accettabile minima in cambio della fine delle ostilità.
In questo senso, la violenza va compresa come uno strumento razionale utilizzato come meccanismo di pressione sull’avversario per indurre una “riduzione” del prezzo del negoziato. A meno che, dunque, le richieste di ogni parte nei confronti dell’altra si riducano per cause esterne e indipendenti, nessuno dei due troverà alcun vantaggio a tornare allo status quo ante e continuerà a preferire atti unilaterali ai negoziati.


Uno vince, l’altro è sconfitto

Se Israele ottenesse una chiara vittoria militare sul campo, sconfiggendo i palestinesi e costringendoli alla resa, allora potrebbe dettarne i termini, imponendo un accordo che soddisfi i suoi interessi nazionali. Lo stesso si può dire dei palestinesi, se potessero sconfiggere Israele. Tuttavia una vittoria, israeliana o palestinese, appare improbabile, nonostante la vasta disparità di forza di fuoco e le differenti tattiche utilizzate, guerra asimmetrica per i palestinesi e operazioni anti-terrorismo, guerra urbana e tattiche antinsurrezionali da parte di Israele.
Mancando la vittoria totale che Israele o i palestinesi potrebbero ottenere e che difficilmente la comunità internazionale sarebbe disposta a permettere, il conflitto si protrarrà fino al momento in cui l’impasse diventerà troppo cara, per una delle parti in causa o per entrambe. Quanto tempo questo richieda è difficile a dirsi, specialmente a causa dell’alto livello di tolleranza al dolore che entrambe le società hanno dimostrato di avere.


Un accordo viene imposto dall’esterno

Se nessuno dei due può vincere, nessuno dei due è disposto a fare ulteriori concessioni e nessuno dei due è disposto a metter fine alla violenza, la comunità internazionale potrebbe decidere di intervenire imponendo un accordo simile ai termini oggi generalmente riconosciuti come realisti e accettabili, ovvero grosso modo la soluzione dei due stati per due popoli delineata dai Parametri Clinton del dicembre 2000.
Questa, però, non è un’alternativa realistica. Da dicembre 2000 a oggi la volontà di entrambe le parti di accettare i parametri Clinton si è ridotta a causa dell’impatto di quasi quattro anni di conflitto, con la conseguente perdita di fiducia reciproca e le recriminazioni accumulatesi nel corso del conflitto. Come dimostrano altre esperienze (Bosnia e Kosovo per esempio), accordi imposti a recalcitranti parti in conflitto possono resistere solo a prezzo di una prolungata presenza internazionale sul terreno e, comunque, non senza cooperazione attiva delle parti in causa. Nessuna di queste condizioni appare probabile al momento. Un intervento internazionale, la cooperazione delle parti e la mediazione esterna potrebbero funzionare solo se le due parti in causa avessero già riconosciuto in precedenza la necessità e il vantaggio di cambiare direzione. È solo a quel momento che un ruolo costruttivo potrebbe essere assunto dalla comunità internazionale per mediare, facilitare o attuare meccanismi di monitoraggio e implementazione di accordi di pace.


Shift in each side’s red lines

La possibilità di un cambio di percezione dei rispettivi interessi nazionali e vitali, le cosiddette linee rosse innegoziabili, non è da escludere, ma tale cambiamento sarebbe inevitabilmente lento e incrementale, spesso causato da fattori esterni e fuori del controllo delle parti in causa. La morte di Yasser Arafat, il cui ruolo cruciale nell’attuale Intifadah è ormai riconosciuto dalla comunità internazionale, potrebbe cambiare le regole del gioco. La guerra in Iraq ha ridotto la possibilità di un attacco convenzionale contro Israele proveniente da est a tal punto da causare una rivoluzionaria revisione della dottrina militare israeliana e della sua posizione difensiva nella Valle del Giordano.
Gli ultimi quattro anni poi hanno prodotto un profondo riallineamento di forze politiche israeliane, spingendo l’opinione pubblica, in larga parte, a rivedere le proprie posizioni in tema di insediamenti, territori e creazione di uno stato palestinese. Tuttavia, il collasso di fiducia israeliana nell’esistenza e credibilità di un partner palestinese e la percezione israeliana del conflitto come uno scontro esistenziale, non territoriale, ha sostanzialmente squalificato l’attuale dirigenza palestinese agli occhi israeliani e ha distrutto anche la credibilità di quelle forze politiche israeliane ancora disponibili a dialogare con i leader palestinesi secondo i parametri di un processo diplomatico simile a quello di Oslo, naufragato nell’autunno del 2000. Se un simile sviluppo avvenisse tra i palestinesi, con un riconoscimento della futilità della violenza contro obiettivi civili israeliani, l’introduzione di un efficace e duraturo cessate-il-fuoco e la disponibilità a rinunciare alle richieste riguardanti la questione rifugiati, allora la possibilità di un accordo ritornerebbe in auge. Ma questi sviluppi, sul fronte palestinese, dipendono da un profondo cambiamento nell’identità e nella narrativa storica palestinese, oltre che l’efficace ed effettiva riaffermazione di autorità politica, militare e di sicurezza di un’autorità centrale e riconosciuta nei territori palestinesi che possa riportare l’ordine, esautorando i vari gruppi armati e i signori della guerra locali che ormai si sono impadroniti del potere.


