Introduzione
Una delle più ovvie banalità che si possono dire affrontando il tema della criminalità è che esistono fortissime interrelazioni tra criminalità ed economia. Se prescindiamo dal fatto che i criminali possono presentare particolari tipi di "devianze", potere e ricchezza sono i loro veri principali motori.
Questa osservazione solo di recente sembra avere avuto sufficiente attenzione da parte degli economisti, sempre molto attenti ad analizzare mondi ideali "e facilmente stilizzabili", ma con una scarsa propensione ad approfondire il reale funzionamento dell'economia.
Questa nuova attenzione è riconducibile da un lato all'utilizzazione da parte della scienza economica di tecniche che hanno permesso di cogliere la complessità dei fenomeni reali, ad esempio la teoria dei giochi, dall'altro, forse in modo più eclatante, alla sempre più diffusa coscienza dei problemi legati alla disuguaglianza e all'esplosione dell'economia criminale.
I primi saggi che hanno affrontato questi temi hanno cominciato a comparire dagli anni Settanta; ricordo, ad esempio, quelli contenuti in "The Economics of Crime and Punishment", S. Rottemberg (ed.) Washington 1973, in the Economics of Crime, R. Andreano & J.J. Siegfried (ed.) New York 1980, in T.C. Schelling Choice and Consequence, Cambridge 1984, infine in "Chicago Studies of Political Economy', G. Stigler (ed.), Chicago 1988.
In Italia i temi dell'economia del crimine organizzato, hanno ottenuto una certa attenzione solo dall'inizio degli anni Novanta.
A questo proposito si può ricordare che essi sono stati analizzati in una specifica riunione della Società Italiana degli Economisti del 1992, i cui atti sono stati pubblicati a cura di S. Zamagni in "Mercati illegali e mafie - l'economia del crimine organizzato", Bologna 1993 e nel corso del forum del 1993, organizzato dalla Commissione Parlamentare antimafia, presieduta da L. Violante, su "Economia e Criminalità", Roma 1993.
Il disinteresse degli economisti per questo problema, con l'eccezione di pochi pionieri, è una omissione colposa perché, fin dagli anni Trenta e dagli studi sull'imperfetto funzionamento dell'economia di mercato, ogni evidenza empirica aveva dimostrato l'importanza delle interconnessioni tra economia e criminalità. Anche l'economista avrebbe, quindi, potuto giocare un ruolo non secondario per prevenire e contenere eclatanti fenomeni criminali.
Per quello che è a mia conoscenza debbo osservare che poco è stato fatto anche da parte delle Istituzioni specificatamente dedicate alla lotta alla criminalità. Anche in questo caso solo pochi pionieri hanno attivato quegli strumenti conoscitivi, interpretativi e di monitoraggio che si sarebbero potuti rilevare assai utili. E, a questo proposito, non si può neppure portare come esempio il fatto che in qualche saltuario caso sia stato possibile incriminare e neutralizzare alcuni fuorilegge utilizzando strumenti fiscali.
È ancora più incomprensibile poi il fatto che, nella lotta alla criminalità organizzata, non siano stati adeguatamente applicati quegli stessi strumenti di conoscenza e valutazione economica che si sono rivelati tanto proficui quando sono stati utilizzati nel confronto (ed in alcuni casi nello scontro) tra paesi.
1. Le dimensioni e le caratteristiche dell'economia mondiale
La recente "globalizzazione" dell'economia mondiale ha avuto come conseguenza un'enorme crescita dei flussi commerciali e finanziari e delle dimensioni delle imprese. Questo fatto ha alimentato prepotentemente lo sviluppo e il consolidamento della criminalità, creando fenomeni di dimensione e portata tali da cogliere impreparati anche i più smaliziati addetti ai lavori.
Ma tutto ciò che è avvenuto negli anni più recenti è probabilmente ancora assai poco rispetto allo sviluppo che è possibile attendersi nei prossimi decenni, dopo che tutti i paesi maggiormente industrializzati avranno fatto il loro definitivo ingresso nella "società dell'informazione".
Essi saranno affiancati da altri due gruppi di paesi, di cui uno, il più, numeroso, comprende le nazioni a sviluppo intermedio dell'Asia, dell'America Latina e, almeno in parte, del bacino del Mediterraneo e dell'Europa orientale; invece il secondo comprende paesi che oggi sembrano avere perso ogni possibilità di aggancio con quelli più sviluppati, ed è prevalentemente composto da nazioni africane, asiatiche e dell'America Latina.