Azioni unilaterali, bilaterali o multilaterali mirate ad una riduzione d’intensità del conflitto e delle tensioni

In mancanza di fiducia reciproca e incentivi a tornare ai negoziati, le due parti in causa possono cionondimeno cercare di modificare le condizioni sul terreno in modo favorevole ad entrambi. Anche se unilateralmente prese, tali mosse possono contribuire a ridurre d’intensità il conflitto, limitando i punti di frizione. L’attuale piano israeliano di disimpegno da Gaza va letto in questo senso. Israele considera il disimpegno preferibile ai negoziati (che considera attualmente futili, vedi sopra), e alla continuazione dello status quo (che ritiene dannoso ai propri interessi nazionali nel lungo periodo per il rischio che esso porti a un intervento esterno, quasi sicuramente sfavorevole a Israele).
Il piano israeliano comporta misure che potrebbero beneficiare (o almeno non danneggiare) la controparte palestinese, visto che Israele cederebbe territorio rivendicato dai palestinesi senza contropartita. La rimozione di presenza militare e civile israeliana da Gaza ridurrebbe, inoltre, la pressione sulla popolazione palestinese, creando le condizioni per la riduzione delle tensioni sul terreno. Senza compromettere i propri interessi nazionali, i palestinesi possono scegliere di ignorare, ostacolare o favorire il piano israeliano. Un impegno attivo, favorito da un coordinamento tra le parti per un’attuazione del piano in ogni sua fase e dall’intervento e aiuto attivo di terzi, potrebbe trasformare una misura unilaterale in un’opportunità di modificare lo status quo.


Conclusione

Nelle attuali circostanze, nonostante i frequenti riferimenti al ‘processo di pace in Medio Oriente’ e la vasta gamma di documenti e iniziative di pace, ufficiali e non, in circolazione, la situazione è sostanzialmente, come appena descritto, di impasse. La terminologia ‘processo di pace in Medio Oriente’ è fallace, sia perché la regione e i suoi problemi son ben più estesi del localizzato e contenuto conflitto tra Israele e palestinesi, sia perché le altre problematiche regionali sono altrettanto difficili da risolvere e foriere di instabilità e sia perché nel contesto locale israelo-palestinese non esiste né pace né processo.
Date le circostanze, la diplomazia internazionale dovrebbe ridurre le proprie aspettative e fissare dei traguardi meno ambiziosi ma più realistici, capendo che alla pace, attualmente irraggiungibile, ci sono alcune opzioni alternative a disposizione, tutte preferibili alla continuazione del conflitto e più realistiche della chimera della pace.


SECONDA PARTE

Il giorno dopo, quale pace?

Si supponga, nonostante quanto detto finora, che le circostanze siano cambiate e pressioni internazionali esterne, o una vittoria totale d’Israele, o un collasso della società e dell’economia israeliana, o una decisione dell’Autorità Palestinese di adempiere ai suoi doveri secondo la roadmap, portino alla firma di accordi di pace. Per delineare scenari plausibili del giorno dopo occorre porsi una serie di domande: prima di tutto, la natura dell’accordo, che varierà a seconda che l’esito del conflitto sia una vittoria, un pareggio o una sconfitta. Nel caso di vittoria/sconfitta (israeliana o palestinese) emergerebbe un accordo che tiene conto principalmente delle esigenze del vincitore, lasciando uno sconfitto indebolito e alla mercè della parte avversa e della sua generosità. Tuttavia, anche qui si delineano due scenari molto diversi, che derivano dalla fondamentale asimmetria del conflitto, quando esso sia visto all’interno del più vasto contesto regionale. Su questo si ritornerà tra breve.
In caso di pareggio, o meglio di continuazione ad oltranza della situazione attuale, si delinea, invece, un intervento esterno, con un accordo probabilmente imposto da una combinazione di mediazione e pressione americane, interferenza dell’ONU, incentivi e sanzioni economiche europee ed arabe e presenza di vario tipo di osservatori, forze di pace, forze di interposizione, regimi transitori, amministrazioni internazionali, regimi fiduciari. Occorre, dunque, valutare i tre possibili accordi che scaturirebbero dalle situazioni di vittoria, pareggio e sconfitta per poter capire le dinamiche possibili del giorno dopo. In aggiunta a tali differenti esiti, occorre prendere in considerazione le possibili e diverse reazioni e risposte date agli accordi dalle parti in causa, cioè i diretti interessati israeliani e palestinesi e dal mondo circostante, cioè il mondo arabo. Tali reazioni, per altro, saranno differenziate non solo nella sostanza che varierà a seconda della natura degli accordi, ma anche varieranno nei confronti di Israele, palestinesi, Europa e Stati Uniti.


L’asimmetria del conflitto

Prima di affrontare i temi testè sollevati occorre fare una premessa, cioè notare come esista una profonda e durevole asimmetria nel conflitto, sia a livello localizzato che regionale, tra parte israeliana e parte arabo-palestinese. Tale asimmetria ha e continuerà ad avere un ruolo fondamentale sia nel dipanarsi del conflitto che nei possibili scenari del ‘giorno dopo’. Per asimmetria si intende la seguente condizione: Israele nel corso dell’evolversi degli eventi ha sempre di più riconosciuto non solo l’inevitabilità di fatto della nascita in futuro di uno stato palestinese, ma anche la legittimità di principio delle rivendicazioni palestinesi. Tale riconoscimento, che non deriva più, quindi, dalla combinazione di pragmatico realismo e da una constatazione di un fatto che non si può cancellare o alterare, ma anche da un riconoscimento della validità morale della posizione palestinese, si è gradualmente esteso alla società israeliana, coinvolgendo oggi ormai quasi l’intera società israeliana, a esclusione dell’estrema destra, creando un consenso che va dalla sinistra radicale, pronta persino a rinunciare al sionismo e al carattere ebraico dello stato, alla destra moderata e pragmatica. Il quid del dibattito israeliano, insomma, è quante concessioni fare ai palestinesi su un territorio che, se anche gli israeliani rivendicano da sempre come loro, essi oramai vedono anche come legittimamente dei palestinesi.
Ma se tale riconoscimento della validità morale, oltre che dell’ineluttabilità fattuale, delle rivendicazioni palestinesi, è avvenuto all’interno della società israeliana, altrettanto non si può dire per quella palestinese o per il mondo arabo. Esiste il riconoscimento dell’irreversibilità della presenza d’Israele nella regione, riconoscimento derivato dalla constatazione della superiorità militare, tecnologica ed economica d’Israele rispetto al mondo arabo. Ma l’accettazione d’Israele come fatto non si associa con il riconoscimento d’Israele come diritto del popolo ebraico a uno stato: insomma, manca a tutt’oggi un riconoscimento della validità delle rivendicazioni nazionali ebraiche, cioè il mondo arabo accetta l’esistenza d’Israele ma non il suo diritto all’esistenza. Tale asimmetria ha importanti ripercussioni sia sul conflitto che, in caso di accordo, su un futuro di pace della regione. Innanzitutto, mancando il riconoscimento al diritto d’Israele ad esistere ed essendo, quindi, la pace predicata sulla superiorità israeliana, Israele non si può mai permettere di trovarsi in una situazione in cui il mondo arabo lo percepisca debole. Se il mondo arabo ritenesse infatti di aver raggiunto una parità o una superiorità strategica rispetto a Israele le conseguenze sarebbero di un rinnovo del conflitto a livello non solo locale ma anche regionale. Israele quindi non può permettersi di accedere ad alcun tipo di accordo che ne comprometta la superiorità strategica né può accettare un accordo che accresca le potenzialità offensive dei suoi avversari. Né può permettersi di perdere.
D’altro canto, e questo è l’altro importante elemento dell’asimmetria, mentre Israele conta su sei milioni e mezzo di abitanti che, con le spalle al mare, godono di crescita demografica ridotta anche grazie al tenore di vita piuttosto alto, il mondo arabo conta di quasi trecento milioni di abitanti, in continua espansione numerica e con tenori di vita in calo costante per le avverse condizioni economiche, le sperequazioni sociali, la mancanza di libertà e la discriminazione contro donne e minoranze etniche e religiose. Il problema, quindi, non si limita a un riconoscimento dei diritti a senso unico, ma anche a un equilibrio di forze, da un punto di vista demografico, di profondità strategica e dal punto di vista di un retroterra disposto a sostenere la causa, che mette Israele in stato di netto svantaggio. Visto che il tempo gioca a sfavore d’Israele, tale aspetto dell’asimmetria del conflitto consiglia a Israele rischi calcolati per soddisfare per quanto possibile, e senza mettere in pericolo gli interessi vitali del paese, le richieste della controparte, proprio perché a lungo andare tale disequilibrio tenderà ad accentuarsi in maniera sfavorevole. Lo stesso non si può dire della controparte palestinese e araba, che in nessun caso, proprio in virtù dell’asimmetria citata, ritiene di dover fare concessioni di alcun tipo, anche in caso di sconfitta totale come si è verificato dal 1948 a oggi. In altre parole, in caso di vittoria israeliana ci si può comunque aspettare una maggior magnanimità e considerazione delle esigenze del nemico, sia per quel riconoscimento morale di cui si diceva prima (perché è giusto), sia per un calcolo d’interesse personale (perché mi conviene). In caso di vittoria palestinese vale, invece, il contrario: la sopravvivenza fisica d’Israele sarebbe in gioco, quella dei suoi abitanti sarebbe già una generosa concessione.