Per alcuni decenni gli economisti hanno parlato di "divisione internazionale del lavoro", ora possiamo trasferire questo concetto in quello di "divisione internazionale della criminalità". Ognuna delle tre aree, che hanno un diverso livello di sviluppo, assumerà, in questo contesto, un preciso ruolo.
a. Alcuni dati strutturali
Non è mio compito identificare più puntualmente i sentieri di sviluppo di questa "divisione internazionale della criminalità", né ho la strumentazione tecnica per farlo, ma questa visione complessiva del problema richiede di introdurre alcuni dati esemplificativi dell'attuale situazione che, almeno in una certa misura, possono dare un'idea delle caratteristiche dell'economia internazionale. Essi sono riferiti all'inizio degli anni Novanta e presentano complessi problemi di conversione monetaria.
I paesi più ricchi hanno un reddito pro-capite tra i 20 e i 30.000 dollari annui, quelli più poveri inferiore ai 100 dollari annui.
Paesi importanti e popolati come la Turchia (60 milioni di abitanti) hanno un reddito pro-capite inferiore ai 2.000 dollari l'anno e quindi un prodotto interno lordo (che in una certa misura può essere assimilato al fatturato di una impresa) di meno di 120 miliardi di dollari all'anno.
Per fare un confronto, il Lussemburgo, con meno di 400.000 abitanti, ha un prodotto interno lordo che è poco meno di un decimo di quello della Turchia e l'Italia, che ha una popolazione analoga a quella della Turchia, ha un prodotto interno lordo che è 10 volte.
Il prodotto nazionale lordo di molti dei paesi più poveri dell'Africa, con un elevato numero di abitanti (10 o più milioni), è inferiore al miliardo di dollari.
I paesi più grandi e maggiormente industrializzati hanno flussi commerciali in entrata e in uscita spesso molto superiori al prodotto interno lordo di altri paesi di medie dimensioni; ad esempio l'import-export statunitense, giapponese o tedesco si aggira sui 4/500 miliardi di dollari all'anno, cifra che rappresenta un valore pari a 3/4 volte l'intero prodotto interno lordo della Turchia.
b. Le grandi imprese
Per apprezzare in pieno questi dati può essere interessante confrontarli con quelli delle maggiori imprese manifatturiere; sarebbe possibile anche un confronto con le grandi finanziarie internazionali (con risultati ancor più eclatanti), ma le loro particolari caratteristiche rendono l'analisi assai complessa.
Le maggiori imprese hanno dimensioni (sotto tutti i punti di vista) confrontabili a quelli di stati mediamente sviluppati e popolati. Il prodotto nazionale lordo della Turchia, 120 miliardi di dollari, è inferiore al fatturato della General Motors, la maggiore impresa manifatturiera mondiale, ed è sostanzialmente analogo a quello della seconda, la Ford.
Il fatturato della Dailmer Benz, che è il decimo gruppo manifatturiero mondiale, è 5/6 volte maggiore del prodotto interno lordo del Lussemburgo e di poco inferiore a quello della Grecia, un paese dell'Unione Europea che ha più di 10 milioni di abitanti.
Queste poche ed approssimative cifre danno un'idea abbastanza precisa, sia pure superficiale, non solo delle diversità di reddito, individuale e nazionale, esistenti tra paese e paese, ma anche, e soprattutto, delle caratteristiche dell'economia mondiale e dei rapporti di potere tra singoli stati e grandi imprese.
È proprio della natura di queste grandi imprese multinazionali operare secondo logiche che possiamo definire "globali", così come abbiamo definito "globale" l'economia."
Questo significa che esse diversificano le localizzazioni delle loro sedi legali, amministrative, finanziarie, produttive - distribuendole nei paesi in cui ciò risulti per loro maggiormente conveniente, sia rispetto ai loro obiettivi generali sia alle necessità delle singole esigenze operative (da cui il concetto di "divisione internazionale del lavoro").
Se questi obiettivi risultano coerenti con le più generali regole di comportamento economico non nascono delle difficoltà, ma è evidente che la frantumazione delle diverse operazioni aziendali rende assai difficile ricostruire le logiche dei diversi comportamenti a chi voglia farlo dall'esterno.
Quando, invece, esiste una diffusa incapacità manageriale o, ancora peggio la malafede, questa libertà di comportamento delle imprese può creare danni enormi alla collettività internazionale, ai singoli o ad altre imprese, come è stato recentemente dimostrato dalle disavventure capitate ad una delle maggiori istituzioni finanziarie britanniche che ha scelto di operare facendo perno su due paesi che hanno o applicano controlli finanziari poco stringenti.
c. I trust criminali
Le cifre relative al giro di affari criminali sono enormi, specialmente se valutate in termini di danno economico complessivo, ma difficilmente quantificabili: il fatturato criminale italiano viene stimato tra il 10 ed il 15% del prodotto nazionale lordo del paese, cioè tra i 150 e i 200 miliardi di dollari all'anno; in questa cifra è compreso ogni tipo di attività, dai furti al traffico della droga, dall'usura all'illecito smaltimento dei rifiuti con il relativo costo di prevenzione.