Vittoria/Sconfitta

Fatta, dunque, la dovuta premessa si osservano ora i due scenari di vittoria/sconfitta e il tipo di pace che emergerebbe il giorno dopo la firma di un accordo. Nel caso di una vittoria israeliana, allo stato attuale delle cose, ci si può aspettare un assetto futuro in cui Israele manterrebbe il controllo di parte della Cisgiordania, lungo la vecchia linea del cessate il fuoco del 1949 (la cosiddetta linea verde), annettendosi circa il 10-15% della Cisgiordania e parte della zona orientale di Gerusalemme. Israele imporrebbe, inoltre, limiti alla sovranità palestinese in tema di sicurezza (controllo degli spazi aerei, controllo delle frontiere e demilitarizzazione), tutte misure che lascerebbero, insieme alla sconfitta, un profondo senso d’umiliazione e sentimento revanscista tra i palestinesi e il mondo arabo.
La sconfitta porterebbe a un protratto periodo di instabilità interna tra i palestinesi, dove le varie fazioni si scontrerebbero per l’assunzione del potere interno, e visto il sentimento revanscista dominante, avrebbero miglior gioco senz’altro i gruppi non compromessi con la sconfitta e animati dalla posizione più radicale rispetto a Israele. Il terrorismo non cesserebbe e, vista l’instabilità interna e regionale derivata dall’accordo e la delegittimazione della dirigenza implicata nella sconfitta e nel trattato di pace (resa), il regime palestinese sarebbe estremamente debole, preso come sarebbe tra l’incudine israeliana e il martello del radicalismo palestinese. Tra l’altro, all’umiliazione si unirebbe la pressione esterna dei rifugiati, la cui speranza di ritorno in Israele sarebbe ora perduta, con la conseguenza che il neonato stato palestinese dovrebbe sobbarcarsi il compito, dipendente finanziariamente dalla generosità internazionale, di assorbire decine, forse centinaia di migliaia di rifugiati animati da un sentimento ostile e ribelle verso la dirigenza responsabile del loro rientro e della loro integrazione a causa di un accordo i cui termini sarebbero percepiti come un tradimento della causa nazionale.
Il clima generale che emergerebbe da una simile situazione sarebbe poi avvelenato da un mondo arabo ulteriormente umiliato dalla debolezza palestinese e dall’ennesima sconfitta subita da Israele, dove il sentimento ostile verso lo stato ebraico e l’Occidente che non ha impedito l’ennesima débacle araba, si tradurrebbe sia in un rifiuto di normalizzazione dei rapporti con Israele che in un acuirsi del sentimento antioccidentale. Le conseguenze economiche sarebbero quindi negative, sia per la regione, che per il contesto locale, almeno per quanto consta i palestinesi. La massiccia iniezione di aiuti economici che ci si può aspettare in ogni caso dall’Europa non solo non garantirà sviluppo e prosperità a breve, ma ci si può aspettare, come è già avvenuto in passato, che il regime palestinese non sarà né trasparente né parsimonioso. Tra l’altro, in tema economico, se l’esito dell’attuale situazione fosse una vittoria d’Israele ottenuta attraverso la costruzione della barriera difensiva e le operazioni antiterroristiche, non c’è da aspettarsi nel breve periodo, in presenza di un sentimento revanscista palestinese e un regime debole a contrastarlo, che Israele apra le porte della sua economia ai palestinesi. Tutt’altro, è più ragionevole aspettarsi di vedere una continuazione del trend economico già visto nei quattro anni passati, con una sempre più rapida sostituzione dei lavoratori palestinesi nei settori agricoli, manifatturieri ed edilizi con lavoratori stranieri, con una riduzione della cooperazione economica, e con la graduale chiusura delle joint ventures nelle zone frontaliere. La debolezza politica del regime palestinese sarebbe, dunque, aggravata dalla sua debolezza economica.
Viste le condizioni generali nel mondo arabo e viste le premesse economiche, politiche e geopolitiche, su cui si fonderebbe lo stato palestinese in questo scenario, non ci si può aspettare una primavera democratica, ma più probabilmente un regime autoritario, in grado di sostenere le sfide interne ed esterne solo col pugno di ferro. La fragilità del regime, la debolezza e mancanza di legittimità e credibilità interna ripeteranno, dunque, per la Palestina l’esperienza politica di tutti i regimi arabi della regione, destinati a sopravvivere governando coi servizi segreti, l’esercito e il monopolio delle risorse economiche in un’atmosfera statalista e corrotta che scoraggerà la libertà, l’iniziativa privata e l’investimento straniero. La Palestina, quando non sarà impegnata a recriminare contro Israele, a giocare col fuoco revanscista o a questuare i vicini arabi ed europei per aiuti, dovrà trovare il modo di tenere unite due realtà territoriali, una Gaza litoranea ma sovrappopolata e povera con forti legami con l’Egitto e una Cisgiordania ridotta con più risorse agricole e meno popolazione ma legami, sempre più tenui e comunque ambigui, con il regno di Giordania. E quando si guarda quella mappa, in qualunque formato la si guardi e ovunque alla fine passerà il confine, è difficile guardarla e non pensare a Pakistan e Bangladesh.
Israele certo avrebbe, quindi, interesse a concedere più di quanto dovrebbe, vista la vittoria in una guerra scatenata dai palestinesi, ma ci sarebbero forti incentivi a non rischiare, almeno nel breve periodo, visto l’altissimo grado di instabilità che lo stato palestinese si troverebbe ad attraversare e visti i magri dividendi diplomatici, economici e politici che Israele otterrebbe nella regione in cambio della sua vittoria.
Completamente diverso, per Israele almeno, il discorso se Israele si trovasse a essere sconfitto: la sconfitta non sarebbe propriamente militare, nel senso di un’invasione, data la strategia adottata dai palestinesi, strategia che, prediligendo il terrorismo, mira al collasso psicologico della società israeliana, distruggendone cioè la volontà di resistergli. Il crollo psicologico e il possibile crack economico (peraltro sempre meno plausibili dopo quattro anni di Intifadah, mentre è sempre più plausibile lo scenario contrario, del collasso palestinese) costringerebbero Israele ad accettare le condizioni palestinesi in termini di confini, di cessione sui simboli religiosi a Gerusalemme, di accordi di sicurezza che probabilmente costerebbero a Israele la perdita dell’opzione nucleare e garantirebbero uno stato palestinese militarizzato, ma soprattutto Israele dovrebbe pagare un prezzo altissimo accollandosi una responsabilità esclusiva sul problema dei profughi, con le allegate conseguenze giuridiche (influsso di almeno un milione e fino a quattro milioni di rifugiati palestinesi) ed economiche (pagamento di compensi pecuniari per proprietà perse, più riparazioni di guerra che alcuni portavoce palestinesi hanno fantasiosamente quantificato, di recente, in 500 miliardi di dollari americani). In pratica, la sconfitta israeliana porterebbe alla rovina economica e al declino generale di Israele perché non soltanto comporterebbe la fine della sua superiorità strategica nella regione ma, attraverso l’influsso dei rifugiati, porrebbe per sempre fine al carattere ebraico d’Israele. Nel giro di una generazione si può prospettare l’unificazione dei due stati in un unico stato di Grande Palestina, e la riduzione degli ebrei rimasti a status di minoranza, più o meno protetta, status simile a quello ‘garantito’ negli altri paesi arabi ad altre minoranze non mussulmane, non sunnite o non arabe, come i curdi, gli sciiti, i copti e le altre denominazioni cristiane, i neri in Sudan e i berberi nell’Africa del Nord.
Ma una sconfitta israeliana non sarebbe solo devastante per Israele, sarebbe deleteria per la regione: una vittoria dell’Intifadah non solo imbaldanzirebbe l’estremismo, il fondamentalismo islamico e le forze antimoderne della regione contro ulteriori presenze occidentali - in primo luogo gli americani il cui prestigio in caso di sconfitta del loro alleato più prezioso e fidato sarebbe gravemente danneggiata - ma si rivolterebbe anche contro i regimi. In primo luogo uno stato palestinese militarizzato e comunque dedito ad accogliere rapidamente milioni di rifugiati costituirebbe prima di tutto un pericolo per la stabilità del regime hascemita limitrofo, la cui egemonia beduina su una popolazione principalmente palestinese verrebbe messa quasi certamente in crisi dalla bellicosità del nuovo vicino in Cisgiordania.
A livello regionale, la fine del conflitto che da mezzo secolo i regimi usano come scusa per non cambiare l’ordine politico ed economico interno lascerebbe i regimi a loro volta tra l’incudine dei gruppi estremisti e terroristici che li accuserebbero di non aver aiutato i palestinesi abbastanza, di esser stati in combutta coi sionisti e l’imperialismo americano e di dover ora pagare un tributo di sangue al solitario eroismo palestinese dei martiri, e il martello dei riformisti modernizzatori che sosterrebbero come ora non ci siano più scuse per ritardare i processi di emancipazione, democratizzazione, liberalizzazione della politica e dell’economia. In tutti i sovracitati casi, sarebbe un bagno di sangue, in Palestina in primo luogo, dove quel che rimarrebbe d’Israele utilizzerebbe le rimaste risorse economiche e militari per constrastare il crescente disequilibrio tra ebrei e arabi causato dal mutato scenario demografico provocato dall’arrivo dei profughi. In uno stato sempre più binazionale (in attesa di un’annessione) gli ebrei cercherebbero di mantenere il controllo di economia ed esercito, mentre i palestinesi si avvarrebbero della superiorità numerica per prendere il controllo delle istituzioni. Il risultato sarebbe una guerra civile in stile bosniaco, a cui farebbe seguito un clima generale d’instabilità regionale.
L’eventuale presenza di forze internazionali a garanzia della stabilità e degli accordi non gioverebbe perché esse si troverebbero ben presto prese tra due fuochi. Alla lunga questo porterebbe al probabile ritiro di truppe occidentali, e non è da escludere il collasso dei regimi filo-occidentali, la resa dei conti interna tra regimi e società civili e tra forze contrapposte all’interno della società civile, con il sotteso impatto economico anche per l’Occidente che si farà sentire soprattutto sul prezzo del petrolio, quindi su tutta l’economia globale.
Una vittoria palestinese sarebbe, insomma, un disastro non solo per Israele ma anche per la stabilità regionale e per i regimi che, bene o male, la garantiscono anche grazie alla scusa cui possono ricorrere del perdurare del conflitto che impedisce loro di aprire alla società civile. Vincerebbero con tutta probabilità i fondamentalisti, che a parte l’Iraq e in misura minore in Libano, sono l’unica forza politica organizzata di tutto il mondo arabo, a parte naturalmente i regimi.