L'ammontare complessivo del valore del narcotraffico mondiale viene stimato in 500 miliardi di dollari, solo una parte dei quali riconducibili alle esportazioni dai paesi produttori; nel caso della Colombia questo valore ammonterebbe a 2 o 3 miliardi di dollari all'anno.
Molto più complesso è stimare il "fatturato" criminale non per settore (droga, prostituzione, estorsioni, ecc.) ma per "impresa". Come le multinazionali industriali la criminalità organizzata tende, infatti, a crescere la propria dimensione organizzativa, ad operare in diversi paesi e a differenziare le proprie attività in tutti i settori dell'economia sia illeciti che leciti.
La mafia italo-americana o la Yakuza giapponese sono chiari esempi di questa evoluzione e generano giri d'affari (o danni economici complessivi) che possono essere valutati nell'ordine delle decine di miliardi di dollari all'anno.
Alcuni giudicano che queste cifre siano iperboliche e che sovrastimino il fenomeno criminale e giustificano la loro convinzione con l'osservazione che esisterebbe un interesse diffuso ad impressionare l'opinione pubblica; ciò può essere vero, ma le loro dimensioni, anche se ridotte della metà, restano comunque tali da giustificare ampiamente le osservazioni che seguono.
La prima è che queste cifre sono del tutto paragonabili a quelle relative al prodotto interno lordo o ai flussi commerciali di qualche paese o al fatturato di grandi imprese multinazionali.
La seconda, che discende da quanto abbiamo già detto, è che i trust criminali assomigliano sempre di più a grandi imprese e agiscono quindi secondo le logiche delle multinazionali e cioè localizzano le loro attività nelle diverse nazioni secondo delle strategie "globali" e di "divisione internazionale del lavoro".
Una conseguenza di tutto ciò è che sta diventando sempre più facile per i trust criminali giungere a controllare grandi imprese o nazioni anche di medie dimensioni che hanno già raggiunto un livello di sviluppo.
2. Istituzioni e regole per l'economia
La conclusione di tutti questi ragionamenti è che occorrono regole per l'economia e nell'economia. Esse devono essere ancora, in larga misura codificate, ma è già chiaro che devono potersi fondare su di un tessuto di istituzioni nazionali ed internazionali saldamente interterrelate tra di loro e in grado di raccogliere e scambiare informazioni e di operare fattivi interventi, ciascuna secondo le proprie competenze.
a. Una prospettiva storica
Il problema delle regole nell'economia è assai antico, ad esempio già verso il 2.000 a.C. gli assiro-babilonesi avevano cercato di imporre meccanismi autoritativi di controllo dei prezzi.
Questa esperienza fu tentata numerose volte nel secoli successivi ma sempre con esiti disastrosi. Nel 313 a.C., ad esempio, l'editto di Diocleziano cercò, con scarsa fortuna, di regolamentare prezzi e tariffe della maggior parte dei beni e dei servizi, sia ad Oriente che a Occidente dell'impero romano.
Altri tentativi furono fatti fino ai recenti anni settanta quando, a seguito del primo shock petrolifero, molti paesi occidentali emanarono precise norme di regolamentazione dei prezzi.
I risultati di 4000 anni di tentativi di controllo dei prezzi si sono rivelati disastrosi sia perché sono pratiche che contrastano con la natura stessa dell'economia, sia perché il sistema di raccolta e di gestione delle informazioni si è sempre rivelato inefficiente, sia, infine, perché le istituzioni preposte a questo compito non hanno saputo agire in modo efficace.
I sistemi di controllo amministrativo dei prezzi hanno così sempre creato non solo ampi fenomeni di evasione, ma anche speculazioni, accaparramenti, indebiti arricchimenti e gravi sperequazioni nel confronti dei più deboli.
b. Quali regole e quali istituzioni
Questo esempio storico, permette di arrivare al punto centrale della mia riflessione: sono necessarie regole coerenti gestite da Istituzioni in grado di disporre di tutte le informazioni necessarie e di assumere in tempi brevi e in modo trasparente tutte le conseguenti decisioni: queste decisioni, infine, vanno fatte rispettare.
Solo con queste regole si potranno dare risposte funzionali alle esigenze, nate dallo sviluppo di una criminalità sempre più legata all'economia che essa utilizza come mezzo e come fine.
Regole e istituzioni devono, quindi, potere operare in modo tale da favorire il funzionamento corretto dell'economia e devono essere applicabili a nazioni, a imprese e anche a singoli individui, almeno per quel che riguarda i loro comportamenti economici.
Queste regole possono avere valenza interna ed esterna. Nel primo caso deve essere possibile che siano codificate e rese disponibili tutte le informazioni che permettono di verificare le proprietà e i flussi commerciali e finanziari di nazioni, imprese, individui (ad esempio le scritture sociali, patrimoniali contabili, finanziare e commerciali).