Pareggio

I due scenari testè descritti sono naturalmente portati all’estremo, ma l’esercizio intellettuale è comunque utile per sottolineare come una vittoria totale, israeliana o palestinese che sia, non giovi a nessuno: né ai contendenti, né alla regione, né all’Occidente. Occorre puntare su una situazione intermedia, di pareggio, o di vittoria ai punti, che porti all’esaurimento del vantaggio percepito nella continuazione delle ostilità e induca le parti a tornare sui loro passi. In questo senso, esiste un consenso nella comunità diplomatica occidentale sulla natura della soluzione, anche se vi sono importanti variazioni. In caso di un ritorno al negoziato esistono, sostanzialmente, due scuole di pensiero: la prima sostiene che occorra tornare ai parametri Clinton, la seconda ritiene che occorra tornare ai negoziati di Taba del gennaio 2001, e da lì ripartire per risolvere le rimanenti divergenze che ancora esistevano a Taba (Taba-plus). Sottostante a questa seconda scuola è l’aspettativa che sia Israele a fare ulteriori concessioni.
Esistono seri problemi con queste due scuole di pensiero: primo, i parametri Clinton sono stati rifiutati dalla dirigenza palestinese; secondo, i negoziati di Taba si sono spinti oltre le linee rosse israeliane e, ciononostante, non hanno soddisfatto le richieste minime palestinesi. Anche presumendo che un ritorno al negoziato possa ignorare l’impatto psicologico e le conseguenze materiali di quattro anni di conflitto a bassa intensità sui contendenti, rimane che Clinton non andava bene ai palestinesi, Taba-plus non andrebbe bene agli israeliani. In situazione di pareggio, quindi, un accordo esisterebbe solo in virtù di un’imposizione di termini di pace dall’esterno. In caso di vittoria ai punti israeliana, ci si rifarebbe a una versione probabilmente ridimensionata dei parametri, in caso di vittoria ai punti palestinese a Taba-plus.


I parametri Clinton

Nel primo caso, di vittoria ai punti israeliana, ci si può aspettare un accordo che conceda ai palestinesi il 95-97% della Cisgiordania, la Striscia di Gaza e parte della sezione orientale di Gerusalemme. Lo stato palestinese sarebbe demilitarizzato. Israele manterrebbe delle basi militari all’interno della Cisgiordania e ci sarebbe un ruolo attivo per osservatori militari ai confini palestinesi per garanzia degli accordi, specie per la parte concernente la sicurezza. Il futuro Stato palestinese avrebbe piena sovranità in termini di ritorno dei rifugiati - non ci sarebbero quindi limiti di alcun tipo - ma il numero di rifugiati che Israele accoglierebbe - come gesto umanitario, non come conseguenza di una presunta responsabilità che Israele non si prenderebbe - sarebbe nell’ordine delle migliaia, su un periodo esteso di dieci-quindici anni. Ai rifugiati verrebbe offerta la possibilità anche di trasferirsi in paesi terzi, e tali numeri, insieme agli strumenti finanziari per favorire il successo dell’accordo sui rifugiati sarebbero determinati da un consorzio internazionale a cui contribuirebbero paesi europei, Giappone, Canada, Stati Uniti e paesi arabi. Israele offrirebbe un contributo, ma la questione rifugiati dovrebbe comunque includere i rifugiati ebrei espulsi dai paesi arabi tra il 1948 e il 1967. Su Gerusalemme ci sarebbe un meccanismo di condominio sulla Città Vecchia, dove si trovano i luoghi santi a cristiani, ebrei, e mussulmani.
Tale insieme di misure, che la dirigenza palestinese ha rifiutato quattro anni orsono, costituisce comunque, anche in caso di accordo, un’umiliazione per i palestinesi e per il mondo arabo. Anche se le conseguenze di tale accordo sarebbero meno gravi che nel caso di una vittoria totale israeliana, occorre comunque rassegnarsi al fatto che il ‘giorno dopo’ non porterà a una rivoluzione nei rapporti tra Israele e suoi vicini con effetti benefici per la regione e per i rapporti tra Occidente e mondo arabo.
Si tratterà, piuttosto, di una pace fredda, simile a quella tra Egitto e Israele, dove interessi concreti e realismo prevarranno forse, almeno tra i paesi arabi meno ideologicamente dediti o geograficamente più remoti alla causa palestinese (Nord Africa, paesi del Golfo), ma non vi sarà un disgelo seguito da turismo, cooperazione culturale e, soprattutto, non ci sarà quel movimento verso un’integrazione economica da tanti auspicata. Sarà una pace tra leader, dettata da una realpolitik priva di sentimenti e buoni propositi, cui la maggior parte della società araba, ancora oggi fortemente conformista e guidata da una reazionaria nostalgia per il panarabismo, non aderirà. La paura di un’egemonia economica israeliana, unita al sentimento di inferiorità militare, all’umiliazione derivata da un accordo che sembrerà sostanzialmente una sconfitta, creerà una situazione di non-guerra, ma non ne ridurrà, nel lungo termine, il pericolo, visto che il revanscismo rimarrà, e che un accordo di tal genere creerà molto malcontento nell’opinione pubblica e un motivo in più di risentimento verso la dirigenza e le élite per aver ceduto al nemico sionista.


Taba-plus

Diverso lo scenario del ‘giorno dopo’ se derivasse da una vittoria ai punti palestinese. Israele sarebbe costretto ad accettare un accordo che partisse da quanto già concesso dalla delegazione israeliana a Taba - e questo nonostante la mancanza di una legittimità politica di quella delegazione, visto che rappresentava un governo dimissionario e minoritario a due settimane dalle elezioni. I palestinesi richiederebbero maggiori concessioni su Gerusalemme, sui rifugiati e sul territorio. Israele dovrebbe rinunciare a quasi tutti gli insediamenti, con l’eccezione del Blocco Etzion a sud di Gerusalemme, forse Ma’aleh Adumim a est della capitale, e alcuni altri piccoli insediamenti lungo la linea verde. Tali concessioni territoriali palestinesi richiederebbero peraltro una ratio di 1:1, con la conseguenza che Israele dovrebbe cedere territorio, probabilmente attorno a Gaza e nel sud della Galilea e nella zona di Tulkarem.
Israele dovrebbe pagare la maggior parte del ‘conto’ dei rifugiati, assorbendone tra 500.000 e un milione. Inoltre Israele, dovendo rinunciare alla maggior parte degli insediamenti nei territori, dovrebbe evacuare circa 180-200.000 coloni, offrendo loro i compensi finanziari e le alternative residenziali all’interno del paese. Le conseguenze economiche e sociali di queste due condizioni sarebbero, per Israele, catastrofiche nel breve periodo perché non potrebbero essere attuate senza il rischio di fortissimi tensioni interne, compreso il rischio di violenza estesa sia nel processo di evacuazione dei coloni che nel processo di assorbimento forzato dei rifugiati palestinesi.
La rinuncia a una sovranità israeliana, ancorché parziale, sui luoghi più sacri all’ebraismo - non solo nella Città Vecchia di Gerusalemme ma anche a Hebron, Betlemme e Nablus - causerebbe ulteriori tensioni interne e delegittimerebbe fortemente l’accordo nel settore religioso e tradizionale del paese - la maggioranza del pubblico ebraico israeliano.
Nel lungo periodo poi, i trend demografici interni, aggravati dall’influsso di centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi e dai costi economici e sociali imposti a Israele per far fronte alle condizioni dell’accordo, porterebbero a uno scenario simile a quello descritto in precedenza, dove la pressione su Israele a rinunciare al suo carattere ebraico e diventare uno stato binazionale diventerebbe insostenibile. I rischi sarebbero, dunque, gli stessi, anche se i tempi potrebbero variare.
Un accordo più vicino alle esigenze dei palestinesi che a quelle israeliane d’altro canto avrebbe un effetto positivo sul mondo arabo nei suoi rapporti con Israele. Un Israele dimezzato e impoverito, il cui potenziale economico e militare non costituisse più una minaccia al mondo arabo ne ammorbidirebbe le posizioni, specie se venisse meno anche il carattere ebraico dello stato. Tuttavia, non ne consegue che l’estremismo che domina la regione ne uscirebbe indebolito. Oggi Israele funge da specchietto per le allodole: distrae e distoglie la rabbia che attraversa il Medio Oriente, dirigendole e concentrandole sul conflitto arabo-israeliano e sugli alleati, veri o putativi, di Israele. Una volta rimosso il capro espiatorio, però, non ne discende automaticamente che se ne rimuoverebbero anche le cause genuine. Privati della scusa del nemico sionista, i regimi arabi rivelerebbero la loro fragilità e le contraddizioni della regione verrebbero a galla: lungi dall’offrire stabilità, una tale risoluzione preluderebbe a un nuovo round di violenza tra ebrei e palestinesi che sarebbe, comunque, preceduta da una profonda e protratta instabilità regionale. Inoltre, e contrariamente a quanto comunemente creduto in Occidente, la risoluzione del conflitto arabo-israeliano secondo i termini preferiti dai palestinesi non porterebbe a una riduzione del risentimento antioccidentale in Medio Oriente.