Nel caso delle regole esterne deve essere possibile creare un complesso di norme comportamentali alle quali nazioni, imprese ed individui debbano attenersi nei confronti di altre nazioni, imprese ed individui. Nel complesso delle regole vanno ampliate, ad esempio, le norme sul commercio internazionale, sui trasferimenti di capitali, sulla tutela della concorrenza o sui comportamenti fiscali.
L'esistenza di istituzioni specificatamente preposte al mantenimento delle regole completano questo quadro, come le regole le istituzioni possono essere nazionali e soprannazionali.
c. Un esempio: la tutela della concorrenza
Le regole e le istituzioni che già esistono e che sono preposte alla tutela della concorrenza sono un esempio di come sia possibile costruire un sistema che, pure avendo obiettivi propri, può essere utilizzato anche nella lotta alla criminalità.
Le prime applicazioni di queste norme risalgono ad oltre un secolo fa, quando negli Stati Uniti si pose chiaramente il problema del confronto tra lo strapotere economico e il rispetto delle libertà individuali, tra l'abuso del potere di mercato da parte dei grandi trust commerciali e petroliferi e la sopravvivenza della democrazia.
Vennero, quindi, emanate precise regole contro le intese contrarie alla concorrenza e l'abuso di posizione dominante e furono create specifiche istituzioni (sia amministrative che giurisdizionali) con il compito di applicarle.
In cento anni non sempre i risultati raggiunti sono stati quelli sperati, tuttavia questo utile schema di riferimento è diventato patrimonio universale. Prima l'Inghilterra, poi l'Europa comunitaria e via via tutti gli altri paesi maggiormente industrializzati si sono dotati di regole e di istituzioni per la tutela della concorrenza: tra gli ultimi, e assai di recente (nel 1990) anche l'Italia.
Persino i paesi dell'Europa centro-orientali, che hanno appena modificato i loro assetti istituzionali uscendo dall'economia centralizzata, hanno deciso di dotarsi di norme analoghe. Tuttavia, e lo accenno solo di sfuggita perché esula dal tema che sto affrontando, le loro difficoltà interne non permettono loro di applicarle se non con molto travaglio, indecisione e imprecisione.
Un formidabile ostacolo a una reale integrazione delle economie è stato rappresentato dall'esistenza di norme e istituzioni che tutelano solo la concorrenza nazionale, non sono coordinate tra di loro e, qualche volta, sono addirittura, gelose delle proprie prerogative.
Questa logica non è stata ancora completamente superata: i primi passi sono stati fatti nell'Unione Europea perché le norme dei singoli paesi aderenti a essa stanno lentamente e necessariamente adeguandosi.
Da questo punto di vista l'Italia, essendo arrivata tra gli ultimi, ha avuto almeno il merito di dotarsi subito di un sistema normativo coerente con quello europeo.
Il problema è assai complesso, tanto che ci sono state trattative, appena concluse, tra Unione Europea e Stati Uniti, volte a identificare modelli coerenti e reciproci di comportamento nelle politiche di tutela della concorrenza. Contemporaneamente gli Stati Uniti stanno però minacciando di applicare le proprie norme anche nei confronti di imprese non statunitensi che comunque le contravvengano, anche se ciò avviene al di fuori del territorio federale.
Il più recente passo in avanti verso un maggiore ordine nei commerci internazionali e nei comportamenti delle imprese è rappresentato dalla recente, definitiva firma del trattato che ha fatto nascere la World Trade Organization, erede del provvisorio GATT (così provvisorio che ci sono voluti 40 anni per superarlo).
Contemporaneamente i temi della concorrenza stanno trovando altre sedi internazionali di approfondimento, ad esempio in alcune agenzie speciali delle Nazioni Unite, nelle banche Centrali e nei loro organismi di coordinamento, nella Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
Tutti questi organismi, occupandosi di verificare o raccogliere informazioni su comportamenti leciti, non potranno non rendersi conto ed evidenziare anche l'esistenza di comportamenti illeciti.
Conclusioni
Globalizzazione dell'economia e globalizzazione della criminalità richiedono, in misura sempre maggiore, regole e comportamenti coerenti.
Questo rende necessario attivare a livello nazionale e internazionale regole e istituzioni che, pure rispettose delle altrui competenze, siano in grado di interagire efficacemente soprattutto sul piano della raccolta e dello scambio di informazioni.
Queste istituzioni debbono essere, naturalmente, assai rispettose dei ruoli e delle competenze specificatamente attribuite a ciascuna, ma non fino al punto di impedire interventi efficaci e trasparenti.
Termino richiamando il concetto di trasparenza quale più importante garanzia della democrazia.