foto ansa

Tutt’altro: mentre nel caso di vittoria israeliana l’odio continuerebbe a cagione dell’esito umiliante della pace, nel caso di vittoria palestinese l’odio crescerebbe anche se per ragioni diverse: infatti, mentre oggi parte del sentimento antioccidentale è convogliato in energie, mezzi e attenzione mediatica al conflitto israelo-palestinese, la rimozione del capro espiatorio porterebbe quel sentimento a concentrarsi su l'Occidente. Se oggi e Israele a subire la maggior parte degli attacchi terroristici e della rabbia retorica, mediatica e ideologica antioccidentale in Medio Oriente - risparmiando così in parte Europa e meno l’America - tutto quell’odio si concentrerebbe su europei e americani una volta che Israele non rappresentasse più una minaccia o un pericolo.


Accordo imposto da terzi

Rimane da considerare la possibilità di un accordo imposto dall’esterno che non soddisfi né gli uni né gli altri ma che, viste le circostanze, nessuna delle due parti in causa può permettersi di rifiutare. Anche se i dettagli di questo tipo di accordo sono meno importanti che nei due casi precedenti, a seconda dell’identità dei terzi coinvolti si possono azzardare dei contenuti: laddove il ruolo americano fosse predominante, è plausibile aspettarsi una versione ridotta dei parametri Clinton, che seguisse gli impegni forniti dall’amministrazione Bush (e riconfermati dal candidato democratico Kerry) al primo ministro israeliano Ariel Sharon il 14 aprile 2004. Se, viceversa, il ruolo predominante venisse assunto dall’Unione Europea e/o dall’ONU - e la cosa sembra realistica solo nel caso di un collasso americano nella regione a seguito di un improbabile fallimento dell’impresa irachena - sarebbe più probabile attendersi un esito più simile a Taba-plus.
In altre parole, in qualsiasi scenario si prospetti, il ‘giorno dopo’ offrirebbe poche variazioni, sia che sia il risultato di vittoria o sconfitta di una delle parti, sia che sia il prodotto di forti interferenze e pressioni esterne. Ma gli scenari previsti, di sostanziale instabilità prolungata con possibilità di ritorno a una situazione di aperto conflitto, rimangono comunque.


Conclusione

Il conflitto arabo-israeliano rimane, a tutt’oggi, lungi dall’essere risolto. Il perdurare del conflitto non è dovuto alla mancanza di sforzi diplomatici - l’attuale fase di violenza è scaturita dal più intenso e costruttivo intervento diplomatico prolungato dell’unico superpotere rimasto al mondo, intervento sfociato nel fallimento più totale. La diplomazia ha semmai messo a nudo l’impossibilità di una soluzione. Né si può attribuire la colpa della violenza a una parte soltanto: entrambe difendono quanto ritengono essere i loro rispettivi interessi nazionali all’interno di un complesso sistema regionale che è tanto instabile quanto ostile. L’unica predizione, quindi, plausibile e ragionevole, nel breve periodo, è di una continuazione, forse attenuata, del conflitto a cui ci si è ormai abituati negli ultimi quattro anni.
Il disimpegno israeliano da Gaza, il completamento della costruzione della barriera difensiva israeliana e la sostanziale sconfitta delle forze estremiste palestinesi da parte israeliana nello scontro diretto rappresentano tutti sviluppi a favore d’Israele, ma non sono sufficienti a produrre una vittoria totale. Permettono invece a Israele di ottenere un miglior posizionamento per la continuazione di un conflitto a bassa intensità, dove si alterneranno periodi di guerra fredda a periodi d’improvvisa recrudescenza. La regione non si presta a favorire un disimpegno e un accordo, perché ha da perdere sia dalla continuazione del conflitto che dalla sua fine, ma probabilmente chi comanda, come chi ubbidisce, perderebbe di più dalla fine del conflitto che non dalla sua continuazione. Lo “status quo”, insomma, e la politica di contenimento del conflitto perseguita dal mondo arabo negli ultimi quattro anni, sembra ancora la soluzione preferibile. Né l’Occidente può sperare di ottenere i risultati comunemente attribuiti alla pace tra Israele e palestinesi in caso di accordo: la maggior parte dei problemi regionali che fomentano il fondamentalismo islamico, il terrorismo e l’instabilità regionale hanno poco a che fare con la Palestina e, anche nel migliore dei casi in cui una pace risultasse accettabile nella regione, l’odio che viene da Oriente continuerebbe a riversarsi sull’Occidente.



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